La vita vera, come il vino vero, non è prevedibile e riducibile in schemi, non si può imbrigliare in esiti pre-confezionati, va accompagnata e non costretta e riserva sempre delle sorprese. Questa è la cronaca di una giornata con Daniele Parma, vignaiolo de La Ricolla, iniziata con l’intento di incontrarsi per cucinare insieme in mezzo alle vigne e terminata con il dubbio di conoscersi da sempre.
Con l’amico Matteo Circella de La Brinca, trattoria del territorio, che ha seguito da vicino il percorso di Daniele, con cui si sono vicendevolmente influenzati nel corso degli ultimi dieci anni di crescita professionale, lasciamo la piazza del mercato di Chiavari per raggiungere Villa Durazzo a Sestri, un complesso agricolo e architettonico a due passi dalla città ma da cui non si vede altro che natura. La villa fu costruita nel Settecento dalla famiglia patrizia e dogale dei Durazzo e, da sempre, come testimoniato dalle case coloniche, oggi recuperate, la destinazione di questa proprietà è stata agricola, per la produzione di ortaggi, vino e olio. Al centro di un uliveto di nove ettari, cresce una vigna ordinata, i cui filari ospitano una vegetazione rigogliosa, di erbe e di fiori.
Superate le reti alte quasi tre metri, che difendono l’appezzamento da cinghiali e caprioli, in Liguria sempre più incontenibili, incontriamo Daniele Parma, intento a potare con sguardo sconsolato. La grandine ha messo a dura prova le viti, spogliandole delle foglie proprio durante la stagione siccitosa e esponendole alla penuria d’acqua. Molte di queste non supereranno lo shock. Ma Daniele è un combattente, lo si capisce dopo cinque minuti, e non si perde d’animo. Ottenuta la gestione di questa proprietà unica, baciata dal sole del Tigullio, mitigata dalla vicina presenza del mare e mantenuta umida dalle colline che la circondano, iniziò a strappare le fasce al roveto, per liberare gli ulivi e impiantarne di nuovi. Ma, per ben due anni, la grandine si portò via tutti i frutti. Anche quella volta non arretrò di un metro, e continuò nella sua opera di recupero di questa campagna di eccezionale qualità.
Daniele è un tipo testardo, e a me piacciono le persone con la testa dura. Nel 2004 si è separato professionalmente dalla famiglia, che conduceva un’attività di vinificazione che prevedeva l’acquisto da terzi della quasi totalità delle uve, e ha provato a produrre vino di qualità partendo da frutti coltivati in proprio. La strada che scelse allora era molto tecnica, sia in vigna che in cantina, e prevedeva molti trattamenti in vigna e vinificazioni condotte nel solco di un’enologia piuttosto invasiva. Nel 2010 poi, dopo l’incontro con vignaioli come Stefano Bellotti di Cascina degli Ulivi e Saverio Petrilli di Tenuta di Valgiano, decide di ripartire da capo, abbandonando la viticoltura, cosiddetta, “moderna” e abbracciando i principi dell’agricoltura biodinamica. Decide anche di abbandonare il sangiovese per piantare la granaccia, sinonimo di alicante e di cannonau, diffuso probabilmente dagli Spagnoli anche in Sardegna, e orgogliosamente presente in Liguria, a Quiliano, in provincia di Savona, dove Veronelli lo descrisse come uno dei migliori vini d’Italia. Il sistema di allevamento che ha scelto per la granaccia è a torrette a gemma orientata, tecnica che abbisogna di sensibilità e conoscenza della pianta, caratteristiche che Daniele ha sviluppato e incrementato negli anni.
Quando Daniele prese coscienza di utilizzare troppi prodotti, di essere schiavo di altri che gli imponevano l’utilizzo di varie sostanze chimiche, in maniera per lui inconsapevole, a costi oltretutto molto elevati, iniziò a maturare il desiderio di percorrere un’altra strada. Proprio l’incontro con Bellotti iniziò a far vacillare alcune delle credenze giovanili e a trasformarlo nell’agricoltore libero, che aveva sempre desiderato essere. Oggi utilizza in vigna solo zolfo e rame, meno di 1kg per ettaro: è una questione di coerenza. E, per coerenza, i vini vengono prodotti senza l’aggiunta di solfiti. Si tratta di un risultato agricolo, prima ancora che enologico. Una vigna sana, autosufficiente, produce uva sana, in cui lieviti e batteri sono in equilibrio dinamico, come all’interno di un corpo umano in salute, e da quest’uva si ottiene un vino che non ha bisogno di conservanti.
Daniele sembra un uomo rude, ma gli occhi gli scintillano di commozione quando guarda le sue creature, le viti che sono la sua vita.
Ci spostiamo verso un altro sito aristocratico, la Basilica dei Fieschi, chiesa del Tredicesimo secolo, fatta erigere a San Salvatore di Cogorno dalla potente famiglia genovese, che vanta ben due papi nella propria storia dinastica. Qui, a ventaglio attorno alla mole dell’edificio religioso, Daniele ha piantato il vermentino, i cui filari sono gialli di senape e bianchi di rafano che fioriscono tra le vigne, e le cui radici, che affondano il fittone in profondità, contribuiscono a ossigenare il terreno e a mantenerlo vivo. Il senso di pace e di armonia tra territorio, storia, natura e lavoro dell’uomo è davvero impressionante.
Come un padre orgoglioso dei propri figli, Daniele non può fare a meno di condurci anche al vigneto della Prioria di Sant’Eufemiano, a Carasco dove, tra muretti a secco vecchi di oltre un secolo e terrazze strappate alla montagna e oggi difese con tenacia dagli assalti degli ungulati, cresce la bianchetta genovese, interpolata, nelle fasce più basse, con altre varietà locali. Questa è una vigna-giardino, dove si pratica l’agricoltura di dedizione, in voga nei conventi certosini di secoli or sono, opposta a quella di precisione, dell’industria contemporanea.
Con dedizione quotidiana, quella appunto che si può riservare a un giardino domestico o conventuale, la vigna è stata regolata e accudita, foglia per foglia, acino per acino. Per questo queste piante non necessitano di alcun tipo di trattamento, niente di niente “Ninte de Ninte” in Ligure. “Questa è la sola agricoltura che praticherei se fossi ricco. Oggi un po’ di rame e zolfo nelle altre vigne mi danno un po’ di respiro. Ma ci arriverò”. Quanta passione e quanta ambiziosa dedicazione in queste parole! Questa vigna è davvero speciale, racconta una storia e segna il confine di una strada che, a valle, ha scelto il turismo, più o meno di qualità, e che, a monte, è ancora concentrata su agricoltura eroica, raccolta di frutti spontanei del bosco, piccolo allevamento. In questa stessa valle, qualche curva più in alto, sorge il ristorante La Brinca, alla cui storia appunto, è legata in qualche maniera anche quella de La Ricolla.
È venuta l’ora di pranzo e ci spostiamo verso la cantina dove ci accoglie un’insegna-manifesto: “Le bucce sono i miei lieviti il tempo il mio chiarificante le fecce i miei solfiti la terracotta è il mio legno e la vigna la mia cantina”. In cantina fervono i lavori perché Daniele si sta spogliando della vecchia vita e vuole quindi anche dismetterne i feticci, come l’acciaio dei tini. D’ora in poi le fermentazioni avverranno solo in cemento e gli affinamenti in anfora. I contenitori di materiale terroso già oggi occupano le stanze con grazia e ovunque si spande un buon profumo di uva.
Decidiamo per un paio di assaggi prima di cucinare qualcosa. Il primo vino è il Berette, il bianco da cui inizia la storia della maturità di Daniele Parma come vignaiolo non convenzionale, un vermentino in purezza della vigna siccitosa della basilica dei Fieschi. Il nome deriva da “berette”, le bucce dell’uva nel dialetto locale, che venivano lasciate col mosto, come nella vinificazione dei rossi, contribuendo a infondere al vino complessità e longevità. Il vino nasce nel 2013. Fino alla 2016 ne esistevano due versioni, una filtrata e una non filtrata. Poi, dal 2017, diventò un unico vino, non filtrato. Nel 2020 anche Berette iniziò a non contenere solfiti aggiunti e a evolvere, nello scambio con l’ossigeno, tramite il riposo in anfora.
Iniziamo a provare l’annata 2021, che sarà tra poco in commercio. Ha ancora bisogno di smussare qualche angolo ma la ricchezza e la complessità che già si apprezzano promettono grandi soddisfazioni. Daniele apre anche la 2020, più torbida, che si esprime più sulla bocca che al naso, ma che è egualmente piacevole. Anche grazie all’aiuto del tappo dosatore, che permette mescita e conservazione del vino, Daniele inizia a farci esplorare altre annate. La 2018 “maccaiosa”, come si dice in Liguria, con poca luce, e la 2017, annata caldissima ma che ha prodotto un vino che il riposo in bottiglia ha esaltato fino a rendere esplosivo nella versione non filtrata, con straordinarie potenzialità di invecchiamento e di evoluzione e promesse estrema longevità. Non possiamo fare a meno di versarcene un secondo assaggio.
Quando il sole fuori dalla cantina è già ben oltre il mezzogiorno, ci viene in soccorso, con una torta di riso per accompagnare i nostri assaggi, Milva, la moglie di Daniele, da sempre sua prima sostenitrice e insostituibile presenza discreta.
Ormai non si parla più solo di vino, ma i calici sono diventati una maniera per ricordare le annate, il clima, la vendemmia e, soprattutto, la vita di Daniele, che si mette a nudo nel raccontare il proprio percorso, i dubbi, le decisioni storiche, dalla filtrazione dei primi anni all’uso dell’anfora delle ultime annate. È quasi un flusso di coscienza. Capisco che questi vini non sono come suoi figli, sono il suo sangue. È lui stesso ciò che ci versa nel bicchiere, è la storia della sua vita quella che seguiamo evolvere al palato, leggendo tra le annate il suo percorso di vignaiolo, che non si è ancora arrestato.
Con generosità Daniele apre anche l’annata 2015, una delle prime, nella doppia versione filtrata e non filtrata, di cui gli restano soltanto tre bottiglie. Il confronto, lo scambio, la voglia di capire da un piccolo sorso, hanno trasformato quest’incontro in un viaggio nel tempo e nella vita. Gli assaggi proseguono ancora a lungo, spaziando nelle altre interpretazioni del Vermentino della vigna della Basilica. Da Oua affinato in anfora fino al passito Sarvaego.
Il Vermentino in questa terra dura dimostra una ricchezza che non avevo mai compreso fino in fondo. Le bucce lo rendono ricco e longevo. E l’anfora ne anticipa la godibilità che, comunque, l’invecchiamento in bottiglia, senza le pastoie dei conservanti, rende più articolata e durevole al palato.
Quella che doveva essere una mattinata conviviale, nella leggerezza, si è trasformata spontaneamente in un viaggio nella complessità, dei frutti della vite e della vita.
Quando è ormai pomeriggio inoltrato, lasciamo sul tavolo oltre venticinque bottiglie di vino da cui sono stati tratti gli assaggi. Siamo sazi del succo dell’uva, della fatica che richiede degustare con concentrazione e, soprattutto, delle parole che abbiamo scambiato, con onestà e desiderio di incontro nell’altro. Ormai è troppo tardi per mettersi ai fornelli. Daniele pesca una bottiglia di Bianchetta della vigna-giardino, il Ninte de Ninte, che si promette meravigliosa se accompagnata al nasello del Mar Ligure bollito, che infatti concluderà la serata in un’osteria del Tigullio.
Il contorno è di insalata di vigna, su cui io non posso fare a meno di versare il solito cucchiaio generoso di aceto di vino. Per tener testa all’acidità Gianluigi stappa una bottiglia de Le Verrane, la “barbera del nonno”, espressione dell’etnica identitaria, potente nella struttura e generosa nei profumi. Gianluigi racconta che il papà gli ha dato la cantina nel 1984. Lui era per un'enologia interventista, ma in vigna era biologico. “Nel 1988 ho fatto io il mio primo moscato”. Sparisce in cantina e torna con quella bottiglia, di cui sono rimasti pochissimi esemplari: Soriret vendemmia tardiva 1988, da uve moscato maturate nella vecchia vigna. È un momento intenso, come lo è l’amicizia nel convivio del desco mistico o profano.
Ormai la vigilia è diventata baccanale e pecchiamo addentando in anticipo di due giorni, anche la torta di castagne, che viene sì preparata il Venerdì Santo, ma per consumarla a Pasqua, quando lo zucchero, preziosissimo fino al Secondo Dopoguerra, era concesso.
Vittoria si sposta in cantina a etichettare, Betta si occupa di rigovernare e usciamo ancora in vigna con Alessandra, Gianluigi e il cane per due passi sotto al velo bianco, del cielo, ormai squarciato, da cui si intravvede il blu e filtrano i raggi del sole. Per l’ennesima volta ho capito che fare il vignaiolo non è un lavoro come un altro. Nel rituale tramandato tra generazioni c’è qualcosa di religioso, nella sorpresa del sapore del vino qualcosa di mistico, nell’offrire la propria storia a chi siede alla propria tavola, un’accoglienza monastica. Abbraccio i fratelli Bera, me ne vado con una bottiglia di Biancduset, annata 2007, due anni in cemento e dieci anni “sotto vela”, il capolavoro attualmente in commercio, affidatomi per santificare una prossima festa. Amen.
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