Durante la primavera abbiamo tanto invocato la pioggia per le vigne assetate che, alla fine, è arrivata tutta insieme. Dopo giorni d’acqua copiosa, in una giornata di fine maggio, quando il sole si è di nuovo fatto largo tra le nubi, sono tornato a Cascina degli Ulivi, dove mancavo da tempo.
Nelle colline del basso Piemonte che si protende verso la Liguria, Stefano Bellotti, vignaiolo resistente, antesignano di quel ritorno al rispetto del suolo che oggi diamo per scontato, aveva costruito attorno a sé una comune, un’azienda agricola policolturale, un organismo autosufficiente, in cui, tra le altre cose, produceva vini rossi e bianchi di grande potenza e complessità, tagliati su se stesso, con poche regole e molta sensibilità, capaci di sfruttare al massimo la longevità dei tannini, per permettere al territorio di esprimersi al meglio dopo molti anni di riposo in bottiglia. Tra queste etichette, dichiaro subito il conflitto di interessi, è presente una delle mie preferite in assoluto, il Filagnotti, da vitigno cortese che l’affinamento in vetro trasforma in un campione di eleganza in grado di competere con gli chardonnay dei più grandi cru di Francia.
Arrivo a Cascina degli Ulivi in una giornata di calma, con il fango sotto alle scarpe, le galline e le oche che mi corrono incontro e il profumo della terra bagnata che evapora sotto ai raggi del sole già caldo. Mi accoglie Ilaria Bellotti e, calzati gli stivali, andiamo subito in campo.“Qui siamo venti persone”, sono le sue prime parole, che raccontano la responsabilità da cui è stata investita e la complessità di un’azienda che ha molteplici vocazioni: pane, verdura, vigna, conserve, bosco. Ma il progetto di comunità non è più, logicamente, quello che aveva in testa Stefano e bisogna entrare in armonia con uno nuovo.
Raggiungiamo il grande orto di tre ettari, dove caldo e pioggia hanno spinto verso l’alto le piante infestanti, che i ragazzi che si occupano degli ortaggi sono impegnati a eradicare. Incontro Bah, un giovane del Gambia, re delle fave e Lili, dalla Colombia, che ha la mano d’oro con le fragole. Prima ancora di constatare la dolcezza inusitata di entrambi i prodotti, chi si intenda un minimo di agricoltura, ma anche chi ne fosse totalmente digiuno, non potrebbe non accorgersi di essere in un luogo dalla fertilità straordinaria, dove i vegetali, piante da frutto, fiori, foraggi e viti incluse, prosperano in una maniera viva e rigogliosa, insieme a una moltitudine di insetti e di animali che razzolano e pascolano lì attorno. Sono i profumi a lasciare interdetti, i colori e la varietà delle specie.
Raccogliamo qualche piccolo frutto mentre spilucchiamo i lamponi ancora umidi di pioggia e ci facciamo preparare un cestino di zucchine dai colori misti e una manciata abbondante delle irresistibili fave verde brillante. E poi ci dedichiamo ai regali della terra, cercando in mezzo all’erba i ricacci della cicoria, le cui foglie esterne sono molto tenaci ma nascondono un interno croccante, e raccogliamo gli steli dell’aglio, saliti verso il cielo, ma con i boccioli non ancora aperti a fiore. Facciamo incetta anche delle “gramigne”: il farinaccio, spinacino selvatico e l’amaranto, odiato dai contadini, che passano il tempo a estirparlo, ma che ho imparato ad apprezzare nelle Cicadi come ottimo vegetale da godere bollito. Ilaria mette in una sporta le uova appena deposte dalle sue galline e torniamo verso casa.
In cucina iniziamo la mondatura delle verdure, che è lunga e laboriosa ed è il vero motivo per cui al ristorante è così difficile trovarle. Mentre condanno Ilaria a sgranare le fave e, ahimè, anche a sbucciarle, che è una mia fissazione anche per quelle così fresche, se devono essere accompagnate al vino, perché le bucce risultano comunque tanniche e, come i carciofi, nemiche della degustazione, ci raggiunge Filippo Mammone, che con lei ha raccolto la sfida di dare nuova vita a questo imponente progetto, dedicandosi soprattutto alla gestione delle viti. Ci viene in aiuto con due fuoriclasse: il Filagnotti e il Montemarino, entrambi 2010.
Le vigne da cui provengono questi due cortese hanno un’età media di sessant’anni ma il Montemarino è completamente esposto a Sud, poggia su terre bianche, basiche e calcaree e veniva interpretato con due giorni di macerazione prima della pressatura. Il Filagnotti affonda invece le radici in terre rosse, acide, ferrose e viene vinificato per pressa diretta. Filippo stappa i vini e li decanta. Sono già differenti al colore, più brillante e pulito il Filagnotti, più intenso e denso il Montemarino. Mentre lasciamo le insalate a mollo arriva dal forno a legna adiacente una magnifica pizza appena stesa da Gabriela, che l’ha impastata col lievito madre, e che profuma di fumo e della passata di pomodoro prodotta nel laboratorio della Cascina. Ci concediamo una pausa. Il Filagnotti integra mineralità e grassezza, il Montemarino è più potente, materico; due bottiglie eccellenti tra cui è difficile esprime una preferenza, se non quella del cuore, del conforto della memoria di un sapore conosciuto e legato a momenti lieti. E ho già dichiarato per chi batte il mio cuore. C’è anche un secondo motivo per cui il Filagnotti mi cattura sempre, è il vino utilizzato nello studio scientifico che ho avuto il privilegio di coordinare e che, per primo al mondo, ha provato a capire se, tra vini contadini e vini industriali, vi fosse una differenza metabolica misurabile. Abbiamo quindi vivisezionato questo vino e ne conosco anche i più piccoli dettagli e, malgrado quello, lo amo ancora, come si fa con i figli.
Mentre ci diamo dentro con le preparazioni di cucina, Filippo termina la compilazione di un interessante repertorio delle bottiglie storiche presenti in cantina. I venti ettari di vigneti, con sole fermentazioni spontanee, zero solfiti aggiunti e tanta energia non imbrigliabile in protocolli e procedure, hanno prodotto sedici etichette, di cui la capostipite è il Gavi del 1977. Del trentennio ’70-’90 è presente ancora una riserva storica di quattrocento bottiglie miste. Ma anche dagli anni ’90 ai giorni nostri è stata oculatamente creata una “libreria” storica, con una riserva annuale di diverse bottiglie per ogni vino prodotto e, in particolare, 1000 all’anno per Filagnotti, Montemarino, Nibiô e Mounbè e 250-500 bottiglie all’anno per A Demûa, La Merla Bianca e il Nibiô Pinolo. La ricchezza e la complessità di questo progetto rappresenta un passato di incredibile qualità e valore, su cui può appoggiarsi solidamente il futuro di questa, come di ogni azienda vinicola contadina che, superata la fase di avvio o di riconversione, si vorrà affacciare al mercato con prodotti capaci di esprime appieno le caratteristiche di vini che, non essendo costruiti tramite la vinificazione tecnologica, hanno bisogno del tempo per liberare il proprio potenziale, per integrare le diverse componenti gustative, non limitate dai conservanti, e per evolvere con lentezza verso la maturità dell’assaggio, peraltro come sempre avvenuto per qualsiasi vino pregiato.
Ilaria prepara con grande buon gusto la tavola all’aperto, abbinando con semplicità e raffinatezza il colore del tessuto delle tovagliette con quello del cotto dei mattoni del pavimento e ingentilendo con un fiore le tavole di legno grezzo del tavolo. Non mi stupisce vista la sua sensibilità d’artista che, ancora bambina, le permise di iniziare a disegnare le etichette della cantina, iniziando da quella de La Merla Bianca. Metto in tavola l’insalata di fave al burro con lamponi e cipollotto marinato con l’aceto della Cascina; l’amaranto bollito accompagnato dai limoni che ho raccolto nel giardino di un amico in Liguria; e un piatto di farinaccio scottato e ripassato al forno. Ci sediamo per il convivio, mentre il sole risplende, gli uccellini cantano e le oche passeggiano in ordinata fila lì accanto.
Con la crema di zucchine al pepe, salvia e aglio fresco che abbiamo preparato arriva un Filagnotti 2006, che dialoga magnificamente con il pepe aromatico ma non piccante. Questo vino elegante ma non privo di glicerolo gestisce benissimo anche il piccante del peperoncino che ho appoggiato sulle uova, che sono così buone da essere loro stesse, da sole, un piatto, bollite per pochi minuti per mantenerne il tuorlo filante al punto da trasformarlo in un condimento per la cicoria, croccante e piacevolmente amara.
Ilaria e Filippo stappano i primi vini prodotti da loro: Filagnotti 2019, annata piovosa, con molte uve cadute a terra, un vino ancora molto sul frutto ma che, evolverà anch’esso, con pazienza, verso la complessità e il Montemarino 2019, che si esprime al momento sui sentori del pepe.
“Ilaria è il capo”, starà a lei decidere come condurre un’azienda dove “la gestione del denaro non è mai stata la priorità”. Insieme dovranno “capire cosa fare nei prossimi cinque anni”, se provare a rincorrere i vini di Stefano o produrre quelli della Cascina degli Ulivi.
“Tra dieci anni potremo anche dar vita anche a vini con maggiore pulizia, asciutti, più precisi” ma, di fatto, si tratta di iniziare da zero, perché il percorso di Cascina non può che passare da un nuovo inizio, basato sulla stessa terra e gli stessi valori, ma con una visione differente, frutto di una scelta personale.
Concludiamo una giornata di grande energia, sapori e profumi con un sorso di sidro, il primo prodotto in Cascina, e saluto con alcune domande nel cuore. Quale comunità? Quali vini? Quale futuro per Cascina degli Ulivi? La risposta la daranno il tempo, la fatica, il sudore, gli sbagli, i successi, le prove, la tenacia, la fortuna, la convinzione e l’azzardo. E le annate storiche garantiranno la solidità e la continuità di un progetto la cui identità non potrà che essere una scelta, una scelta d'amore verso queste vigne così uniche e generose.
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