Qual è il peso dell’eredità di Stefano Bellotti? A quasi due anni dalla sua scomparsa, siamo andati a trovare la figlia Ilaria che ha preso in mano la Cascina ripercorrendo le sue orme.
Andando verso sud da Novi Ligure, vi imbatterete in un reticolato di strette strade provinciali costeggiate a tratti da prati, campi coltivati, rovi, vigneti e bosco. Qui, dove la brezza marina incontra i venti degli appennini, sulle prime colline del Gavi sorge Cascina degli Ulivi, l’azienda agricola del mitico Stefano Bellotti.
IL FALÒ CHE BRUCIA ANCORA
In Triple “A” se si dice Cascina o Stefano senza specificare o aggiungere niente, potete stare certi che si sta parlando di Cascina degli Ulivi e di Stefano Bellotti. Cascina degli Ulivi è stata qualcosa di più di una semplice azienda agricola, una realtà unica nel suo genere, un organismo autarchico fondato e portato avanti sulla convivenza tra le persone, gli animali e le colture: oltre il vino, l’orto, i frutteti e i seminativi, le vacche, le galline e le oche, l’agriturismo, il forno e il caseificio. Stefano è stato architetto di tutto questo, agricoltore predestinato sin da bambino, vignaiolo rivoluzionario, contadino libero.
Stefano ci ha lasciato il 15 settembre 2018, senza preavviso. L’ultimo ricordo che ho di lui risale a qualche mese prima quando mi mostrò la prova delle zolle a Montemarino, come nella copertina del docufilm Resistenza Naturale di Jonathan Nossiter. L’ultimo ricordo che ho di Cascina è il falò in memoria di Stefano. Ripercorrendo oggi per la prima volta il viale di noci e amarene che separano la strada dal prato dove stava la catasta di legno, pare quasi di rivedere il falò e fa tornare il nodo alla gola.
In quella sera di festa, -così Stefano avrebbe voluto- si diceva, ci si poneva tante domande. Quale sarebbe stato il futuro di Cascina degli Ulivi senza Stefano? Ilaria Bellotti, tornata in azienda da pochi mesi, avrebbe avuto la forza di prendere in mano tutto quello che suo papà le aveva lasciato senza passaggio del testimone? La Cascina, nella sua natura multiforme, avrebbe avuto la resilienza necessaria ad assorbire il colpo? Due anni dopo sapevo che tornandoci avrei trovato le risposte.
DIREZIONE SECONDA VENDEMMIA E MEZZO
L’accoglienza in Cascina è rimasta la stessa: in ordine Bobo e Diana, i due pastori abruzzesi, e a debita distanza le oche. Dal laboratorio ci viene incontro Gabriela, panettiera ecuadoriana, in Cascina da quando aveva 17 anni. Ne approfittiamo per dare un’occhiata all’ingrediente segreto delle sue pagnotte, il lievito madre ultracentenario di Cascina.
Ilaria ci raggiunge poco dopo dalle vigne e ci sediamo intorno a uno dei tavoli all’ombra della veranda in legno di fronte all’agriturismo. Ho conosciuto Ilaria pochi giorni prima che mancasse Stefano a una degustazione a Genova, mi è capitato di ricontrarla a qualche fiera e scambiare due parole, ma di lei so poco o nulla.
“Io sono nata e cresciuta qui. Quando ho finito il liceo pensavo di iscrivermi ad agraria o enologia, ma Papà mi ha detto di scegliere qualcos'altro che mi piacesse, che a stare in vigna e in cantina mi avrebbe insegnato lui. Così sono finita a fare lettere a Verona. Dentro di me ho sempre saputo che sarei tornata in Cascina, l’università è stato anche un modo di scoprire cosa ci fosse al di fuori. A fine 2017 mio padre ha cominciato a stare poco bene e da allora sono qui.”
Da come parla e da come si muove, Ilaria mostra una consapevolezza nuova. Sembra più adulta dell’ultima volta che l’avevo vista, come se la responsabilità di prendere in mano la Cascina l’avesse fatta crescere più velocemente. E forse ne è convinta anche lei. “Partecipavo sempre alle vendemmie, ma arrivare in cantina e prendere decisioni, senza un confronto, senza un consiglio, non è la stessa cosa. Rischiando ho imparato un sacco di cose. Sono qui da soli due anni, ma mi sembra di avere 85 anni piuttosto che 25. Mio papà se n’è andato da un giorno all’altro a metà vendemmia, senza passare il testimone. Reinassance des Appellations, di cui era presidente, ci ha subito sostenuto e ha mandato ad aiutarci Alessandro Del Dotto, un giovane enologo toscano. Ci ha raggiunto anche Filippo che ci aveva già aiutato nel 2016. Siamo riusciti a finire la vendemmia e in cantina abbiamo fatto un bel trio. Nel tempo stiamo allenando il palato, a Papà bastava assaggiare il vino per sapere se era il momento giusto di imbottigliare. Mi piacerebbe aver potuto fare le scelte insieme almeno per un po’.”
Nel frattempo ci raggiunge anche Zita, madre di Ilaria e cuoca dell’agriturismo, con le mani piene di ramasin appena colti. “I miei si erano conosciuti a un Vinitaly” ci racconta Ilaria “e dopo tre mesi erano già sposati. Nonostante poi si fossero separati, appena Papà è stato male lei ha mollato casa e lavoro ed è tornata ad aiutarlo. Così per un po’ la famiglia si è riunita. Tutti dicevano che senza Stefano Cascina avrebbe chiuso o sarebbe fallita. Ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo dovuto prendere il treno in corsa e scegliere a cosa rinunciare: la farina, le mucche che erano in lattazione, e quindi anche il caseificio. L’obiettivo era concentrarsi sull’agriturismo e sulle fiere. C’era bisogno di dare un segnale forte: Cascina degli Ulivi non era finita. Oggi mi preparo alla mia seconda vendemmia e mezzo vera e propria. Ogni tanto ci guardiamo indietro e ci diciamo che siamo stati bravi. Quando saremo pronti reinseriremo anche il grano e le mucche.”
LA FORZA DELLA COMUNITÀ
Gli appassionati dei vini di Cascina degli Ulivi si dividono in due scuole: i montemarinisti e i filagnottisti, due vini che trovano l’affinità nella loro opposizione. Stefano una volta scherzando mi disse che il Montemarino era un vino di sinistra e il Filagnotti un vino di destra, finendo per rimettere in discussione le mie convinzioni in fatto di gusto personale.
Così quando Ilaria ci propone di fare un giro tra le vigne, le faccio la fatidica domanda: “Sei più montemarinista o filagnottista?” “A livello di gusto non so scegliere, per il lavoro in vigna direi Filagnotti”. Per par condicio passiamo da entrambi. Le vigne di Cascina degli Ulivi sono esemplificative delle idee e dei princìpi agricoli e filosofici sui cui Stefano ha fondato l’azienda. Alla specializzazione e alla semplificazione sono state preferite promiscuità e coesistenza tra le colture. “Gli alberi da frutta in mezzo ai vigneti ci sono costati l’esclusione dalla DOCG, io lo trovo assurdo. Alla fine nel 2015 quando la commissione ha bocciato anche il Gavi, abbiamo deciso di uscirne completamente. E così sulla falsa riga degli Jakot friulani, è nato l’Ivag.”
“L’approccio alla biodinamica non è semplice, seguiamo le orme di Papà, ma abbiamo bisogno di fare esperienza. Io e Filippo stiamo studiando tanto e in Reinassance abbiamo trovato tanti produttori amici, prima ancora che colleghi, pronti a darci una mano come Alessandro Dettori, Giuseppe Ferrua di Fabbrica di San Martino, Massimiliano Croci, Pierre Frick o Francesco Brezza di Tenuta Migliavacca che è stata la prima azienda biodinamica d’Italia nel 1964.” La conversione alla biodinamica di Stefano è avvenuta proprio grazie a Luigi, il padre di Francesco, un contadino umile, ma di estrema lungimiranza.
“Noi questo periodo di lockdown non l’abbiamo accusato più di tanto. Certo, abbiamo perso tutte le prenotazioni per l’agriturismo, ma abbiamo avuto il tempo di riorganizzarci, di imbiancare la cantina, abbiamo perfino rintracciato dei campi che non sapevamo di avere. Stefano non smetteva mai di spingersi un po’ più in là”. Girando tra le botti, il nome di una ci incuriosisce particolarmente. “La 2017 è stata un’annata molto problematica e Stefano aveva deciso di fare un’unica cuvée con tutte le uve rosse, senza sapere che nome dargli. Una ragazza napoletana che lavorava qui ha proposto U Guaio, a Stefano è piaciuto e per il momento il vino si chiama ancora così, poi vedremo.”
Quando torniamo all’agriturismo, tutta la squadra di Cascina è in fermento sotto la veranda: Gabri ha fatto la pizza. Ci sono Filippo, che supporta Ilaria in vigna, in cantina e per il commerciale, Emma, vecchia guardia della cantina, che si occupa degli ordini e della logistica, Nicola, trattorista, Madou dalla Costa d’Avorio e Bah dal Gambia, che lavorano in vigna e all’orto. “Meno male che ci sono loro” dice Zita “hanno un senso del lavoro e una resistenza che noi non abbiamo. Certo, mangiano per quattro, ma valgono per cinque.” Il pranzo è un momento di condivisione e confronto per tutti, di progettazione del lavoro e del futuro. È la forza della comunità, l’unione degli individui, a fare di Cascina degli Ulivi una realtà multiforme, un organismo che si muove, evolve e si trasforma.
ILARIA, IL CORAGGIO, LA VOLONTÀ
Dopo pranzo riusciamo a scambiare quattro chiacchere con Filippo, il compagno d’avventura di Ilaria nelle nuove vesti da vignaiola. Filippo Mammone è un avvocato romano che quasi per caso si appassiona al vino, inizia frequentando qualche corso con Porthos, si diploma sommelier e comincia a lavorare in sala, prima a Caffè Propaganda, tra i migliori bistrot della capitale votati al naturale, poi da Per Me, il ristorante stellato di Giulio Terrinoni.
“Tanti vini mi hanno toccato, ricordo un Trebbiano d’Abruzzo di Valentini bevuto con gli amici, ma il colpo di fulmine è arrivato con un Filagnotti. Così nel 2016 ho chiamato Stefano, non sapevo neanche bene cosa dirgli e gli ho chiesto se potevo aiutarlo in vendemmia. Mi ha colpito la naturalezza nella sua risposta -Quando vieni?- Quando sono tornato due anni dopo, Stefano era mancato due giorni prima.”
Quando ho assaggiato i primi vini integralmente prodotti da Ilaria e Filippo, devo ammettere che mi veniva inevitabile confrontarli a quelli di Stefano. Ai tempi mi ero detto che se non l’avessi saputo, non avrei notato alcuna differenza. Quando glielo racconto e gli chiedo se avessero sentito la pressione di non dover deludere delle aspettative “la nostra prima vendemmia” mi risponde Filippo “l’abbiamo fatta in totale incoscienza, ma la cosa bella che avevo imparato da Stefano era la semplicità di approccio. Quando si dice che il vino si fa in vigna s’intende che il vino è principalmente un prodotto agricolo. Stefano non faceva vini pensati per raggiungere un obiettivo, era un tipo estremamente pratico e pragmatico, si limitava ad accompagnarli nel loro divenire.”
“Il savoir-faire di cui sentiamo la mancanza è quello agronomico, lavorare in sinergia con la natura, ci vuole tempo per costruirlo” continua Ilaria “Stefano aveva capito che l’anima del vino è la terra, questa è la chiave: riuscire a entrare dentro all’interpretazione di un terroir per un’espressione autentica.”
Ripercorrendo il viale di noci e amarene, mi risuonano in testa alcune parole di Filippo “Cascina degli Ulivi è il sogno di un contadino libero.” Guardando di là dagli alberi non vedo più il falò in memoria di Stefano, ma Ilaria e il suo coraggio, la volontà e l’ostinazione di non volersi svegliare, di continuare a sognare. E per come ci sta riuscendo, siamo certi che Stefano ne sarebbe orgoglioso.