Non c’è nessuna droga del cibo, non almeno così potente da far innamorare, da far brillare gli occhi, da accendere di vita ciò che prima era nel sonno. Come non è mai esistita una ricetta per tramutare il ferro in oro, così quella dei cibi afrodisiaci è, purtroppo, una leggenda. Sono invece i riti e le narrazioni che precedono l’assaggio a essere in grado di evocare la passione, come scriveva Manuel Vázquez Montalbán: “Non si racconta di nessuna donna che si sia innamorata per quello che aveva nel piatto, ma ci si ricorda di molte donne che si siano innamorate perché qualcuno ha spiegato loro ciò che stavano per mangiare”. L’eccitazione dell’amore aumenta con l’attesa, che le parole dilatano nutrendo l’immaginazione. L’attesa di un cibo è enfatizzata dalla rarità, dalla ridotta stagionalità e dall’impossibilità di coltivare quell’ingrediente ma di reperirlo solo con molta pazienza, coraggio e fortuna, in una vera battuta di caccia. Per questo l’aristocrazia si è sempre solleticata con crostacei, spezie esotiche, interiora di selvaggina, funghi e tartufi mentre il peperoncino è sempre stato l’afrodisiaco del popolo.
I funghi ammiccano al cuore ma, se si esagera, ammaccano il fegato. Dal punto di vista nutrizionale vengono classificati come “verdure ed ortaggi”. Sono composti per quasi il 90% di acqua. L’apporto calorico è minimo, contengono numerosi oligoelementi, sali minerali, vitamine e sostanze aromatiche, ma anche una nutrita schiera di tossine. I funghi inoltre sono delle spugne, come le melanzane, e assorbono olio e altri grassi, che saranno responsabili dell’apporto di calorie nelle ricette a base di boleti. Ma, soprattutto, anche quelli commestibili, contengono alcune sostanze debolmente tossiche, per fortuna termolabili, che vengono cioè inattivate dalla cottura.
Tra i funghi selvatici comuni, inoltre, solo una minoranza può essere consumata cruda, come i porcini e l’amanita cesarea o ovulo reale. Anche in questo caso però sono presenti alcune sostanze che devono essere detossificate dal fegato. E il fegato ha una capacità di “pulizia” limitata, perciò non bisogna mai esagerare, soprattutto con i crudi, perché un consumo smodato di qualsiasi miceto può provocare un’intossicazione anche seria. Non solo per motivi di salute ma anche di sostenibilità, consiglio, in stagione, di raccogliere solo la quantità di funghi idonea a essere consumata fresca in famiglia, più una piccola quota da essiccare per l’inverno. Quelli essiccati, reidrati in acqua (che va buttata, come ha sempre redarguito Gualtiero Marchesi) saranno un ottimo condimento per carni, pesci e risotti. Quelli surgelati in casa invece diventeranno indigesti, perché il processo di maturazione non viene bloccato completamente dalla tecnologia domestica. E comunque, proprio perché non si mangiano tutti i giorni, direi che si possono provare, senza badare alla bilancia, nella maniera in cui erano amati dagli aristocratici francesi nel Settecento: al burro.
Scegliete i funghi autunnali, di un bel color marrone scuro, fragranti e saporiti, quelli che nascono sotto alle piante di castagno, fino a Natale, se non nevica. I cercatori più esperti, a dire il vero, li sanno scovare persino sotto alla neve. Prendete solo le cappelle, per carità, non esagerate con lo sfarzo, i gambi non buttateli, fateci un brodo per il risotto o insaporiteci l’arrosto. Evitate però di miscelare le nobili teste con patate e prezzemolo: i tuberi riservateli ai giorni di magro e il prezzemolo alla salsa del lesso. Astenetevi pure dall’impanarli in uova e pangrattato; sarà pur vero che fritto è gustoso pure un pezzo di cartone, ma questa è sempre stata la maniera migliore di occultare i difetti dei miceti non impeccabili, mortificando il sapore di quelli più integri e freschi.
Procuratevi invece del buon burro di pascolo. L’ideale sarebbe quello giallo, d’alpeggio, congelato a giugno, perché con la prima neve le nostre mucche si nutrono per lo più di cibo secco e il burro autunnale non è un granché in quanto a sapore. Affogate le cappelle finemente affettate, o intere se la vostra pentola è abbastanza capiente, in burro abbondante, intendo il doppio di quanto avete in mente, che non deve mai friggere o mutare di colore ma solamente fondersi e salire di temperatura. Lasciate sudare i funghi a fuoco bassissimo in compagnia di uno spicchio d’aglio schiacciato, privato dell’anima. Dopo quindici minuti, un pizzico di nepitella selvatica, a ragione l’unica aromatica da sempre accostata ai boleti in Toscana, e un mestolo d’acqua calda da emulsionare con un cucchiaio di legno fino a creare una crema soffice e profumata, consacreranno il capolavoro. Se non vi va di darvi arie da principi ma solamente da duchi, con la stessa tecnica e il doppio del tempo, cuocete i finferli: gialli, croccanti e odorosi, si raccolgono anche quando il freddo blocca la crescita dei più nobili cugini. Il grasso, con la sua elegante, untuosa, suadenza e il profumo intenso del fungo che vi resta intrappolato, stimolerà le papille e i recettori odorosi vostri e del vostro commensale: l’elettroshock alle antenne del piacere è garantito.
Se proprio la serata è speciale, potete però pensare di fare un investimento su un piccolo tartufo. Non ci fa piacere pensarlo, ma il miracolo del tartufo bianco d’Alba, gemma preziosa della gastronomia piemontese, lo dobbiamo ai francesi, come gran parte delle ricette dell’alta cucina subalpina e, a dire il vero, di molte altre regioni. È vero che già i Romani ne lodavano i pregi, ma i successivi mille anni di storia hanno spazzato, nell’Italia divisa in piccole signorie, molte eccellenze insieme a una certa omologazione. Quando infatti nel Settecento i cugini d’Oltralpe banchettavano con abbondanza di tubero nei convegni in parrucca dell’Ancien Régime, i nostri contadini delle Langhe il tartufo lo lasciavano ai cani e i nobili di spada della cerchia dei Savoia consideravano il profumato fungo ipogeo con scarso interesse. Già nel Cinquecento i cuochi francesi giunti a Napoli al seguito degli Angioini raffinarono i riti gastronomici della cucina partenopea, allora iberica, introducendo selvaggina, timballi e lardellature col tartufo. Ma si trattava di tartufo nero, importato inizialmente dal Perigord. Era invalsa infatti la regola, ancora oggi accademicamente inviolabile nelle scuole di cucina classica, che il tuber melanosporum, il tartufo nero pregiato che si raccoglie in inverno accanto alle radici di querce e nocciole, esprima il meglio di sé solamente cotto. Nel corso dei tre secoli successivi fiorirono infatti ricette che lo prevedevano, gradito all’Artusi, in zuppa, a lamelle sotto alla pelle di capponi, fagiani e quaglie, e messo a pezzetti nel burro con cui si farcivano cosciotti e grandi pesci. E quando fu chiaro che il medesimo esemplare poteva essere reperito in Umbria, attorno a Norcia, il viaggio più breve permise di conservarlo meglio, di utilizzarlo con meno parsimonia e di ottenere preparazioni più leggere e fragranti.
Ma se c’è qualcosa che non sopporto sono i dogmi. Infatti, il tartufo nero, ben nettato dalla terra e affettato finemente, non mi dispiace affatto crudo. Pelare il tartufo nero è invece abitudine esecrabile, come togliere il grasso al prosciutto, a meno che non si tratti dello scorzone, dono dell’estate, dalla buccia spessa, che sconta al gusto le temperature troppo miti nelle quali è cresciuto. Tra i tartufi neri da mangiare crudi invece, vale la pena di provare anche il tuber brumale, tubero invernale meno pregiato ma dalle coreografiche circonvoluzioni cerebriformi, che donano al piatto aroma ed eleganza. Qualche giovane chef ha l’abitudine di ridurlo in polvere utilizzando le nuove grattugie antiossidanti, ma la chimica non è un’opinione. É al taglio che questo fungo libera maggiormente i propri attraenti ferormoni. E poi triturare o frullare un ingrediente pregiato come l’ostrica, il caviale o il fegato d’oca è abitudine grossolana che forse poteva andar bene nella decadenza di costumi di fine Settecento.
Nel diciottesimo secolo in Francia i nuovi ricchi della borghesia cittadina iniziarono a condividere la passione di tutte le corti europee per un nuovo tipo di tartufo, non più nero e deciso ma bianco, intenso, conturbante. E l’avamposto dei Savoia in terra di Langa, permise che arrivassero a Versailles casse intere di pregiato tuber magnatum pico che, sostituito all’aglio, con cui ha in effetti in comune una piccola molecola aromatica, veniva utilizzato per rendere i piatti più digeribili. Il medesimo fungo veniva raccolto peraltro anche nelle Marche, ad Acqualagna che, all’epoca sotto l’influenza pontificia, temperava maggiormente i piaceri del teatro e della tavola rispetto ai territori governati dai laici Savoia. Poi arrivò, nel primo Novecento, Giacomo Morra, visionario del marketing alimentare, che, nemo profeta in patria, si rivolse all’estero per fare apprezzare questo eccezionale prodotto della terra e trasformò il tartufo bianco d’Alba in un vero e proprio “marchio”. E sulle tavole di tutto il mondo il tartufo nero iniziò ad essere guardato come un fratello minore. Oggi, complice il prezzo più conveniente, il nero sta ritrovando la sua dignità, pur senza voler negare la marcata differenza aromatica: mellifluo e delicato, il bianco, e dai sentori ruvidi e pieni di sottobosco, il nero. E, per rovesciare gli stereotipi, accanto al nero crudo, molti iniziano ad apprezzare il bianco cotto o, meglio, inserito all’interno di una preparazione che aumenti di temperatura ma imprigionandone il profumo. A mio parere, ad esempio, è imbattibile al momento del dolce, se viene cucinato rinchiuso in un afrodisiaco francesissimo soufflè.
Visti i costi, però, imparate a grattarvi i tartufi a casa vostra. Intanto per economia. Il prezzo dei preziosi tuberi bianchi al ristorante, quantomeno, raddoppia. Poi, il grande chef dovrebbe cucinare, grattugiare è un po’ diminutivo. Merita invece di essere profumatamente ripagato il professionista che tiri fuori dal cappello qualche ricetta meno casalinga, osando l’aromatico fungo oltre gli stereotipati abbinamenti pensati dal Morra per le masse, ma esplorando invece gli accostamenti che i sommi cuochi del passato avevano già scovato: col pesce crudo, sul brodo, con verdure e insalate, nelle salse fredde. Nella democratizzazione della cucina avvenuta nel Dopoguerra, se ci pensate, il bianco fu semplicemente sostituito al nero su paste fresche, fondute e uova.
A casa, per la vostra serata ad alto tasso di sensualità, provate gli abbinamenti che preferite, ricordandovi che due etti di tartufo, a livello di sapore, non danno un risultato molto differente di pochissimi grammi, anche perché, vista la volatilità delle sue molecole aromatiche, appena viene riscaldato dal calore della montagna di tagliatelle sottostanti, il tartufo libera il proprio profumo nella stanza, fino a svanire. Se volete andare a colpo sicuro, utilizzando una quantità minima di prodotto, fatevi consigliare da chi se ne intenda davvero e prendetene un paio molto piccoli (i tartufi acquistano un valore all’etto in base al diametro) ma molto maturi, e provateli su carne cruda e pesce crudo, a temperatura ambiente, oppure su un dolce. I profumi del tartufo sono proprio dolci, di aglio selvatico appena raccolto, di spezie orientali, di nocciole tostate e di miele d’acacia. E invadono il naso come ferormoni potenti che lasciano irretiti, attoniti, sorpresi.Il tartufo bianco, lo ripeto, checché se ne creda, dà il meglio di sé con alimenti freddi, che ne prolungano il piacere, e zuccherati, perché lo zucchero scalda il palato e ne enfatizza il profumo in maniera sorprendente.
La mia ricetta imbattibile per una serata a due è: un cucchiaio di gelato alla crema all’uovo, con un cucchiaino di olio o un cucchiaio di panna fresca di cascina e qualche granello di sale, che moltiplica sinergicamente l’effetto dello zucchero. Se questa ricetta di seduzione non funziona è perché l’impresa amorosa era disperata in partenza!
Trovare un vino che non vada bene con funghi o tartufi è davvero complesso: interagiscono in maniera elegante in qualsiasi abbinamento. Consiglio una bottiglia più importante con i funghi e una più semplice con i tartufi, perché l’ostentazione è la meno eccitante delle pratiche. Potrete provare i funghi al burro con un bianco dotato di una bella acidità come il Riesling Kabinett C.A.I. di Immich-Batterieberg o i tartufi con un rosso agile ma con molti anni di invecchiamento come il Pacina di Pacina e, se vi avanza una lamella, provate a farla cadere nel bicchiere in cui è rimasto un po’ di liquido e a lasciarcela qualche minuto prima di provare l’ultimo, sensuale, sorso.
Anche i funghi si possono cucinare col dolce, con panna, pesche, cachi, mele, agrumi e pasta frolla. In questo caso vi consiglio di abbinarli a un rhum bianco come il Clarin Communal o a un moscato d’annata come il Moscato d'Asti di Bera. Se invece volete una proposta valida sia per i funghi che crescono sopra terra che per quelli che si raccolgono sottoterra, stappate una bollicina come il Lambrusco Maestri di Podere Magia o immolate la bottiglia di champagne Terre Blanc de Noirs di Augustine che avevate tenuto da parte per le occasioni speciali. Se la serata non andrà secondo i piani, quantomeno qualche altro senso l’avrete completamente soddisfatto.