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La mia Georgia in fotogrammi

Diari di viaggio //

La mia Georgia in fotogrammi

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Il racconto “a scatti” del mio viaggio in Kakheti alla scoperta della cantina di Our Wine e del movimento di rinascita del vino georgiano tradizionale.

Ci sono vini che passano inosservati, di cui ci si dimentica il gusto, l’etichetta, a volte perfino di averli bevuti. Altri che destano curiosità, di cui ci si ricorda il nome, l’annata, le persone con cui lo si è assaggiato. E poi ci sono quei vini che emozionano, che lasciano un segno indelebile del loro passaggio. Io li chiamo vini fotografia. È come se ti lasciassero dentro il loro negativo, non è detto che siano i più buoni, ma sono quelli che si annidano nel tuo profondo. Potresti riconoscerli tra mille, si intrecciano indissolubilmente a ricordi ed esperienze ed è sufficiente sentirne il profumo per rievocarli.

Guardo la bottiglia sul tavolo. È lì da tempo ormai, a Milano dovrei averne un’altra e domani è festa. La prendo tra le mani e ne osservo l’etichetta. Tra i volti disegnati ci sono anche Soliko e Irakli. Flash. Irakli, alto dinoccolato e camicia a quadri, ci aspetta al gate quando il sole non è ancora sorto. Man mano che ci allontaniamo dal traffico cittadino senza regole, la cornice, quasi da capitale europea, di Tbilisi lascia il posto a lande desolate e struggenti, un ritratto decadente del passaggio dell’Unione Sovietica. La direzione è Kakheti, la regione vitivinicola per eccellenza del paese, in Georgia orientale. Quando arriviamo davanti alla cantina di Our Wine c’è già fermento: non sono neanche le sette di mattina e l’alambicco all’aria aperta dispensa goccia dopo goccia il distillato di vinacce locale. “Chacha” mi dice Irakli porgendomene un bicchiere pieno fino all’orlo. Capisco che sarà un viaggio difficile. 

Ne sono dentro, la bottiglia non è ancora aperta, ma ne sento già il profumo. Flash. Irakli ci accoglie nella casa. Ci stanno aspettando tutti. Tutti chi? Mi avevano parlato dell’accoglienza georgiana, ma non mi aspettavo niente del genere. La tavola imbandita è sontuosa. Ho affrontato un viaggio di quattordici ore, fanno quaranta gradi all’ombra e ho già due bicchieri di Chacha in corpo, ma mi devo sedere. I piatti freddi già in tavola, quelli caldi che escono uno dopo l’altro dalla cucina. Khachapuri, badrijiani, insalata georgiana con i pomodori più buoni della mia vita, i ravioli khinkali che al primo morso mi inondano la maglietta di brodo bollente provocando l’ilarità dei commensali. Poi Irakli mi insegna a mangiarli. La supra, il tradizionale banchetto georgiano, non è un pranzo, ma una sfilata di portate. Le conto. Nel frattempo fiumi di vino riempiono corni, brocche e tazze di ceramica. Qui i calici non esistono. Il tamada a capotavola dà il ritmo alla supra a suon di brindisi: ai figli, alla vita, ai defunti, agli anziani. Al quarto brindisi perdo il conto delle portate. Ricomincio. Sette, tredici, diciannove. Smetto di contare, sto scoppiando. Di felicità. Mi ricredo, capisco solo in questo momento che sarà un viaggio difficile.

Terra, cera d’api, incenso. Prugna, tamarindo, chiodi di garofano. Meno ne cerco e più ne trovo. E ricado nel vortice. Flash. Irakli mi fa da interprete in questo viaggio di ricerca sulla rinascita del vino georgiano. Qui è nato il vino ottomila anni fa. Qui ha rischiato di scomparire sotto il controllo prima della Russia e poi dell’Unione Sovietica. Qui è risorto dal genio di uomini come Soliko Tsaishvili. Andiamo a casa di un anziano produttore di vino del Kakheti, lui sarà la mia principale fonte sul periodo di dominio dell’URSS. Mi racconta di quei tempi, quando si poteva coltivare non più di mezz’ettaro di vigna e vinificare solo per uso personale. Il vino autoprodotto non poteva varcare la porta di casa, così è nato una sorta di “mercato nero” dove si faceva contrabbando di vino artigianale. Era l’unico modo per non perdere definitamente il vino tradizionale georgiano, quello da lunghe macerazioni sulle bucce, vinificato nelle kvevri, le anfore interrate di terracotta. Così ex produttori di vino diventavano dei rivoluzionari. Prima di indicarci la prossima tappa per la nostra ricerca, non manca di dimostrarci la sua ospitalità facendoci sedere a tavola per un altro pranzo “alla georgiana”. Ci ho quasi fatto l’abitudine.

Il tannino lacera ed è velluto al tempo stesso. Il sorso è irruento, il vino scorre fino al centro della bocca poi esplode in tutte le direzioni lottando e conquistando lingua, palato e gengive. E ti assale la voglia di morderlo nella sua densità e consistenza. Flash. Il vecchio edificio ci si para davanti con l’imponenza e l’aria dismessa che contraddistingue ogni costruzione risalente al periodo di assoggettamento del paese. Siamo di fronte all’ex fabbrica di vino sovietica. Al suo interno tank giganteschi in acciaio inox per la vinificazione che venivano poi caricati sui treni merci diretti in Russia. Così la Georgia era diventata la cantina dell’URSS. L’incontro con un ex operaio ci offre un ritratto storico del periodo in cui la fabbrica era in funzione. L’obiettivo era ottenere più vino possibile e il più alcolico possibile. Per questo si puntava a una viticoltura iperproduttiva e si aggiungevano zuccheri in grande quantità ai mosti. In quegli anni gran parte del vigneto georgiano fu estirpato per far posto ai più produttivi vitigni internazionali, con il rischio di perdere il patrimonio di biodiversità del paese con più vitigni autoctoni al mondo. Prima di lasciarci, l’operaio ci confida l’esistenza anche di una piccola stanza, che veniva gelosamente custodita sottochiave, dove venivano prodotti piccoli lotti di vino destinati allo zar.

Ogni calice, ogni sorso, ogni goccia di vino è un incontro intimo, una relazione disponibile al cambio di prospettiva. Non ci riconosciamo più nella nostra singolarità, ma solo nella nostra fusione: io e il vino diventiamo una cosa sola. Flash. Finalmente incontro Soliko. Andiamo a trovarlo nella sua casa a Batumi. Nonostante la malattia bastano poche parole per cogliere quanto sia stata una personalità forte. È stato uno dei fautori del ritorno al vino georgiano come una volta. Insieme ad altri vignaioli ha recuperato vecchi vitigni, ha perseguito l’uso dell’anfora interrata (dopo l’indipendenza georgiana dei settantaquattro produttori di anfore ne sono rimasti solo tre), ha riportato in auge le lunghe macerazioni. E poi ha fondato insieme a Irakli Our Wine, la più grande espressione dell’identità vitivinicola georgiana. Perché se c’è una cosa che mi ha lasciato questo viaggio è che se per noi il vino fa parte della cultura, in Georgia il vino rappresenta l’intera identità di un paese che ha rischiato di perderla. La Georgia è stata ricostruita insieme al vino, perché il rapporto tra nazione, popolo e liquido è viscerale, il vino qui fa parte della storia, degli scritti, dei dipinti, delle case, dei gesti, dell’ospitalità. Non c’è Georgia senza vino. Non ci sarebbe vino senza Georgia.

Riprendo tra le mani la bottiglia, “Rkatisteli Akhoebi” riporta l’etichetta. La guardo in controluce, ne è rimasto un sorso. La tappo e la rimetto al suo posto. L’ultimo flash lo tengo per domani.

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