Coltivare: curare un terreno o un vegetale, con il lavoro o altri mezzi opportuni a renderli capaci di dar frutto. Dal latino “colere”, prendersi cura.
Si sta diffondendo l’uso di riferirsi a carne coltivata parlando di carne prodotta in laboratorio, “cultured”, in inglese, che andrebbe tradotto con “ottenuto tramite coltura cellulare” e quindi artificiale, replicato appunto in laboratorio. Se analizziamo ad esempio i lieviti selezionati utilizzati per la fermentazione non spontanea del mosto, organismi geneticamente modificati ottenuti tramite processi di mutazione e selezione e riprodotti in laboratorio, nessuno penserebbe mai di definirli come microorganismi frutto di un processo naturale o di “coltivazione”, ma vi è un consenso nel definirli come lieviti di sintesi. Gli anticorpi con cui oggi per fortuna si curano diverse malattie sono “sintetizzati” in laboratorio a partire da cellule della milza di alcuni topolini e spesso di altri animali ma nessuno li definirebbe mai come “coltivati” benché ottenuti da colture cellulari: sono invece ritenuti dei farmaci biologici sintetizzati in laboratorio.
L’atto del coltivare prevede una relazione stretta con la terra, il cielo, l’aria, l’acqua e il territorio in cui si vive. In un laboratorio si preparano invece, con competenza ma pratiche molto differenti, sostanze di sintesi, farmaci biologici e prodotti da coltura cellulare estremamente utili alla vita dell’uomo ma altro dai prodotti ottenuti dai contadini con la propria fatica quotidiana. Invece chiamare la carne prodotta in laboratorio “sintetica” viene considerato, anche da molti scienziati, “sbagliato”, come spesso oggi viene indicato qualsiasi termine che non stia nei binari del lessico e del pensiero dominante.
Rispetto alla carna prodotta in laboratorio non credo invece si debba andare a cercare cosa vi sia di giusto o di sbagliato ma piuttosto provare a comprendere un fenomeno che si sta appena affacciando al mercato.
Innanzitutto, non si può nascondere che l’eliminazione degli allevamenti animali a favore di laboratori di produzione di carne di sintesi, andrebbe completamente a svantaggio dei moltissimi piccoli allevatori che, come già sta succedendo, vedrebbero ridursi di molto il proprio numero, insieme a tutta la filiera agricola e artigiana collegata, depositaria di conoscenze e capacità antiche, e a tutto vantaggio di pochissimi gruppi industriali in grado di controllare la tecnologia necessaria alla replicazione delle cellule edibili. Nulla di diverso da quando già accaduto con i semi delle colture resi prima contemporaneamente bisognosi di fertilizzanti e resistenti ai pesticidi e poi sterili, privando i contadini della sovranità alimentare.
Rispetto alla pericolosità per la salute, la carne “in vitro”, prodotta in laboratorio da colture di cellule staminali, come la fecondazione “in vitro”, non ha nulla di potenzialmente dannoso per l’uomo ma bisogna domandarsi quale sia per esso il vantaggio.
Infatti se chi mangia la carne lo fa per il sapore, il quale come sappiamo è determinato dalla qualità del cibo assunto dall’animale in vita, dalla maniera in cui ha utilizzato i propri muscoli e dal benessere che ha modificato i suoi ormoni (e infatti sono sempre più apprezzate le bistecche di animali nutriti a sola erba “grass fed” o di animali allevati con soli cerali biologici o ancora allevati allo stato semibrado) non ritroverà alcune di queste caratteristiche di gusto in un prodotto che in realtà è il surrogato di un muscolo di laboratorio e non di un muscolo che ha vissuto scambiando sostanze nutritive con l’ambiente esterno.
Se chi mangia la carne lo fa per il nutrimento, le componenti nutrizionali saranno molto scarse all’interno di questo coacervo di proteine muscolari avulse da un contesto metabolico vivente e quindi la carne “in vitro” dovrà essere addizionata di numerosi nutrienti. Per rifocillarsi di proteine ed aminoacidi ci si potrebbe quindi concentrare su legumi e verdure, senza alcun bisogno di ricorrere alla carne di laboratorio. E con l’accortezza, come per qualsiasi stile alimentare vegetariano, di assumere come integratore la Vitamina B12. Per inciso, la carne in vitro sarà carente sia di Ferro sia di Vitamina B12.
Se qualcuno sceglierà la carne in vitro per motivi di sostenibilità, il bilancio energetico di queste metodologie produttive andrà fatto in maniera più precisa in futuro. Stanno infatti comparendo su riviste specializzate i primi articoli che rivedono la quantità di CO2 prodotta da questi laboratori di produzione come superiore o equivalente a quella legata all’allevamento. Bisogna attendere dati definitivi ma, di certo, l’energia necessaria per mantenere attive tali strutture ha un impatto non indifferente.
Se i motivi della scelta sono etici, fatto salvo quanto detto sull’etica di eliminare intere filiere artigianali e contadine, bisogna sottolineare come vi sia un’etica completamente differente tra allevamenti intensivi e piccole aziende agricole a ciclo chiuso, che vivono quotidianamente con i propri animali che utilizzano nel lavoro dei campi, per la produzione di concime, per ottenere latticini e, solo in ultima analisi, per la produzione di carne. Se la barriera etica invece è la macellazione dell’animale, credo che le medesime motivazione dovrebbero valere per una produzione che parte da una biopsia effettuata sul muscolo di un bovino che, di certo, non ha dato il proprio consenso a questa pratica.
Il tema della sostenibilità in allevamento, comune a qualsiasi pratica di agricoltura, è appunto quello delle dimensioni dell’azienda agricola e dell’autosufficienza della stessa. Nella sottostante tavola ottocentesca, si evidenziavano i principi che segue ancora oggi quotidianamente Francesco Brezza nella sua Tenuta Migliavacca: l’equilibrio insito nelle piccole produzioni è l’unico che risulti davvero sostenibile per il Pianeta. (Nell'immagine in copertina Francesco Brezza e alcune delle sue vacche piemontesi). Se il problema è la sostenibilità dovrebbe essere messa in pratica con il divieto a tutte le produzioni intensive, di carne quanto di latticini e vegetali, collegata alla distribuzione e vendita su larga scala, che hanno costi ambientali e sociali enormi. Se si potesse tornare all’epoca in cui le macellerie erano presenti in ogni paese e acquisivano i bovini da contadini locali, spesso autosufficienti, di certo l’impatto del consumo di proteine animali sarebbe estremamente ridotto. Le macellerie invece stanno scomparendo. O meglio, si stanno trasformando, come la pescheria e il verduriere di qualità, in negozi di lusso. Infatti, la carne tradizionale, da animali allevati con sempre maggiore attenzione all’etica e al sapore, in spazi adeguati, e con foraggio e cereali coltivati nel rispetto dell’ambiente, non scomparirà affatto, ma sarà sempre più cara e appannaggio di pochi fortunati, come tutto il cibo buono e pulito ma dannatamente ingiusto.
L’unica seria ricetta di sostenibilità sarebbe quella di consumare metà o un terzo della carne attuale, a prezzi doppi o tripli rispetto all’attuale, ma proveniente da piccolissimi allevamenti non intensivi. Ma, si sa, la riduzione dei consumi non fa parte delle logiche del capitalismo reale.
La carne “in vitro” avrà senz’altro il proprio mercato, quello dei meno abbienti e quello dei più, che hanno il diritto di essere informati e di sapere che l’allevamento sostenibile, praticato in aziende agricole a ciclo chiuso, ha a che fare col latino coltivare, colere, prendersi cura di un territorio, dei propri campi, dei propri animali e quindi di tutti gli individui che mangeranno quei frutti della terra e del loro lavoro, cosa che l’intelligenza artificiale che manovrerà i robot dei laboratori di produzione della carne non potrà mai fare.
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