Sarà perché sono piemontese, ma adoro la carne cruda. Non proprio come da tradizione. La carne cruda infatti i contadini non la mangiavano di certo. Il bovino se lo concedevano, annualmente, per la festa comandata, mentre si cibavano occasionalmente di animali da cortile, piuttosto ben cotti. Erano stati i cuochi di corte a proporre allo Zar di consumare la carne tritata e non cotta. Fuggiti ad Amburgo negli anni della Rivoluzione, e da lì negli Stati Uniti, misero la carne amburghese sulla la griglia, battezzando l’hamburger, che tornò in Francia col nome appunto di “bistecca americana” o “steak tartare”. Che poi i tartari con questa bistecca cruda c’entrano solo nella leggenda.
Fu il geniale patron dell’Harry’s Bar di Venezia, Giuseppe Cipriani, per accontentare una nobildonna sua cliente, a cui venne prescritta una dieta che impediva la carne cotta, a inventare il filetto affettato a macchina con la “salsa universale”, di maionese condita, intitolandolo al pittore lagunare Vittore Carpaccio. Solo negli anni Cinquanta giunse ad Alba la carne alla “zingara”, poi detta albese, mortificata dall’abbondante limone prima, nobilitata dal prezioso tartufo dopo. Il popolo si adeguò finalmente all’abbondanza e iniziò a consumare, in suggestive palline adagiate su fette di limone e a volte -il cattivo gusto in cucina non ha limiti- decorate con un ombrellino di plastica, la carne trita, ripassata due volte nell’apposito attrezzo del macellaio e mortificata da limone, sale, aglio e pepe scadente in grande abbondanza. Qualcuno, per abitudine e velocità, agiva come per il ragù, passando la coscia di vitello alla mezzaluna o, anche, alla lama di un coltello. L’invenzione della tradizione si deve a un ristoratore locale che, un po’ più di trent’anni fa, ne dichiarò la certa ascendenza contadina se “battuta al coltello”.
Personalmente non mi entusiasma il premasticato e, passato l’innamoramento per la tartara, sono tornato a preferire le fettine, meglio se di sottofiletto leggermente marezzato di grasso e, se possibile, frollato per parecchie settimane. Le condisco senza succo di limone, un acido forte, che ha l’unico risultato di cuocere qualsiasi cibo, dilavando il colore e ossidando il sapore. Ho sottoposto la ricetta seguente a diversi membri delle ProLoco del circuito Monferrato On Stage, con cui cucino da anni, e, dopo un attimo di diffidenza, tutti sono stati entusiasti dell’invenzione di una nuova tradizione o, meglio, della protezione di una tradizione contemporanea a discapito della stratificazione di una tradizione altrettanto falsa ma gastronomicamente molto più corrotta. Condivido questa scoperta con voi.
1. Far tagliare a macchina delle fette finissime di sottofiletto, possibilmente di bue, marezzato di grasso e frollato all’aria per diverse settimane.
2. Preparare una miscela con aceto e sale, nella proporzione che si utilizza per cuocere la pasta (10,5 g per litro), e porla in uno spruzzino alimentare o in una bottiglietta d’acqua sul cui tappo si siano praticati alcuni forellini. Unire uno spicchio d’aglio rosa privato dell’anima e schiacchiato col palmo della mano e lasciar riposare per un’ora.
3. disporre le fette di carne in un grande vassoio ben freddo;
4. aspergere, non irrorare, la carne con la miscela preparata;
5. disporre le fette sui singoli piatti o sul piatto di portata;
6. lasciar riposare qualche minuto prima di servire o terminare con qualche complemento.
Sì, l’olio non ci va. La carne di grasso ha il proprio. Il medesimo concetto vale tra il resto anche per la carne alla brace, sempre che lo scopo non sia quello di ottunderne il sapore.
Con complementi intendo invece dei piccoli tocchi che non coprano il sapore della carne ma che, in piccolissima quantità, ne esaltino l’aroma. Se li amerete e vorrete abbondare, meglio servirli a parte, come contorno al piatto. Perché la carne cruda ha un sapore molto flebile, come quello del pesce non cotto, e rucola, parmigiano, spezie e salse in eccesso non farebbero altro che nasconderla e umiliarla tanto quanto il limone sulle ostriche, l’olio sul dentice al sale, la salsa al burro sulle capesante, la maionese sull’aragosta.
Potete invece lasciar nevicare sul piatto qualche scaglia (qualche, sic) di buccia di un buon limone insieme a una mezza girata di [pepe]; oppure un paio di lamelle di tartufo nero o bianco precedentemente condite con un po’ di sale e una goccia d’[olio]; qualche goccia di una salsa ottenuta sciogliendo nel burro di montagna, caldo ma non bollente, un’acciuga dissalata e lavata nel vino e un cucchiaio di buona panna fresca; o ancora un paio di fettine della cappella di un fungo porcino fatte stufare a lamelle finissime in padella in burro non sfrigolante insieme a un ciuffo di nepitella e fatte intiepidire prima di utilizzarle.
Per l’abbinamento omaggerei il Piemonte con un vino che, a differenza della carne cruda, ha incontrato l’ossidaizione a proposito Biancdussett.
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