Lungo la riviera ligure di levante, seguendo la stretta fascia di terra delimitata dalla costa frastagliata e rocciosa a valle e dai crinali aspri e indomiti a monte si incontrano cinque piccoli borghi che identificano uno dei territori simbolo della viticoltura eroica italiana e una tra le più importanti mete turistiche internazionali: le Cinque Terre. A condurci per mano in questo viaggio alla scoperta di questo paesaggio mozzafiato non poteva che esserci Heydi Bonanini, vignaiolo di Possa.
Risalendo la linea del tempo, le Cinque Terre dal punto di vista vitivinicolo hanno vissuto un continuo crescendo dal periodo dei Romani in poi. Se inizialmente la vite veniva coltivata esclusivamente sui cucuzzoli delle colline dove i terreni erano meno scoscesi, in seguito all’anno mille cominciò l’interminabile opera di rimodellamento del territorio che tramite la costruzione dei tipici terrazzamenti disegnano oggi le fasce parallele orizzontali su cui poggiano i filari. A decretare il successo vitivinicolo di quest’area e a giustificare un lavoro tanto minuzioso quanto faticoso volto a strappare alla natura ostile ogni singolo fazzoletto di terra coltivabile, furono senza dubbio le caratteristiche climatiche e pedologiche che facevano delle Cinque Terre un luogo di grande vocazione. La roccia, la vicinanza al mare e il sole del resto rendevano la coltivazione della vite più semplice e capace di restituire frutti maturi e densi di sapore, ma soprattutto meno soggetti alle malattie.
“Il culmine dell’espansione vitivinicola delle Cinque Terre si ha nell’immediato dopoguerra” ci racconta Heydi Bonanini “A quei tempi si contavano milleduecento ettari vitati su una superfice complessiva delle Cinque Terre di quattromila ettari. L’economia del territorio si è sempre basata su un’agricoltura di sussistenza: al 90% si viveva di vino, poi c’erano gli uliveti, i castagneti e i frutti della pesca. Ognuno dei piccoli borghi sul mare aveva un paese di riferimento nell’entroterra poco distante con cui intesseva intensi scambi sia di natura commerciale sia di forza lavoro. Ci si aiutava l’un l’altro a seconda dei periodi dell’anno e si condividevano i frutti dell’area costiera come il vino, l’olio e le acciughe, con quelli dell’area più collinare/montuosa come la farina e i formaggi. Paradossalmente nel corso della storia c’è stata meno connessione tra i cinque borghi della costa che danno il nome a tutto il territorio, rispetto alle relazioni che ognuno di essi intesseva con i paesi dell’entroterra. Non è un caso che guardando le mappe storiche delle Cinque Terre si trovino solo tre sentieri orizzontali e venti sentieri verticali che tagliano il territorio”.
Dal culmine espansionistico di questo territorio addomesticato dall’uomo, in meno di trent’anni, a causa dello spopolamento e dell’abbandono delle terre, si sono dispersi centinaia di anni di storia e la natura si è nuovamente impadronita dei suoi spazi. Le cause sono da ricercarsi nei fenomeni emigratori di chi andava a cercare fortuna oltreoceano, ma anche nella scoperta dell’uso dello zolfo contro l’oidio e di tanti altri prodotti agricoli che permisero lo sviluppo della viticoltura in tante altre zone d’Italia storicamente meno vocate, ma di certo più semplici da lavorare. (Il rapporto "ore di lavoro per ettaro" alle Cinque Terre è fino a otto volte superiore a quello della viticoltura di pianura). La conseguente comparsa sul mercato di vini a prezzi molto più economici ha poi dato il colpo di grazia all’economia di un territorio che faceva della vendita di vino uno dei suoi principali punti di forza.
“Per la mia esperienza personale” continua Heydi “il fenomeno di abbandono dei territori è avvenuto in tre step. Il primo è legato alla generazione dei miei nonni. Non avendo di ché mangiare gli uomini cominciarono ad andare a lavorare nelle fabbriche e nelle città, lasciando in mano alle sole donne la gestione delle terre. La mancanza di forza lavoro comportò inevitabilmente un iniziale fenomeno di abbandono, legato perlopiù ai terreni più impervi e di difficile amministrazione. Il secondo step è avvenuto durante il passaggio generazionale tra i miei nonni e i miei genitori ed è coinciso con il momento più buio. Fa impressione anche solo vedere le differenze tra le foto precedenti agli anni ’80 con i terrazzamenti diffusi e ordinati e qulle alla fine degli anni ’90, con la maggior parte dei terreni completamente abbandonati. L’ultimo step invece è legato al fenomeno turistico: chi ha scelto di rimanere qui ha investito nei servizi o in attività commerciali piuttosto che scommettere nuovamente sull’agricoltura. Tutto ciò ha fatto sì che oggi, nonostante si stia verificando una piccola inversione di tendenza, alle Cinque Terre si contano complessivamente meno di cento di ettari vitati”.
Le cinque “terre” sono composte da tre comuni e due frazioni: andando da ovest verso est si incontrano rispettivamente Monterosso al Mare, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. Nonostante durante i periodi di espansione ininterrotta e di antropizzazione massima del territorio la policoltura rappresentasse la norma, nel corso della storia i vari borghi si sono in qualche modo specializzati. Riomaggiore e Manarola rappresentavano i due comuni più legati al vino, a Corniglia fiorì l’orticoltura, a Monterosso andavano per la maggiore i limoneti e la pesca, mentre la lunga tradizione marinara faceva di Vernazza un paese di commercianti. “Ogni paese viveva una sua dimensione e la mancanza dei collegamenti ha creato diverse differenze nelle usanze e nei dialetti che si vedono ancora oggi”.
A dare un’identità comune al territorio ci pensa però la matrice di base dei suoli pressoché simile in tutte le Cinque Terre e formata principalmente da arenaria, ossia sabbia compatta o stratificata. “Si tratta di terreni acidi, dove la vite fatica ad attecchire nei primi anni di vita, ma che poi nel tempo garantisce grandi risultati, grazie alla combinazione unica generata dal clima, dalla natura, dalla morfologia del territorio e dall’intervento umano. Le uniche zone dove si riscontrano grandi differenze a livello di suolo si trovano all’entrata delle Cinque Terre, nella parte più vicina a Portovenere, e all’uscita, oltre Monterosso. Qui si trovano rispettivamente affioramenti di argille rosse e di serpentite che determinano suoli più basici che restituiscono uve capaci di grande finezza ed eleganza, ma con la buccia troppo sottile per impiegarle nella produzione di Sciacchetrà”.
Lo Sciacchetrà è il vino dolce simbolo del territorio, ottenuto dall’appassimento sui graticci delle uve e dalla successiva sgranatura manuale degli acini per ottenere un mosto denso, dolcissimo, ma comunque dotato di acidità importante capace di far affrontare al vino lunghi periodi di maturazione ed evoluzione. Ottenuto principalmente da uve bosco, in assemblaggio con altre varietà a bacca bianca locali tra cui albarola, vermentino e rossese bianco, lo Sciacchetrà affonda le sue origini nella notte dei tempi. “Di vini dolci in queste zone” ci spiega Heydi “ne parlano già Plinio il Vecchio e Francesco Petrarca, ma il nome ha origini più recenti e se ne trova traccia solo a partire da 150-200 anni fa. Ci sono tre studi a riguardo, il più poetico fa risalire il nome all’antico armeno, il più campanilista al dialetto ligure, mentre quello a mio parere più realistico dal latino”.
Se bosco, albarola e vermentino rappresentano la stragrande maggioranza delle uve bianche coltivate, tra le rosse si trovano principalmente bonamico e canaiolo. Nonostante ciò alcuni piccoli produttori, Heydi in primis, stanno portando avanti un minuzioso lavoro di ricerca volto alla salvaguardia di tante varietà in via d’estinzione tra cui rossese bianco, picabon, frapelao, bruciapagliai, berbarossa, galleta e pollera.
Nonostante la drastica crisi vissuta negli ultimi decenni dal vigneto delle Cinque Terre, oggi è in atto una piccola rivoluzione dal basso portata avanti da tanti ragazzi che stanno tornando a scommettere sulle potenzialità di questo territorio. Così se nel 2004 Elio Altare e Heydi Bonanini, andavano a rappresentare rispettivamente la quinta e la sesta cantina con etichetta di tutto il panorama delle Cinque Terre, oggi se ne contano ben ventisei.
“Oggi gli standard di produzione sono molto alti” racconta Heydi “Negli anni ’60 ha aperto la cantina sociale con l’intento di riunire e assemblare tutti i vini che venivano ancora prodotti dalle varie famiglie dei cinque borghi. Nei primi anni ’80 hanno capito di dover intervenire prima sulla filiera produttiva e hanno cominciato a comprare esclusivamente le uve e oggi, in controtendenza con il resto del panorama delle cantine sociali italiane, hanno alzato notevolmente l’asticella della qualità”. La chimica all’interno dei vigneti è ancora diffusa, ma le nuove generazioni vedono nei vignaioli come Heydi un saldo punto di riferimento, un esempio tangibile dei risultati ottenibili attraverso l’ostinazione e il sacrificio. “La voglia di tornare a scommettere nella viticoltura alle Cinque Terre esiste, a testimoniarlo ci sono tante giovani realtà che hanno cominciato con le idee ben chiare sul tipo di approccio che intendono portare avanti sia in vigna che in cantina. Penso specialmente a Ciancianin a Riomaggiore, a Vetua a Monterosso e a Il Foresto a Corniglia. Il grande problema però resta la burocrazia: i terreni coltivabili che si potrebbero recuperare con più facilità o sono iperfrazionati o appartengono a decine di proprietari ed è difficile metterli d’accordo o anche solo riuscire a rintracciarli”.
“Il Parco Nazionale delle Cinque Terre era nato proprio con lo scopo di salvaguardare il patrimonio dei muretti a secco e dei terrazzamenti, ma lo stesso ente fatica ad essere una concreta spinta per i giovani vignaioli che si impegnano a percorrere la via più difficile. Penso che l’obiettivo che il Parco si possa proporre oggi è di portare avanti un’ideale di agricoltura pulita: si tratterebbe di una scelta coraggiosa, ma specialmente di un modo di lanciare un messaggio importante a livello internazionale, vista anche la fama turistica del territorio. La nostra nuova sfida” conclude Heydi “è quella di riuscire a intercettare un turismo più consapevole del luogo che sta per visitare: riuscire a trasmettere le Cinque Terre non solo come cinque bei paesi sul mare, ma come un territorio vivente in ri-evoluzione e in continuo fermento, con sempre più attori impegnati a riportarlo nella dimensione di un tempo”.
Giorno 1-2: I borghi dal mare e da terra. I primi due giorni sono senza dubbio da spendere visitando uno ad uno tutti i tre comuni e le due frazioni che compongono le Cinque Terre. Se il tragitto che porta in treno da Monterosso a Riomaggiore e viceversa offre begli squarci di mare, merita anche un giro in battello da cui si può godere di una vista privilegiata sullo spettacolo unico di coste frastagliate, pendenze vertiginose e dell’incantevole opera architettonica dei terrazzamenti costruiti sui muretti a secco. Ognuno dei piccoli borghi offre un piccolo centro storico che si snoda tra vicoli, case colorate e chiese che vi faranno sentire catapultati in un’altra epoca. Trovare alloggio per la notte non è certo difficile: ogni “terra” al suo interno l’opportunità di fermarsi in piccoli appartamenti o bed and breakfast spesso affacciati sul mare o su paesaggi mozzafiato. Per mangiare invece tappa obbligatoria alla Locanda Tiabuscion a Volastra, oppure a Monterosso da Miky o da La Cantina di Miky.
Giorno 3: Santuari e viste spettacolari. Una volta che avrete imparato ad orientarvi è tempo di incamminarsi lungo i sentieri delle prime alture, quelli che portavano un tempo dai paesi sul mare a quelli dell’entroterra, per una visita ai santuari. Focaccia come pranzo al sacco e scarpe da trekking ai piedi. Nel caso vi troviate a Riomaggiore mettevi in cammino verso in Santuario di Nostra Signora di Montenero risalente a metà del 1300, se partite da Monterosso prendete la strada in direzione del Santuario di Nostra Signora di Soviore, il più antico di tutti, altrimenti consultando la Rubrica del Papo, realizzata da Heydi e dal piccolo Samuele, potrete scoprire tanti altri itinerari immersi nella macchia mediterranea che regalano panorami da cartolina. Alla sera finalmente, dopo aver scoperto gli angoli più belli delle Cinque Terre è tempo di cominciare ad assaggiarne i frutti. Da A Pie de Ma e da Ghemé a Riomaggiore e all’Enoteca Internazionale di Monterosso avrete la possibilità di fare degustazioni personalizzate per tipologia, comune o produttore o anche un semplice aperitivo.
Giorno 4: Tra i vigneti a strapiombo sul mare. L’ultimo giorno non può che essere dedicato interamente al vino con la visita ad un’azienda agricolo. Heydi sarà pronto accogliervi a Riomaggiore dove si trova il corpo centrale dei suoi vigneti. Solo camminare tra i filari scendendo e risalendo tra fasce e terrazzamenti può restituire un’idea di cosa significhi lavorare in un territorio come le Cinque Terre. Dopo aver capito come mai si parla di “viticoltura eroica” non perdetevi per nulla al mondo la tappa in cantina, non si possono lasciare le Cinque Terre senza aver assaggiato gli imbattibili Sciacchetrà di Possa, quint’essenze di uno dei territori più affascinanti del mondo del vino. Prima di lasciare Riomaggiore fermatevi almeno per un piatto al Rio Bistrot o da Dau Cila.