A spasso per la Romangia, tra storia, morfologia dei territori, vini della tradizione e gastronomia locale: il racconto della viticoltura in Sardegna, attraverso le parole e i ricordi di un narratore d’eccezione.
Nel Sassarese, tra il golfo dell’Asinara e le cime rocciose dell’Angolana e di Osilo, valli, colline e altopiani tracciano i confini di un paesaggio agricolo caratterizzato da piccoli vigneti misti ad oliveti. Qui, tre le colline calcaree di Sorso e Sennori e i suoli sabbiosi della Marina di Sorso, prende forma uno dei terroir più antichi d’Italia: la Romangia, la terra di Alessandro Dettori.

LA ROMANGIA: UNA STORIA DI VINO LUNGA TRE MILLENNI
Quando ho chiamato Alessandro e gli ho detto che avrei scritto un pezzo sulla Romangia, non mi aspettavo tutto quell’entusiasmo dall’altro capo della cornetta. Due ore e mezza dopo, quando si è conclusa la chiamata, ho capito. Alessandro non solo ama la sua terra alla follia, ma ne è profondamente orgoglioso e ha combattuto per anni, continuando a farlo ancora oggi, per valorizzare uno dei terroir più antichi, ma forse meno conosciuti d’Italia.
Effettivamente, prima di bere i vini di Dettori, della Romangia ne ignoravo perfino l’esistenza, e anche dopo averli bevuti, mi sono comunque sempre limitato a collocarli in un non meglio precisato nord ovest della Sardegna. Alessandro è un tipo alla mano, quando parla ti mette a tuo agio e quindi decido di confidargli subito le mie mancanze: “Sinceramente io in Sardegna ci sono sempre andato in vacanza e basta. Anzi, a dirla tutta, la Romangia non so neanche bene dove sia.” “Mettiti comodo” risponde Alessandro ridendo “la Romangia vanta una storia lunga, lunga circa tre millenni. Scherzi a parte, in realtà la si tratta di una regione che non circoscrive tanto una zona geografica quanto culturale.”
La Romangia infatti prende forma attorno a quella che fu la prima e unica colonia romana in Sardegna, Turris Libisonis, l’attuale Porto Torres. “I romani sicuramente incentivarono la coltivazione di vigneti ed oliveti, anche se” spiega Alessandro “le origini della viticoltura in Sardegna sono da ricercarsi nella civiltà nuragica. Hanno ritrovato un Askos intatto, una sorta di brocca da vino, che hanno datato al X secolo a.C., insomma ben prima dell’arrivo di Giulio Cesare in Romangia.”
Risalendo a passi svelti lungo la linea del tempo, la vocazione vitivinicola di quell’area inizia a vantare sempre più testimonianze cartacee, e qui Alessandro si immerge tra scritti e documenti, dal primo codice civile sardo, risalente al 1316, che vieta l’impianto di nuove viti e l’importazione di vino, a segno della più che florida economia romangina; fino a Luigi Veronelli che ne I Vini d’Italia racconta di un ottimo Cannonau di Sassari, prodotto a Sorso-Sennori, “abboccato, caldo, vellutato, armonico, gradevolissimo”.
“Abboccato?” chiedo stranito. “Certo” risponde Alessandro “qui il cannonau si è sempre fatto abboccato. Pensa ai miei vini, è difficile produrli sotto i quindici gradi alcolici. Eppure non c’è né appassimento, né vendemmia tardiva. È l’uva a portarsi dietro l’atavica necessità di generare zuccheri, senza perdere peso.”
SECCO O ABBOCCATO? IL CANNONAU E I SUOI FALSE FRIENDS
Proprio sul cannonau sardo Alessandro ha combattuto altre due delle sue battaglie, la prima proprio sul residuo zuccherino. “È una lotta che porto avanti sin dall’inizio della mia avventura nel ‘96. Mio padre non l’ha patita perché il suo mercato era esclusivamente regionale, ma io ho dovuto di volta in volta raccontare ai miei interlocutori che il cannonau sardo tradizionale è abboccato, quello secco è un’invenzione degli anni ’70 per poter vendere i vini all’estero.
Sai, uno dei motivi per cui non conosci la Romangia forse è proprio questo. Io mi ricordo che da bambino adoravo accompagnare mio padre a fare le consegna del vino, soprattutto quando bisognava portarlo ai circoli privati del centro storico di Sassari. Ogni volta un’esperienza di vita: chitarre, stornellate spinte, battute sempre pronte e fiumi di cannonau abboccato. Il popolo reclamava il vino della casa. Erano i tempi in cui non esistevano ancora i supermercati, si andava a comprare le cose buone dall’alimentari di fiducia a conduzione familiare e ognuno di loro lavorava in esclusiva con i propri selezionati fornitori, ci si fidava solo del vignaiolo e si guardava con diffidenza il vino imbottigliato, relegato solo alle grandi occasioni.
Nel secondo dopoguerra, come un po’ dappertutto, sono arrivate anche in Sardegna le Cantine Sociali, la prima proprio nella provincia di Sassari nel 1955. Così la Romangia andò a imporsi per i successivi vent’anni nel mercato regionale con il Cannonau di Sorso Sennori e i vignaioli romangini si sono ritrovati con un mercato cresciuto del doppio. Ma tra il conferire le uve alla Cantina Sociale e vedersi pagate le uve dopo un anno, la maggior parte dei vignaioli hanno preferito vendere il vino (incassando subito), già dopo due mesi dalla vendemmia, a fino 7 volte il prezzo dell’uva.
Inoltre a metà degli anni ’80 tante e importanti cantine sarde si sono avvicinate alla Romangia. Per accaparrarsi le uve migliori erano disposti a pagare di più e subito di quanto riuscisse suo malgrado la Cantina Sociale, e tutto ciò non ha potuto che portare a una lenta, ma inesorabile chiusura.
Poi nella metà degli anni ’90 il colpo di grazia: l’Unione Europea ha pagato chi era disposto ad espiantare i vigneti. Oltre un migliaio di ettari sono stati sradicati solo in Romangia, soprattutto dai piccoli vignaioli, ai quali la rigidezza delle leggi sanitare avevano impedito di continuare a fare vino.”
La Sardegna è dunque terra di cannonau, ma attenzione a tirare fuori il tema della paternità del vitigno, potreste perdervi in discussioni infinite. E quindi l’ho fatto io per voi. La seconda battaglia combattuta da Alessandro sul cannonau difatti riguarda proprio la sua origine. “Qui lo chiamiamo retagliadu nieddu, in Romangia coltiviamo il padre del cannonau”. “Ma il cannonau, non viene dalla grenache francese, anzi dalla garnacha spagnola?” ribatto con le poche reminiscenze dell’esame da sommelier. Dicono che i sardi siano un popolo molto orgoglioso, e Alessandro me ne da una piccola conferma “il cannonau non è garnacha e tantomeno grenache”.
Non so se sia anche questo un tipico tratto sardo, ma Alessandro è preciso e puntiglioso. Due giorni dopo nella mail trovo copia di un articolo del dottor Giovanni Lovicu, ricercatore di AGRIS Sardegna, il dipartimento per la ricerca nell’arboricoltura. Secondo il dottor Lovicu ci sono numerosi ragionevoli motivi per localizzare in Sardegna la patria del vitigno, proprio a partire da fonti scritte e studi della comunità scientifica italiana e spagnola.
Il canonazo di Siviglia, da cui molti farebbero discendere la garnacha, e quindi il cannonau, sarebbe un falso storico, un vitigno mai esistito. A maggior ragione considerando che ampelografi e agronomi spagnoli concordano sulla tesi della presenza in Aragona di un’uva rossa di nome garnacha solo dopo la diffusione dell’oidio e quindi sicuramente successive a testimonianze della presenza di cannonau in Sardegna. La prima risale infatti al 1549, mentre prima del 1734 “garnacha” in Spagna faceva esclusivamente riferimento a vini bianchi.

LA ROMANGIA IERI, OGGI, DOMANI. UN TERROIR DI BIODIVERSITÀ AGRICOLA E SOCIALE
Nonostante la chiusura della cantina sociale e il successivo espianto sostenuto dall’Unione Europea, che hanno di fatto limitato la promozione della regione al di fuori della Sardegna come importante territorio da vino, la Romangia rimane ancora il secondo terroir viticolo più esteso dell’isola, dopo Alghero. Il marchio Sorso Sennori ha mantenuto la sua fama nel territorio sassarese e gli oltre duecento vignaioli presenti continuano a produrre e a vendere il loro vino a prezzi ragguardevoli. In più negli ultimi vent’anni, in aggiunta a Tenute Dettori, altre diciotto cantine hanno deciso di imbottigliare in proprio, finendo per costituire una piccola comunità di vignaioli.
“Nella vita quotidiana, l’entroterra sardo inizia a due chilometri dalla costa con strade non asfaltate, posta e corrieri che non consegnano e la rete elettrica non diffusa. All’alba o prima di pranzo è facile incontrarsi nei due unici bar di Marritza, sulla strada che costeggia la Romangia, un punto di ritrovo tra noi agricoltori, ma anche per i nostri clienti o fornitori. Tra un caffè e un giornale, ci si aggiorna sull’andamento dei lavori in campagna, sulla qualità dei fornitori, sul funzionamento delle vecchie macchine agricole. Come bambini si mostra la foto del nuovo attrezzo o del nuovo trattore, dalla foto si passa alla prova il campo e allora il caffè da 10 minuti si trasforma in una giornata persa in vigna a testare il nuovo giocattolo. Insomma se si hanno lavori urgenti è meglio non passare nei due bar di Marritza.
Finalmente dopo una gestazione di oltre dieci anni, abbiamo costituito il Consorzio Terre di Romangia, col compito di valorizzare, promuovere e tutelare le nostre due denominazioni: Moscato di Sorso Sennori Doc e Romangia Igt. Proprio in quest’ultima denominazione, piuttosto che in quelle regionali Cannonau di Sardegna Doc e Vermentino di Sardegna Doc, ho trovato la luce nel 1996.
Non sempre è semplice farsi ascoltare dagli operatori se si sceglie di parlare di territorio, anziché mettere davanti il vitigno. Oggi, seppur con vent’anni di ritardo, sono contento di osservare come in Sardegna si parli finalmente di denominazione territoriali. Romangia Igt era una denominazione sconosciuta, ma era giusto investirci perché è l’unica fortemente identificativa di un luogo straordinario che ha scritto buona parte dalla storia vitivinicola dell’intera Sardegna.”
Dal punto di vista pedologico, la Romangia si trova in una precisa area di intersezione di diverse ere geologiche, un’evoluzione morfologica che ha modellato la disposizione delle sue colline ad anfiteatro verso il mare, passando dai recenti suoli alluvionali a livello del mare, a quelli collinari sviluppatisi da erosioni di calcare e marne dove la vite viene coltivata fino ai 350 metri.

Il mare, riscaldandosi e raffreddandosi più lentamente rispetto alla terra, incide sul clima mitigandolo, ma allo stesso tempo amplifica, come fosse uno specchio, l’intensità della luce e porta con sé una tipica brezza che permette ai grappoli di affrontare il caldo diurno.
Per quanto la viticoltura sia stata un’attività centrale nella storia della Romangia, la difformità geologica del territorio ha contribuito a frenare il rischio di monocoltura, fenomeno che invece ha caratterizzato numerose altre zone vocate d’Italia.
Già nel 1830, Vittorio Angius, nel Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale scriveva della Romangia: “sono terreni attissimi a tutte le specie di cultura, dei cereali, delle piante ortensi, della vigna, degli olivi, degli alberi”. Oggi, come allora, il paesaggio è un susseguirsi di migliaia di ettari tra vigneti, oliveti, frutteti ed orti. Sorso e Sennori sono paesi che ancora vivono di agricoltura e a dimostrarlo sono aspetti che rappresentano un vero e proprio patrimonio culturale del luogo, come la pratica di vendita in “perra e janna”, veri e propri mercati di frutta e verdura, allestite da anziane signore sull’uscio di casa.
LA ROMANGIA A TAVOLA
La seconda volta che lo chiamo, Alessandro mi attacca il telefono e mi scrive “scusa, sono impegnatissimo”, salvo poi mandarmi un selfie seduto al tavolo davanti a un piatto di frittelle dalla forma allungata. Terminati gli importanti impegni istituzionali mi richiama “sono i frisjoli lunghi, tipici di carnevale”. Alessandro con me trova campo fertile, ci dimentichiamo del vino, dei suoli e ci perdiamo in un excursus sulla tradizione culinaria romangina.

“La gastronomia della Romangia è legata a una tradizione contadina e trova le sue basi nelle materie prime che la terra offriva, dai grani duri per le paste e i pani, dalle verdure, alle carni pregiate, di maiale, di agnello e di pecora. Tanto che ancora oggi è diffuso il sacro rito della lavorazione annuale del maiale domestico. La prima caratteristica che differenzia la Romangia dalle altre aree della Sardegna è la presenza in ogni casa contadina di un forno in pietra, una circostanza storico-culturale che ha fatto dei romangini i maestri della cottura del maialetto o dell’agnello in forno a legna, dove tutt’ora è sono utilizzati lentisco e olivastro per dare calore, umidità e profumi alle carni.
Affacciandoci sul golfo dell’Asinara, anche il mare è entrato a far parte della nostra gastronomia. Sono ancora vivi nei nostri genitori i ricordi di tanti che da Sorso si recavano a piedi a Porto Torres per scambiare i prodotti della terra con i prodotti poveri del mare: zarrettu (zerru) e sardine che assieme alle trote pescate nel fiume Silis oppure nel grande e prezioso stagno di Platamona sempre a Sorso, venivano cotti alla griglia o cucinati in umido.
Poi quando vieni a trovarmi ti porto a mangiare lo zimino, un’esclusiva della Romangia” mi incalza Alessandro “Piatto miserabile di un tempo, oggi ricercatissimo, fatto di quinti quarti che venivano messi a cuocere su griglie incandescenti fuori dalle porte di casa. Diventava un vero e proprio rito attorno a queste graticole, con tutti intenti a osservare il savoir-faire del mastro ziminaio all’opera, sperando non abusasse del vino fin da subito. Ne esiste anche una versione di mare più raffinata: una zuppa di crostacei e pesci di scoglio, dal cappone allo scorfano scuro, dal serrano al polpo, buttati in pentola secondo una successione rigorosa. I tradizionalisti più temerari mangiano il brodo senza colarlo.”
Una settimana dopo la chiamata, Alessandro viene a trovarci in azienda. Quando suona il citofono, a precederlo è l’odore di formaggio: “Lo zimino era difficile da portare, ho preso del Pecorino di Osilo del signor Gavinuccio”. Del resto, il panorama dei pascoli collinari, non poteva che far intuire anche la grande cultura casearia del luogo. Diventato presidio Slow Food nel 2001, il Pecorino di Osilo è un formaggio che mantenuto immutato il suo arcaico procedimento, dalla cottura nella caldaia di rame, detta lapiolu, fino all’aggiunta di olio e aceto dopo la salatura per evitare muffe cattive. “È già buono dopo trenta giorni, ma raggiunge l’apice dopo 6-8 mesi di maturazione, fino ai 2 anni quando diventa veramente piccante.” Inutile dire che quelli del signor Gavinuccio Turra sono tra i migliori pecorini di tutta la Romangia.


4 GIORNI IN ROMANGIA: L’ITINERARIO DI ALESSANDRO
Quando risento Alessandro è per dirgli che ho assaggiato il Pecorino di Osilo “ho deciso, adesso che so dov’è, vengo in Romangia”. Alessandro ride e mi dice “ti preparo l’itinerario”. Dopo qualche ora trovo una mail di Alessandro: “Fatto! Già preso i biglietti?”. Poi apro l’allegato.
“Giorno 1 – Il mare è il confine azzurro della Romangia, venire a trovarci vuol dire avere la possibilità di frequentare spiagge, baie e calette di grande bellezza e diversità. A partire dalla "grande" spiaggia, quella di Platamona, che corre ininterrottamente per 26 km di sabbia fine, coperta alle spalle da una pineta di rara bellezza (tra le più grandi del Mediterraneo), per arrivare al mare blu cobalto degli scogli e dei sassi di Punta Tramontana (le cale di Li Paddimi e Perruledda) o alle baie dalla sabbia bianca e dal mare turchese di Castelsardo (Baia Ostina, Cantaredda, La Vignaccia).
Chi invece volesse spendere qualche minuto di macchina in più, potrebbe recarsi a Porto Torres e imbarcarsi col piccolo traghetto giornaliero verso l'Asinara e vivere così una giornata in uno dei Parchi Nazionali più affascinanti e selvaggi del Mediterraneo. L'Isola, con le sue biodiversità, le sue calette (Cala Sabina, Cala d'Oliva, Cala del Turco), la fauna perfettamente presente e tutelata (i famosi asinelli bianchi tra tutti) rendono l'esperienza davvero intensa, trovandosi proiettati in un angolo di natura ancora intatta.
Giorno 2 – La Romangia è terra frequentata già in epoca preistorica, fare un giro tra le bellezze nuragiche e non solo di Sorso e Sennori è un modo per passare una giornata a contatto con la storia e la natura. A partire dal mare, dove la Villa Romana di Santa Filitica appare come la traccia più importante della presenza di coloro che poi hanno nominato l'intera zona, si possono risalire le colline vitate, in un immaginario viaggio indietro nel tempo. Più infatti ci si addentra, più ci si cala nell'epoca nuragica, a partire dal grande Tempio a pozzo sacro di Serra Niedda, a Sorso, per poi arrivare proprio a Badde Nigolosu, per esplorare le presenze nuragiche della nostra terra: Tomba dei giganti di Badde Nigolosu-Oridda, la necropoli domus de janas di Serra Crabiles ed il villagio nuragico di Su Nuraghe. Tutte visitabili a piedi da Badde Nigolosu. E ancora, raggiungere Osilo, passando per San Lorenzo con i suoi mulini idraulici a soli quattro chilometri in linea d’aria da Badde Nigolosu, scavati nel calcare color panna proprio lungo la strada, per una visita al Castello dei Malaspina, fortezza del XII secolo che domina le valli e guarda il mare da 750 metri di altezza.
Vi dovesse capitare, da non perdere è l'esibizione dei cantori con chitarra, una vera gara antesignana del rap freestyle, dove i due-tre solisti (accompagnati da un solo chitarrista) sono impegnati in una competizione virtuosistica più cerimoniale che sostanziale: alla prima enunciazione del motivo fanno seguito diverse repliche (con mutamenti del testo verbale) sempre più complesse nelle fioriture e nelle variazioni. Mio nonno Giovanni Antonio ne è stato uno stimato rappresentante.
Giorno 3 – Castelsardo è certamente un borgo nel quale poter spendere una giornata spettacolare. Borgo medievale, è da anni nella rete dei Borghi più belli d'Italia e non a caso: quello che si vede dal castello, che occupa la parte più alta del borgo, è uno spettacolo unico, una visuale panoramica che abbraccia la Corsica e finisce con l'Asinara. Un borgo fondato già dai Romani (Tibula) e poi diventata fortezza fortificata da Eleonora d’Arborea, dove passare una giornata splendida tra artigianato (incredibili i cestini fatti a mano), storia (il Museo, le Chiese affacciate sul mare, la Roccia dell'Elefante) e la ... cucina. Castelsardo infatti è uno dei pochi borghi sardi che può vantare una tradizione di pesca e quindi dove si cucina, da sempre, il pesce.
Giorno 4 – La Romangia è terra di vino, per storia, tradizione e passione. Una giornata tra i produttori piccoli e piccolissimi, con le visite ove possibile alle vigne e alle cantine che spesso sono locate in paese, è il miglior modo per immergersi fino in fondo in quello che è uno degli elementi naturali della Romangia: il vino. Parlando di noi, Tenute Dettori, abbiamo la possibilità di creare un'esperienza di ospitalità completa: visita di vigne e cantina, degustazione dei vini e cena tipica, con ricette tradizionali del territorio.”
Buon viaggio!