Guida pratica alla Murgia

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Guida pratica alla Murgia

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Lu sole, lu mare, lu jentu: un percorso tra storia, climi, geomorfologia dei suoli ed enogastronomia pugliese. Alla scoperta dei volti nascosti della Murgia, svelati grazie al racconto e alla passione della famiglia Dibenedetto.

Chiedere a Valentino Dibenedetto di parlare della sua terra è vincere facile. Sin dalla prima volta che l’ho incontrato mi hanno colpito, oltre alla sua estrema precisione e al suo calore carismatico, il sentimento e la passione che lo legano indissolubilmente a Castellaneta, alla sua terra, alla Murgia. Chi tra voi ha avuto la possibilità di bere i vini de L’Archetipo sa di cosa sto parlando, perché le stesse identiche caratteristiche di Valentino si ritrovano nei suoi vini, che si fanno specchio del ritratto del produttore. Per questo, chiedere a Valentino di parlarmi della Murgia era andare a colpo sicuro: bastano infatti pochi giorni per ritrovarmi sulla mail i suoi appunti, che sono un fedele resoconto della storia, della morfologia e dell’evoluzione di questo spaccato di terra pugliese.

IL TERRITORIO MURGIANO: DAI GRECI ALLA FILLOSSERA, ALLA SALVAGUARDIA DEI VITIGNI AUTOCTONI

Delimitare il territorio della Murgia non è affatto facile, si tratta infatti di una regione molto estesa che occupa gran parte della Puglia, concentrandosi sulle provincie di Bari e di Barletta-Andria-Trani, fino a includere parti di quella di Taranto e Brindisi, a sud, e sconfinando in Basilicata, oltre la città di Matera, a nord.

“La storia della viticoltura in questa regione ha origini antichissime, già nel VII secolo a.C gli Appuli, il popolo autoctono della Puglia centrale, avevano addomesticato la vite ed erano produttori di vino, come testimoniano diversi ritrovamenti archeologici. La viticoltura però assunse un carattere crescente con l’arrivo dei Greci e con ogni probabilità è questo il periodo in cui i vitigni autoctoni hanno assistito al loro periodo aureo. Il territorio pietroso della zona barese ha sicuramente dato la massima espressione a vitigni come il primitivo, come riportano testimonianze di gente del loco e gli archivi del Museo Civico di Altamura. Il primitivo era praticamente ovunque, sia fuori le mura della città antica, sia intorno alla Cattedrale, circondata dai vigneti, da cui nasce il detto "vè càmìn ndà n'mènz aì vìgn d' là chiàzz" (vai a passeggiare in mezzo alle vigne della piazza), espressione usata per definire un nullafacente).

Altri vitigni passati da qui hanno trovato collocazioni in altre aree, come il nero di Troia e l’aleatico nel nord della Puglia, l’aglianico sulle colline ioniche (basti pensare che uno dei nomi antichi di questo vitigno è proprio “uva di Castellaneta”) e in Basilicata, il bombino nero nelle aree interne del barese e il negroamaro nel territorio salentino. Ad ogni modo questa suddivisione fa riferimento solo a una percentuale di diffusione, essendo comunque tutti i vitigni sparsi a macchi di leopardo su tutta la regione.”

Facendo un lungo salto temporale, durante il quale la storia delle viticoltura pugliese procede senza troppi intoppi, arriviamo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, quando la produzione locale ha dovuto affrontare la fillossera, che ha rischiato di far scomparire del tutto la vite. Se alcune zone furono miracolosamente risparmiate, come il tarantino e la zone del sud della Puglia, la “peste dei vitigni” lasciò la maggior parte dei produttori in ginocchio con poche prospettive di ripristino dei luoghi. “La ferita fu profonda, molti non tornarono più a produrre, estirparono i vigneti, ormai privi di vita, e diedero spazio a olivi, noci, mandorli e grano.”

Chi decise di proseguire per la via della viticoltura si trovò però davanti a un bivio: soddisfare i mercati esteri con stili di produzione internazionali o portare avanti, con fermezza, le tradizioni locali? La scelta era tra impiantare vitigni internazionali per soddisfare richieste provenienti dal settentrione o produrre con gli stessi vitigni, recuperati da aree salve. “Non fu una scelta troppo sofferta e molti, considerando la condizione economica in quel tempo, decisero di impiantare vitigni internazionali affidandosi anche ad enologi di altri luoghi.”

Tuttavia, la caparbietà e la testa dura di alcuni coraggiosi pugliesi ha permesso, nonostante le pesanti influenze, la conservazione delle radici, continuando la coltivazione dei vitigni autoctoni più celebri come primitivo, negroamaro, aglianico, nero di Troia, susumaniello, bombino nero e bianco, fiano minutolo, greco bianco, verdeca e i vari moscati, ma anche meno noti, sconosciuti anche a diversi addetti del mestiere, come maresco, marchione, impigno e bianco d’Alessano.

“Noi apparteniamo a questo secondo gruppo, abbiamo sempre creduto nelle nostre tradizioni, poiché quello che siamo è quello che eravamo. Da qui il nome L’Archetipo”.

CLIMI, SUOLI E SOTTOSUOLI: PUGLIA E MURGIA

Solitamente quando si pensa ai vini pugliesi, ci si aspetta di incontrare vini dal carattere tannico scarso o nullo, ma non è affatto così. La Puglia, essendo una regione lunga e stretta, consente di avere microclimi molto differenti da nord a sud e da est a ovest. Per non parlare delle forti escursioni termiche autunnali e primaverili, che sono fondamentali per la maturazione fenolica da cui appunto risultano vini ricchi di tannini.

“Noi siamo a quasi 350 metri sul livello del mare; la nostra zona è caratterizzata da terre rosse, limose, argillose con notevole presenza di pietrisco calcareo. L'esposizione a nord- est, insieme ai venti predominanti di scirocco e tramontana, offrono dei contrasti molto importanti, essendo questi agli antipodi l'uno dell'altro. Ecco perché le nostre produzioni hanno tannini importanti anche dopo 3-4 anni di affinamento.

Per comprendere la produzione vitivinicola in terra di Puglia non possiamo che cominciare il nostro viaggio dalla sua formazione geomorfologica” spiega Valentino “Il territorio murgiano, con le sue morbide e pietrose colline, è stato uno dei primi territori emersi dalle acque di tutta Italia”. A prova di questo, nei pressi di Altamura è stato rinvenuto nel 1999 un ricco giacimento di orme di dinosauri, collocabile tra i 150 e i 60 milioni di anni fa.

“Il paesaggio geologico si caratterizza dunque per una presenza diffusa di rocce carbonatiche, che rappresentano il sottosuolo dell’intera regione e hanno permesso nel tempo accumuli e depositi di rocce meno solubili. Ad esempio l’Avanfossa Bradanica, il territorio che da Gravina in Puglia, a Gioia del Colle, Castellaneta, Turi, Alberobello, Massafra e Polignano a mare, prima di emergere consisteva in un bacino marino, su cui si depositarono sabbie e argille. I depositi costituirono una sorta di arcipelago di isole intorno alle quali si depositarono le calcareniti, quelle che comunemente chiamiamo tufo calcareo, ricchissimo di fossili marini.”

Pulo Altamura
Porto Selvaggio spiaggetta

Nella parte centrale della Puglia, le rocce sono spesso sepolte de terreni pregni di calcio e fosforo provenienti dal carsismo, un inarrestabile processo di erosione delle rocce, dovuto alle piogge, che interessa tutta la regione. La conseguenza è la formazione delle doline carsiche (Pulo di Altamura), grotte e inghiottitoi. “Nonostante la scarsa presenza di fiumi in Puglia, il paesaggio è stato modellato dalle acque”. Dove la quantità di roccia invece è massima vengono a crearsi luoghi impervi, impossibili da coltivare, se non per il pascolo.

“Alla luce di quanto sino a qui raccontato, si intuisce che l'uomo antico e moderno ha dovuto ingegnarsi, cercando un punto di equilibrio con un territorio in alcuni periodi dell'anno molto aspro. Da una parte ha dovuto creare luoghi di raccolta per le acque piovane, chiamate localmente puscine e dall'altra ha scelto così di sfruttare le lame, ovvero solchi ricchissimi di terreno presenti tra una collina e l'altra. Le lame sono il prodotto dell'incessante ciclo delle acque. Il continuo scivolamento da monte verso valle, rendeva e rende ancora oggi questi terreni particolarmente grassi, ovvero ricchissimi di humus e nutrienti e in grado di superare lunghi periodi di siccità. La profondità considerevole, faceva sì che l'umidità si preservasse, anche nei periodi più caldi dell'anno.

Queste modeste porzioni di territorio sono bastate fino al dopoguerra. In seguito, quando si è passati alle colture intensive, purtroppo la gente del luogo, non avendo compreso a fondo la delicatezza del territorio ha tentato di allargare le colture procedendo con lo spietramento, attività che non ha portato alcun beneficio a terreni poveri di nutrienti. Al contrario, ha rovinato vaste aree molto utili alla biodiversità del territorio. Congiuntamente a questo, la sperimentazione e la sapienza, insieme al lavoro dell'uomo ha saputo scegliere i luoghi adatti alla viticoltura.”

NON SI BUTTA VIA NIENTE: LA GASTRONOMIA IN MURGIA TRA COLTURE E CULTURE POPOLARI

Quando sento per telefono Domenico, il secondo figlio di Valentino, alla ricerca di informazioni sulla gastronomia murgiana, mi risponde senza esitazione: “Devi parlare assolutamente con mia madre”. Qualche giorno dopo ricevo la telefonata di Annamariae bastano cinque minuti per capire non solo che Domenico aveva ragione, ma che Annamaria è un vero e proprio pozzo di scienza e conoscenza in materia: esattamente la persona che cercavo.

Non cominciamo da quelle che pensavo fossero le basi, il pane di Altamura, le paste fatte in casa, i formaggi o le carni, ma dalle piante selvatiche, che presto scopro essere alla fondamenta di una cucina che poggia le sue radici su una profonda cultura popolare, legata alla terra e a un passato in cui bisognava sapersi arrangiare, fare economia di casa e tirare fuori un pasto per tutta la famiglia da un terra arida e pietrosa come quella della Murgia.

“Qui abbiamo l’unica varietà di Asfodelo commestibile, quella dai fiori gialli, la chiamano Lancia del Re, ma qua preferiamo chiamarla a’vruscia. Si mangia solo il gambo, si lessa e poi o la ripassiamo in padella fino a stufarla con peperoncino e sponsali, una varietà di cipollotti locali, oppure è ottima nelle frittate. Come sapore e consistenza può ricordare un po’ gli asparagi bianchi per carnosità e dolcezza.”

Poi passiamo in rassegna tutti gli usi delle bietole campestri, da contorno per il pesce a trito per la preparazione di sfoglie di grano duro verdi da lasagna, mi racconta della borragine e mi svela i segreti per farne un tortino di acciughe senza impasto, della Cardonia, detta u’ carduncidd’, imprescindibile per i cavatelli del venerdì santo con la mollica fritta al posto formaggio o nella pasta al forno di Pasquetta, fatta in bianco con macinato, scamorza e una crosta di pangrattato, e ancora della cicorietta campestre tipicamente mangiata in tutta la Murgia insieme a un purè di fave secche, delle cime amarett’, una varietà di rucola violacea, e della portulaca, usata in Murgia ben prima che conquistasse le tavole di tutti i bistrot milanesi “pensa che Ghandi l’aveva inserita nelle 20 piante per sfamare il popolo indiano”.

Sono due però le piante selvatiche per eccellenza del territorio. La prima è il finocchietto selvatico, ingrediente indispensabile in tutti i piatti di quaresima, che con i semi storicamente marchia tutta la produzione di salumi della tradizione “qui un tempo tutti avevano il loro suino a uso familiare”. La seconda sono i lampascionidei cipollacci molto amari, ma buonissimi che si mangiano in mille modi: semplicemente lessati, schiacciati e conditi con aceto, olio, sale e pepe, ma anche arraganati, un metodo di cottura locale che assomiglia a una gratinatura, ma che non fa la crosta. Anche se la morte loro è a Pasqua, nel forno, con l’agnello e le patate”.

Finocchietto Selvatico
Asparago Selvatico
Cardoncello Selvatico
Ferula
Asfodelo
Asfodelino dal fiore giallo

Tutta la nostra cultura gastronomicami spiega Annamaria si basa sul non buttare via niente. Ci sono tre piatti famosi che non sono altro che un modo per dare una nuova vita al pane raffermo di Altamura, uno dei pochi pani da farine di grano duro, con la tipica crosta a corteccia di mandorlo”. Mi perdo nelle differenze tra cutturidd’ e callaredd’, due preparazioni a metà tra il brodo e in consommé di agnello, il primo firmato dal finocchietto e dalle aromatiche del posto, principalmente alloro e timo serpillo, il secondo invece più lanciato verso le piante amare, per poi ritrovarmi nell’unico dei piatti che avevo già sentito, la cialledd’, “un brodo con patate, sponsali, pomodori del pendolo a cui si aggiungono olive amare a fine cottura e un filo d’olio. Quando era bambina a volte si faceva la sera prima per colazione, sai, si andava a lavorare in campagna e c’era bisogno di energie”.

Ingenuamente chiedo se i pomodori del pendolo siano una varietà tipica del luogo, provocando l’ilarità di Annamaria: “No, si tratta di pomodori, tipo i ciliegino, che d’estate vengono legati a grappolo intorno a uno spago, la cocch. Con questo metodo abbiamo pomodori freschi tutti l’anno, senza dover usare quelli delle serre.”

Mentre continuo a stupirmi di quanto sia stato stupido in questi anni a limitarmi a non mangiare i pomodori d’inverno, ripromettendomi di imparare a fare i pomodori del pendolo, Annamaria spazia tra tutte le preparazioni dell’agnello, dai gnummuredd’, piccoli gomitoli di coratella avvolti nell’intestino e passati sulla brace, fino alla pecora alla ‘rzzaul, fatta tipicamente con le ciavarre, ossia le pecore sterili, che non potevano dare più latte o agnellini, cotte nei forni del pane insieme a pezzi di pecorino, salami ed erbe amare, in brocche di terracotte chiuse, che ne permettono una cottura senz’acqua e senz’olio. “Questa è una ricetta tradizionale, le cui origini si perdono nei tempi, ma il signor D’Ambrosio, macellaio di Altamura, è riuscito a portarla al grande pubblico: la pecora alla ’rzzaul dalla Murgia è arrivata fino a New York.”

In Murgia c’è anche ci ha recuperato una razza di pecore in via d’estinzione, la gentile di Altamura, una pecora magra, ma capace di sopravvivere anche d’estate in territori segnati dalla siccità e dalla scarsa vegetazione, “fino agli anni ’60 la loro lana era molto ricercata” mi racconta Annamaria “se ne facevano i materassi per la dote matrimoniale, e se avevi un materasso di lana gentile significava che era un matrimonio di tutto rispetto”.

Come saprai” continua “l’alimentazione degli animali è importante e si riflette nella qualità e nel sapore del latte” e ancora una volta capisco quanto le erbe selvatiche stiano alla base di tutta la gastronomia del territorio, quando mi racconta dei pecorini maturati nelle grotte naturali che sprigionano sapori per gli abitanti del luogo inconfondibili: finocchietto selvatico e timo serpillo. “Oltre a quelli di pecora, abbiamo anche tanti formaggi vaccini, provole, caciotte e, a prova che qua non si spreca nulla, la ricotta invenduta viene fatta fermentare sotto sale e diventa ricotta forte, con cui su condiscono le paste o si farciscono i panzerotti”.

Ne approfitto e le chiedo ancora qualcosa sulla pasta fatta in casa e colpisco nel segno, se c’è una cosa che Annamaria ha profondamente a cuore sono proprio i cereali. “Qui a L’Archetipo investiamo nella custodia dei grani antichi, che hanno una struttura dei componenti nutrizionali estremamente proporzionata, dal farro monococco, il progenitore di tutto i frumenti, al frassineto, alla germanella, al gentil rosso, fino alla saragolla rossa del Molise, una varietà che abbiamo recuperato a partire da tre singole spighe. Io li uso tutti integrali proprio per una questione nutritiva e, oltre ovviamente al pane da lievito madre, ci faccio i cavatelli e le orecchiette che sono le paste principe della Murgia, ma anche i dolci”.

Quando saluto e ringrazio Annamaria per il tempo che mi ha dedicato e la passione che mi ha saputo trasmettere, sono stremato, non tanto per le due ore di telefonata, ma per la fame insaziabile che mi è salita, nonostante siano le dieci di mattina. Mi riprometto di andare al più presto in visita da L’Archetipo, mascherando in un viaggio di lavoro, la mia incontenibile voglia di assaggiare la cucina di Annamaria. Più ripenso a quanto mi ha raccontato, a quante cose vorrei assaggiare, più capisco che dovrei starci almeno quattro giorni. Riprendo in mano gli appunti di Valentino, perché va bene mangiare, ma già che si è lì, un giro della zona diventa obbligatorio.

Foto di Rocco Casalucci
Foto di Rocco Casalucci

LA MURGIA IN 4 GIORNI, L’ITINERARIO DI VALENTINO

Giorno 1: Se amate la storia, la scelta è difficile, le testimonianze dal Paleolitico in poi sono innumerevoli e bisogna fare una scelta: Canne, Canosa di Puglia, Andria, fino a scendere al famosissimo sito Unesco di Castel del Monte, un castello unico al mondo nel suo genere, una visita suggestiva, con il suo portale direzionato vero Gerusalemme per volontà di Federico II di Svevia.Dal castello al territorio circostante, il paesaggio cambia e assume il colore della roccia calcarea contornata dal verde lussureggiante della primavera o dal brullo della stagione secca e calda. Fermatevi fino al tramonto e potrete scorgere le luci della vicina Ruvo di Puglia, una città dall’atmosfera antica, che conserva il suo carattere prestigioso. In passato protetta da Atene e importantissima Polis della Magna Grecia, Ruvo di Puglia ospita il bellissimo Museo Nazionae Jatta. Tappa imprescindibile è il ristorante Mezza Pagnotta di Francesco Montaruli, profondo conoscitore, conservatore e seguace della saggezza contadina, pastorale e botanica, dei ritmi biologici e della preparazione e trasformazione dei doni del Parco dell’Alta Murgia.

Giorno 2: La storia della Murgia passa dalla città del pane per eccellenza, Altamura, che presenta una dei centri storici e più grandi d’Europa, un vero unicum, grazie alle presenza dei Claustri, piazzette più o meno ampie delimitate dalle abitazioni che vi si affacciano con stili architettonici spesso diversi tra loro. Inoltre la città ospita nel suo territorio la più grande dolina carsica d’Europa e il più grande giacimento al mondo di orme dei Dinosauri, per non parlare della Cattedrale, voluta da Federico II di Svevia, un tempo accerchiata da vigneti e da un importante pozzo dove i cittadini recuperavano le acque. Se vi avanzasse del tempo, a soli diciotto chilometri, varcando il confine con la Basilicata, non potete farvi scappare una visita ai famosi Sassi di Matera. Al languorino della sera ci si può recare in uno dei luoghi dove la ristorazione incontra tradizione e innovazione, "Origini" di Marco Cipriani, che potrà soddisfare sia i ricercatori della cucina del luogo, sia coloro che amano le contaminazioni tra prodotto locale e non.

Sassi di Matera
Trulli

Giorno 3: Una giornata è da dedicare a Castellaneta, città del mito di Rodolfo Valentino, conosciuta anche per la notevole presenza di ipogei ad uso vinicolo, costruzioni sotterranee utilizzate non solo per la trasformazione delle uve, grazie ai palmenti, ma anche per l’affinamento dei vini. A 8 km dalla città, in direzione Gioia del Colle, c’è la nostra azienda agricola L’Archetipo. Insieme, visiteremo la vigna condotta con il metodo dell’agricoltura sinergica al fine di comprendere l’importanza dei sistemi complessi e la cantina in tufo in cui produciamo e affiniamo i nostri vini territoriali. Elementi caratterizzanti del nostro territorio sono le Gravine carsiche, incisioni erosive profonde anche più di 100 metri, molto simili ai Canyon, scavate dalle acque meteoriche nella roccia calcarea. Le gravine rappresentano l’habitat ideale per molte specie animali e vegetali, basti pensare che la gravina di Laterza, una delle più importanti insieme a quella di Gravina e di Castellaneta, ospita l’avvoltoio capovaccaio, una specie in via d’estinzione dalla bellezza indescrivibile. Il comprensorio delle gravine è luogo di escursioni organizzate a piedi o in bici e a 40 minuti di auto si trovano le bellissime e maestose Grotte di Castellana, vere e proprie opere d’arte del carsismo. Giunta sera, il centro storico diventa cornice di magnifici scorci ed è possibile cenare presso Locanda Romanelli, in grado di raccontare attraverso le pietanze le varie sfaccettature pugliesi.

Giorno 4: Sarebbero ancora tante le mete disponibili e tutte allo stesso piano. Qui il viaggiatore, deve far fede stretta alle proprie passioni e interessi, senza sentirsi in ammanco di qualcosa. Le mete vanno dai preziosi trulli di Alberobello, al Belvedere di Locorotondo in Valle d’Itria, sino a scendere sul mare incontrando Polignano a Mare. Continuando verso il Salento, una tappa fondamentale è l'area del Fasanese. Ancora dopo si entra in terra di Salento e qui davvero l'avventore dovrà scegliere se andar per borghi del leccese, molto particolari come l'Abbazia di Santa Caterina in Galatina, una perla dagli affreschi rinascimentali simili a quelli dell'Abbazia di San Francesco d’Assisi o se andare per costa, raggiungendo Otranto, con il suo porto fortificato a protezione della città antica. C'è davvero l'imbarazzo della scelta. Si può andare per le strade del vino, degli olivi secolari o dei famosi Menhir paleolitici sparsi. Per non parlare della costa Jonica dalle notevoli bellezze e dal mare cristallino di Talsano, Pulsano, San Pietro in Bevagna, Punta Prosciutto, Leverano e Porto Cesareo. Nel caso scegliete questa via la sosta è obbligatoria da Le Dune di Giovanni Grandioso. Per i ricercatori dell'ottimo vino, un’ardua scelta tra ottocento etichette, che accompagnerà l'ottima cucina, una fusion tra la sperimentazione in incontro con la tradizione della più ricercata cucina salentina“.

Buon viaggio!

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