Forse sarete convinti del contrario, ma secondo me siamo un po’ prevenuti verso gli altoatesini. A seconda dell’umore gli ricordiamo che sono italiani, gli diamo degli austriaci o, dimostrando una certa ignoranza geografica, addirittura dei tedeschi. Gli altoatesini sono altoatesini e fieri di esserlo. Ma il punto non è questo, il punto è che per la mia esperienza, gli abitanti di questo luogo conciliano l’accoglienza e il calore umano italiano, con il rigore e la precisione che spesso poco ci appartengono. Per questo sapevo che con l’aiuto a Martin Gojer di Pranzegg, avrei potuto tracciare un ritratto del luogo, tanto puntuale quanto emozionale.
“Mi piacerebbe molto raccontare il mio territorio, ma l’italiano scritto non è il mio forte” mi confessa Martin. “È il mio lavoro” ribatto io “e nonostante il tuo territorio mi piaccia da impazzire, non potrei raccontarlo senza il tuo aiuto”. Trovato il terreno di gioco comune, il primo aspetto da affrontare è quello di tracciare i confini della zona, la conca di Bolzano. “Conca viene da conchiglia e già questo ci dà una precisa idea della conformazione del territorio: un’entrata importante che non prevede vie d’uscita” spiega Martin. Salendo infatti verso nord dalla Val d’Adige, Bolzano si trova circondata dalle montagne, valli ardue e selvatiche che fino a duecento anni fa erano sostanzialmente invalicabili.
“Questa condizione geografica comporta una grande influenza sul clima, determinato dall’ora del Garda, un vento che risale la Val d’Adige, molto caldo d’estate e molto freddo d’inverno, senza possibilità di ricambio d’aria.”
“I primi segni della viticoltura sono databili attorno al 500 a. C, ben prima dell’arrivo dei Romani. L’area era abitata dai Reti, una popolazione locale di agricoltori che facevano vino e già usavano le botti di legno”. Ma come un po’ dappertutto il vero impulso alla viticoltura avvenne proprio con l’arrivo dei Romani intorno agli ultimi decenni del primo secolo a.C., che subito intuirono la grande vocazione della zona. Dopo centinaia d’anni di grande floridità, la viticoltura intera viene messa a repentaglio con la caduta dell’Impero, fino a una vera e propria operazione di salvataggio, portata avanti da monasteri e abbazie di confraternite di Svevia o di Baviera. “Grazie al loro instancabile lavoro, oltre alla produzione di molti scritti, fu fatta una vera e propria mappatura dei migliori vigneti, tra cui viene anche nominato Campill, dove faccio la mia schiava liberata. In questo modo attorno all’anno mille la Conca di Bolzano raggiunse il suo picco quanti-qualitativo.”
Quando nel 1368 tutto l’attuale Alto Adige passò in mano agli Asburgo, uno dei più importanti regni europei, avvenne una forte inversione di rotta, convertendo il territorio alla produzione di vitigni a bacca rossa, come schiava e lagrein a discapito di quelli a bacca bianca, già abbastanza diffusi nelle attuali Ungheria e Austria. Bolzano divenne così un importante polo commerciale, con la presenza di un mercato fisso bilingue, voluto dai De Medici nel ‘600.
“L’avvento dei vitigni internazionali si verificò dopo il 1860, in corrispondenza con l’arrivo della fillossera e con la fondazione della prima scuola viticola d’Italia a San Michele all’Adige. Così gli Asburgo portarono pinot bianco e nero, cabernet sauvignon e sauvignon blanc.”
“So che in Alto Adige le cooperative sociali giocano un ruolo molto importante e sono considerate qualitativamente buone in confronto al resto d’Italia, come mai?” chiedo a Martin. “Sai, storicamente la viticoltura è stata portata avanti dalla mezzadria, che produceva vino sfuso, lasciando il mercato prima in mano ai monasteri, poi ai commercianti. Proprio per scappare da questa situazione di sfruttamento nacquero le prime cantine sociali, la prima ad Andriano nel 1893, e a seguire altre a Bolzano.”
Nel 1918 l’Alto Adige tornò in mano italiana e questo determinò un vero e proprio schianto del mercato che segnò l’inizio di una profonda crisi. Inoltre con l’arrivo del fascismo, Bolzano fu radicalmente modificata con l’installazione di una grande zona industriale. “In questo modo i vigneti, storicamente situati in pianura, si dovettero spostare sulle coste. Così mia nonna, proprietaria di un maso dove oggi sorge il tribunale di Bolzano, nel 1935 arrivò a Campiglio. Questa è la storia di Pranzegg, ma anche di tanti altri agricoltori della zona.”
Si finì per passare dai 9.000 ha vitati altoatesini del 1920 agli attuali 5.500 e lo stesso accadde nella conca di Bolzano, che passò da 1.000 a circa 400. “Oggi il 90% dei vigneti della zona sono in pendenza, ma i nostri sono terreni leggeri con tanto scheletro e poca argilla, che quindi hanno difficoltà a trattenere l’acqua. Per questo vennero installati diversi impianti di irrigazione, che da un lato hanno contribuito all’iperproduttività tra gli anni ’60 e gli anni’80, ma se usati con giudizio, dato il clima della zona, sono un’assicurazione per non perdere completamente il raccolto.”
Oggi le vigne vanno dai 300 agli 800 metri sul livello del mare, con esposizioni molto variabili, proprio per la collocazioni sui diversi versanti delle montagne che circondano la città. Lo stesso discorso vale per le temperature, si pensi che in solo 100 metri di altitudine si arriva ad avere più di 1°C di differenza.
“Se prima dell’avvento della produzione di massa, si ricercava di differenziare i vari cru, l’arrivo delle DOC ha spazzato via tutto il lavoro svolto in questa direzione, uniformando parametri e variabilità gustativi”.
In questo contesto, le cooperative guadagnarono con merito sempre più forza, facendosi rappresentati di un senso di unità, che andò radicandosi in molte famiglie. “A ciò si aggiunga il la loro grande abilità commerciale e il ruolo di sostegno che rivestirono sia nel secondo dopoguerra, sia nell’86 in seguito allo scandalo del metanolo. L’unione fa la forza e le cooperative fecero presa in un contesto sociopolitico e culturale diffuso. Inoltre gli statuti obbligano i vignaioli a conferire tutta l’uva, cosa che in altre zone è poco diffusa, per questo altrove le produzioni sono qualitativamente inferiori. ”
Proprio dall’86 in poi andò consolidandosi, grazie alle cooperative, l’idea dell’Alto Adige come grande terra di bianchi, con l’obiettivo di produrre vini dal carattere alpino, molto tecnici e di stampo internazionale, con acidità che questo territorio difficilmente è in grado di restituire. “I miei vini hanno acidità molto basse e le durezze si concentrano sui lati salini. In questo modo la produzione, che nell’86 era costituita per l’80% da vino rosso, tornò a concentrarsi sui bianchi, che oggi ne rappresentano il 63%. Questo fenomeno ha coinvolto anche la Conca di Bolzano, ma in maniera più parziale, facendo attestare la produzione divisa equamente tra vini bianchi e vini rossi.”
Oggi il 70% delle uve di quest’area viene conferito alle cooperative, il 25% a commercianti e solo il 5% viene vinificato direttamente dal vigneron. “Per fare il produttore devi avere prezzi molto alti, altrimenti conviene vendere le uve. Nonostante questo c’è chi ancora crede in vini differenti, veramente rappresentativi del territorio e questo ci dà la forza di andare avanti. Oltre a noi, nella conca di Bolzano, fanno un ottimo lavoro aziende come Nusserhof, In Der Eben, Loacker e Reyter.”
“Negli ultimi anni si è tornati a parlare di zonazione, quindi l’idea dell’individuare dei cru sta tornando?” chiedo a Martin. Negli ultimi anni il Consorzio Alto Adige ha fatto in questa direzione un grande lavoro e oggi è possibile aggiungere in etichetta delle menzioni geografiche aggiuntive. “Si se ne è parlato tanto. Ma alla fine purtroppo non è altro che uno strumento di marketing e in pratica non cambia nulla. Dovrebbe essere la terra a parlare, invece si continua a far parlare a cantina. La maggior parte di chi le use non lavora neanche in bio, figuriamoci in naturale. Ovviamente ci si può avvalere della menzione geografica aggiuntiva solo se rientri all’interno delle DOC. A parte il fatto che preferisco non scrivere il nome del cru, piuttosto che rientrare in una DOC che non mi rappresenta, i miei vini comunque non passerebbero, per fortuna sono al di fuori degli standard delle commissioni di assaggio”.
Per i suoi trascorsi storici, l’enogastronomia alto atesina trova le sue fondamenta nelle influenze di tre diverse cucine: norditaliana, tirolese e viennese. Il risultato è una tradizione culinaria di stampo popolare frutto dei prodotti locali offerti dall’agricoltura e dall’allevamento, che all’occorrenza ha saputo reinventarsi ed innovarsi, pur mantenendo uno stretto legame col passato.
Tutto qui ha un suo particolare carattere, a cominciare dal pane, dove i cereali più utilizzati, oltre al grano sono segale e farro. Famosissimo l’Ur-Paarl, un pane nero di segale piatto che si distingue per la presenza di semi di finocchio e di cumino, che nella versione secca e croccante prende il nome di Schüttelbrott. Dagli avanzi del pane tagliati a quadratini, nasce una delle preparazioni iconiche del territorio, i canederli, delle polpette di pane con pezzetti di speck, cotti al vapore e serviti tradizionalmente in brodo. Da qui nascono infinite varianti, agli spinaci, ai funghi, al formaggio e alla barbabietola, buonissimi anche semplicemente con un cucchiaio di burro fuso ed erba cipollina.
Il burro è un elemento fondamentale di questa cucina dai tratti nordici, soprattutto nella sua versione di malga, ossia proveniente dal latte munto dalle vacche che d’estate vengono portate nei pascoli alpini. Diverse le razze autoctone, come la Pezzata Rossa e la Grigio Alpina, a duplice funzione carne e latte, da cui si ottengono anche buonissimi formaggi d’alpeggio. Affianco alle vacche, va segnalato anche il recupero di un’antica razza ovina, la Vilnösser Brillenschaff, ossia la pecora con gli occhiali, contraddistinta da una tipica macchia nera sugli occhi a mo’ di occhiali da sole. Si tratta di pecore da cui si ottiene ben poca carne, ma che hanno la capacità di riuscire a vivere fino ai 2.500 metri di altitudine, da cui si ricava una pregiatissima lana. A fondo valle invece gli allevamenti riguardano perlopiù suini, carne prediletta dalla grande tradizione di salumeria altoatesina.
L’Alto Adige è infatti la patria dello speck, una sorta di prosciutto crudo (ottenuto però da diversi tagli del maiale), tipicamente marcato dal massiccio uso di pepe nero nella concia e da un’affumicatura pre-stagionatura. L’uso del fumo non riguarda solo lo speck, ma è un’antica tecnica di conservazione, da qui nascono i famosi kaminwurzen, i tipici salamini da merenda di maiale, camoscio o cervo. L’influenza austriaca si riflette poi sull’infinita varietà di wurstel, assolutamente da provare per cancellarsi dalla testa l’idea del “wurstel” che affolla i banchi frigo dei supermercati del resto d’Italia.
A salumi e formaggi, si accostano tendenzialmente verdure fermentate, come crauti e cetrioli, sia per motivi di conservazione, sia per la loro acidità capace di sgrassare formidabilmente il palato. Il prodotto agricolo simbolo dell’Alto Adige è però senza dubbio la mela, la cui coltivazione negli ultimi anni è andata sempre più ad assumere un carattere di monocoltura intensiva. “Le mele qui ci sono sempre state, ma fino all’avvento del fascismo di monocolture non ce n’era neanche l’ombra” racconta Martin “tra frutteti, vigne, foraggi, prati e seminativi si manteneva una buona biodiversità, spesso all’interno della stessa azienda. Gli anni ’60 invece hanno frenato questo tipo di agricoltura a circolo chiuso: tra l’aumento della burocrazia e l’avvento dei fitofarmaci si è andati verso una specializzazione”. Oggi in tutto l’Alto Adige si contano 18.000 ha di mele dove, a parte pochissime eccezioni, impera quella che Martin definisce “turboagricoltura”, fatta di uso sfrenato di fitorarmaci, fertilizzanti e pesticidi. “Bisogna anche contare” continua “che l’80% dell’Alto Adige è montuoso o coperto da boschi, perciò resta solo un 20% coltivabile o edificabile. Questo fa sì che ogni singolo fazzoletto di terra venga coltivato e i prezzi siano saliti alle stelle.”
Affianco alle mele convivono tantissimi altri tipi di frutta, che contribuiscono a una grande tradizione di distillati locali. Non mancano infatti, anche grazie alla produzione di vino, grappe di vinaccia e di frutta di ogni genere, a cui si stanno man mano aggiungendosi vere e proprie novità pionieristiche del panorama dei superalcolici. Proprio in Alto Adige infatti, dalla distilleria Puni, è nato il primo whisky 100% italiano. Affianco a vini e superalcolici, anche la birra conosce un largo consumo e riveste un ruolo di grande importanza, e affianco all’onnipresente marchio Forst stanno nascendo una sacco di giovani micro realtà brassicole.
Provare la cucina altoatesina non è affatto difficile, l’offerta di trattorie e osterie locali e vastissima, l’unica difficoltà è riuscire a scegliere in menù dalla varietà impressionante di preparazioni gustose e difficilmente reperibili altrove. Insieme ai canederli, tra i primi piatti convivono sempre paste fresche e ravioli, poi brodi e zuppe, fino a secondi sostanziosi che vanno dal gulasch, allo stinco, alla selvaggina, per finire con l’immancabile strudel o col golosissimo kaiserschmarrn, una sorta di omelette dolce servita con marmellata di ribes o mirtilli.
Insomma non esiste buongustaio o gourmet che possa definirsi tale, che non abbia mai esplorato a fondo cucina ed enogastronomia alto atesina. Per questo ci siamo fatti raccomandare da Martin i posti migliori per una visita a Bolzano e dintorni, ovviamente con un occhio di riguardo per cibi veri e vini genuini.
“Giorno 1: un giro a Bolzano. Nonostante le stagioni molto diverse, Bolzano merita in ogni periodo dell’anno. Per fare meno fatica a muoversi e non imbottigliarsi nel traffico cittadino e in parcheggi sovraffollati, il treno è il miglior modo per raggiungere la città. Dalla stazione andate verso il centro storico, facendo una passeggiata sotto i portici di oltre mille anni fa, dove intorno a nuovi negozi di vestiti si trovano ancora piccole botteghe locali. Tappa obbligata, un caffè al Bar Laurin, dell’omonimo hotel. In centro a Bolzano si respira un clima internazionale con un’aria da Amarcord e dietro alle bancarelle si nascondono piccole enoteche e birrerie. Prima di pranzo fermatevi da Black Sheep per un ottimo cocktail o un calice di vino naturale, per poi andare a mangiare alla Tree Brasserie dei miei amici Monica Wieser-Melis, Claudio Melis e Robert Wieser, che gestiscono questo bistrot contemporaneo, con grande riguardo ai vini locali di piccoli produttori, o nell’ adiacente ristorante stellato “in Viaggio”. Vi stupiranno entrambi con la loro cucina alpino meridionale.
Dopo pranzo meritano una visita i musei del centro, la scelta è vasta tra il Museo Archeologico, la cui grande attrazione è senza dubbio Ötzi, l’uomo venuto del ghiaccio, o il percorso espositivo nel Monumento alla Vittoria, che mostra Bolzano nelle sue evoluzioni urbanistiche. Quando si sarà fatta sera, con un breve tratto in pullman si può prendere la cabinovia per salire al monte Colle. A 1150 metri, si trova uno dei posti più belli e tranquilli di tutto l’Alto Adige, il Gasthof Kohlern, piccolo albergo e ristorante del mio amico Josef Schrott, dove si mangia la testina di vitello, i canederli, la zuppa di trippa all’aceto di vino. Insomma Bolzano DOC. Posto favoloso e carta dei vini sempre più Triple “A”.
Giorno 2: all’insegna del relax. Dopo una bella dormita al Albergo Colle e una colazione con burro e marmellata fatta in casa, si può godersi il panorama o fare una bella passeggiate nei boschi. Lassù non serve molto: un libro, del vino buono e la quiete. Nel pomeriggio potete venire a trovarci da Pranzegg: facciamo un giro in vigna e in cantina, assaggiamo i vini e facciamo quattro chiacchere. La sera attraversate la città e spostatevi verso nord in val Sarentino, una valle bellissima che ha conservato la sua genuinità. Qui troverete l’Hotel Bad Schörgau, un connubio tra tradizione culturali e innovazione gastronomica senza eguali, dove vi accoglierà Gegor Wenter, carissimo amico e oste multitasking, un vulcano di idee e allegria. Guidati dallo chef Mattia Baroni e dal sommelier Daniel Verdorfer avrete la possibilità di fare una cena che è una vera e propria esperienza per i sensi.
Giorno 3: una vista mozzafiato e lo speck più buono del mondo. La sveglia suona presto e si raggiunge il parcheggio “Sarner Skihütte” sopra il paese di Sarentino. Da lì, in un’ora e mezza, attraversando boschi, prati e malghe, si raggiungono i famosi omini di pietra. Da qui, oltre a queste statuette suggestive, godrete di una vista spettacolare a 360 gradi da oltre 2000 metri di altezza. Nel pomeriggio dovete assolutamente passare al maso di Benjamin Kral, il produttore del miglior speck del mondo! Prima di tornare verso Bolzano, passate dalla costa di fronte al Colle, a Signat a 550 metri di altitudine, da qui, dove abbiamo una vigna, con un bicchiere di GT in mano, potrete ammirare un romantico tramonto e il sole che scende dietro alle Dolomiti. Qui Georg Höller e la sua famiglia, gestiscono il maso Baumannhof. Forse uno dei più famosi “Buschenschank” del Alto Adige. Un Osteria contadina, dove si possono mangiare speck, i tipici ravioli al burro e spinaci (Schlutzkrapfen), le costolette di maiale e dei dolci fatti in casa. Vino della casa, ovviamente Schiava versato nei Duralex.
Giorno 4: i souvenir del ritorno. La mattina dopo, prima di prendere il treno, a pochi passi dalla stazione trovate il negozio PUR Südtirol. Solo alimenti e vini made in Alto Adige. Portate a casa un po´ di formaggio del mio amico Alexander Agethle, Engelhorn, e del Schüttelbrot, pane croccante di segale, friabile, molto buono, di Profanter, per esempio”.
Buon viaggio!
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