Ci sono luoghi che, solo a pronunciarli, ci portano a fare associazioni naturali involontarie. Di solito sono territori circoscritti, spesso e volentieri contesi tra diversi domini e animati, per lo meno nel corso della storia, da feroci scontri. Nel caso dell’Oltrepò, basta stringere tra le dita un tralcio di vite: nelle sue curve, tra le grinze, le foglie e le potature si può leggere il carattere delle sue genti. Un animo generoso e contadino, orgoglioso ma mai superbo. Ci piace definire gli abitanti di questa terra con un ossimoro: una rustica nobiltà, capace di fare del vino la propria ricchezza, storia e futuro.
Per capire a fondo la peculiare identità di questa regione vinicola serve inforcare il binocolo, aggiustare le lenti e guardare oltre la linea dell’orizzonte. Fin dagli albori, infatti, le terre a sud del fiume Po, coincidenti con l’attuale provincia di Pavia, generano un profondo interesse e vengono contese da innumerevoli denominazioni, ognuna delle quali lascia il suo segno. Immaginiamoci la cultura d’Oltrepò come un insieme di strati poggiati l’uno sull’altro. Le radici della sua popolazione li attraversano tutti, uno per uno, e ciò che noi vediamo oggi non è che il risultato di una linfa vitale che nasce molto lontano, nella preistoria. Le prime testimonianze vinicole risalgono tuttavia all’epoca preromana. Se mettiamo a fuoco sul piccolo comune collinare di Casteggio, scopriamo che proprio qui è stato ritrovato il primo e più importante reperto storico del periodo: un tronco di vite fossilizzato, a dimostrazione che certi panorami mutano i colori ma non i contorni. I vigneti d’Oltrepò erano organizzati in fundi, appezzamenti collinari con annesse dimore destinate alla lavorazione delle uve, come testimoniato dal ritrovamento di numerose anfore di terracotta. Durante l’epoca longobarda, fino all’avvento della tradizione monastica, la coltivazione della vite cresce e si sviluppa gradualmente, facendo un balzo in avanti dal punto di vista organizzativo grazie all’intervento dei monaci stanziati sul territorio pavese.
Se nel Medioevo si prediligeva la pianura, è tuttavia nell’epoca moderna che ci si rende conto della vocazione vinicola delle colline. Il fenomeno ha inizio sul versante orientale della regione, già sotto il controllo del Regno di Sardegna da fine Settecento. È questo il periodo in cui si assiste alla dissoluzione del latifondo e del feudo, dunque al ritorno della vite in mano ai piccoli contadini locali. È grazie al loro instancabile lavoro che l’Oltrepò diventa il territorio responsabile dell’approvvigionamento del vino verso le città lombarde, specialmente Milano. L’Ottocento è un secolo difficile: negli anni ’50 inizia la diffusione della peronospora e dell’oidio, che minacciano le ampie coltivazioni. Ma è con l’arrivo della fillossera all’inizio del Novecento che la situazione peggiora ulteriormente: i contadini sono costretti ad assistere alla distruzione di un elevato numero di vitigni autoctoni, con una perdita produttiva enorme.
A voler ripulire le lenti per tentare di rimuovere quel velo di tristezza che come sempre ci avvolge arrivati a questo punto della storia, basti dire che i viticoltori lombardi sono riusciti nell’impresa di tramutare un danno enorme in un’occasione per diversificare e ricominciare: la croatina, oggi considerata uno dei vitigni più importanti della zona, si è diffusa proprio in questi anni grazie alla sua inferiore vulnerabilità alle epidemie. Stessa cosa è accaduta con la barbera, un vitigno resistente e generoso. Un altro motore che aiuta la viticoltura dell’Oltrepò Pavese a uscire dalla crisi è la produzione degli spumanti italiani Metodo Classico a base di pinot nero, un nuovo vitigno arrivato a cavallo tra i due secoli direttamente dalla Francia, le cui prime barbatelle piantate sono merito di Agostino De Pretis, otto volte presidente del Consiglio del Regno d'Italia. Il pinot nero trova in questo terroir le migliori condizioni di crescita, destinato a diventare il vitigno più nobile dell’intera regione.
I binocoli che viaggiano nel tempo vorrebbero non aver assistito alle conseguenze territoriali e demografiche subìte dai processi di meccanizzazione attuati nel secondo dopoguerra. Per fortuna, sulle colline dell’Antico Piemonte, c’è chi non ha mai smesso di portare avanti il proprio lavoro agricolo con la stessa caparbietà degli antenati, facendosi non solo simbolo di un’attività rurale da proteggere, ma maestro e promotore di un’istruzione agraria che ancora oggi i viticoltori dell’Oltrepò tutelano e sostengono con le proprie mani.
Se abbiamo scelto il binocolo come lente ideale attraverso cui guardare la stratificazione storica e geografica di queste terre un motivo c’è, ed è l’ampiezza della visuale: l’Oltrepò Pavese è infatti una regione vinicola che non si limita a scendere in profondità a livello di suolo, ma si allarga parecchio anche in orizzontale. Come aveva notato Gianni Brera, l’Oltrepò è la terra “a forma di grappolo d’uva”. Collocato a nord del fiume Po, nella provincia di Pavia, il bacino lombardo per eccellenza è perfettamente incastonato tra Emilia, Piemonte e Liguria. Comprende più di 40 comuni: insieme, questi piccoli fazzoletti di terra formati da borghi medievali e dolci colline compongono l’identità vinicola dell’Oltrepò Pavese. “Stiamo parlando di una delle province più vitate d’Europa per chilometro quadrato, ed è soprattutto un territorio estremamente biodiverso,” ci spiega Andrea Rossi di Tenuta Fornace. “I nostri terroir sono a macchia di leopardo, per intenderci è come se ogni collina possedesse diversi suoli, vere e proprie macchie all’interno dello stesso piazzamento di vigneto, nell’arco di poche centinaia di metri.” I tanti acini che servono a formare il grappolo cartografico sono dunque un conglomerato di tradizione, innovazione, ricerca e vicinanza culturale. Ebbene, sì: nonostante un’estensione territoriale di oltre mille chilometri quadrati, nella quale un’identità ben definita potrebbe sembrare tutt’altro che semplice, è proprio questa sfaccettatura geografica e morfologica a fare di questa zona un vero fiore all’occhiello dell’enologia italiana.
“Un territorio frammentato dal punto di vista dei suoli significa un vino ricco e variopinto nei sapori,” conclude orgoglioso Andrea. Non è quindi un caso che le cantine storiche dell’Oltrepò Pavese si estendano su più colline disparate: è come se su ogni fazzoletto di terra, in ognuno degli acini che compongono il grande grappolo, si trovassero nuove sfumature di colori e di profumi. “Qui è praticamente impossibile fare vini che si somigliano. Anche se utilizziamo gli stessi vitigni i risultati cambiano di cantina in cantina, perché ogni terroir si sviluppa in un suo personalissimo stile.” Sulle colline del piccolo comune di Broni, per esempio, intravediamo un uomo che controlla la crescita di una barbatella: è Giuseppe Maga – figlio del Guru d’Oltrepò Lino Maga e attuale proprietario della storica cantina Barbacarlo. Sui suoi dolci pendii a base di tufo e ghiaia Giuseppe produce il vino più iconico dell’Oltrepò Pavese, epitome della profondità che sanno raggiungere le radici di queste terre: “Questa (Barbacarlo n.d.r.) altro non era che la collina di famiglia, dove ognuno possedeva un pezzetto di terra. Si chiamava Porrei e il suolo tufaceo era ripidissimo, estremamente difficile da coltivare. Nonostante ciò, non abbiamo mai smesso di lavorare nei campi: anzi, potremmo dire di essere cresciuti proprio tra i vigneti.” Nella famiglia Maga si imbottiglia dal 1958 ma si è vignaioli da secoli: il Barbacarlo è infatti la prova tangibile di quella linfa vitale che si mischia col sangue diventandone parte integrante.
Spostando la visuale sulle colline più erose, invece, scopriamo un altro immenso potenziale di questa zona: il pinot nero, l’uva dalla doppia anima. Nelle terre ben esposte e dalle forti pendenze i contadini locali coltivano il vitigno francese che predilige le marne con prevalenza calcarea e che ha trovato, nell’Oltrepò Pavese, il migliore possibile habitat italiano. Il pinot nero è un vitigno austero, capriccioso, tra i più difficili da coltivare. Nei pressi dei corsi d’acqua, soprattutto nei comuni vicino al fiume Versa, ci regala alcune tra le migliori interpretazioni della spumantistica italiana, soprattutto intorno al paese di Santa Maria della Versa, dove le argille si mischiano al calcare. Nei comuni più a est, invece, intorno ai comuni di Calvignano e di Casteggio, il pinot nero si esprime in meravigliosi vini rossi, come il Peparino di Tenuta Fornace, prodotto dai terreni argillosi e marnosi del comune di Rovescala.
Le colline dall’ampia visuale si sviluppano in altezza tra i 100 e i 300 metri sul livello del mare, un’altitudine perfetta per la viticoltura. Dal punto di vista climatico, le escursioni termiche sono incredibilmente alte dal giorno alla notte. “Gli sbalzi di temperatura, uniti all’esposizione a nord dei vigneti, permettono una particolare caratterizzazione dei profumi e ottimi livelli di acidità per la produzione di vini freschi e agili, primo tra tutti il Pinot Nero,” ci racconta il vignaiolo di Tenuta Fornace. Ma non solo. Nelle zone dove la brezza serale scompiglia i capelli e muove le foglie, fermate il binocolo e fate caso ai filari che accarezzano le colline: di fianco alle uve rosse tipiche dell’Oltrepò troverete le migliori espressioni dei vitigni a bacca bianca. Siano esse Riesling, Moscato o Pinot Grigio, rappresentano l’ennesimo strato culturale di un territorio che tra i suoi artigiani di omologato conosce solo la passione.
L’Oltrepò Pavese è in grado di evocare la cultura del vino già a priori, senza bisogno alcuno di presentazioni. Tuttavia, la cura contadina della sua splendida eterogeneità rappresenta l’ordine del giorno nell’acceso dibattito nei confronti di una terra troppo spesso vittima di produzioni industriali fuori controllo. Non va infatti dimenticato che l’Oltrepò Pavese è una regione vinicola molto estesa, su cui l’economia locale ha sempre puntato, spesso e volentieri seguendo insane logiche di mercato. In un contesto simile, portare alta la bandiera della viticoltura artigianale è un compito ancora più difficile. Eppure, la valorizzazione della qualità delle uve e dei loro approcci più tradizionali sta scoprendo una nuova spinta, necessaria per affermare l’unicità di questa grande area vitata. I produttori locali affezionati alla loro terra sono imperturbabili: “Ogni anno il vino è differente,” racconta Giuseppe Maga, “e ciò dipende interamente dalla natura. Noi lo facciamo sempre nello stesso modo”. Nella nostra ultima chiacchierata con il grande Lino Maga, mentre lo ascoltavamo raccontare della propria battaglia legale per difendere il suo Barbacarlo, ci aveva indicato una vite di oltre un secolo e aveva detto: “Sapete, un tempo non era così assurdo che una pianta durasse cent’anni, il problema è oggi, che durano massimo venti. A cosa serve la meccanizzazione se porta a trascurare la manodopera?”
In questo contesto, la voce di Andrea Rossi è fondamentale per capire un luogo di tradizioni che meritano protezione, ma anche di vere e proprie rivoluzioni che si stanno attuando giorno dopo giorno tra i giovani viticoltori. “Il desiderio è quello di dare a questo territorio un respiro più ampio,” ci racconta. “Uscire dalla tradizione non significa tradirla, ma prenderla per mano e andare oltre, tenendo sempre a mente la direzione che si vuole dare alla propria viticoltura, ossia un’impostazione artigianale e rurale.” Il lavoro instancabile di vignaioli appassionati come Andrea ci permette di scoprire nuove interpretazioni territoriali che raccontano di un Oltrepò diverso, versatile, capace di disegnare fuori dai contorni e creare nuove sbalorditive opere d’arte, come gli Orange Wine di Tenuta Fornace, piccole rivoluzioni in bottiglia.
Se il vostro weekend lungo vuole essere a base di buon cibo e ottimo vino, possibilmente con vista su colline a perdifiato, siete nel posto giusto. O meglio, ci state arrivando. Tra antichi borghi medievali, castelli, trekking, vigneti e ristoranti locali, l’Oltrepò Pavese è l’ideale per trascorrere un weekend all’insegna della bellezza non scontata.
Giorno 1: L’Oltrepò nel piatto. Cominciamo il nostro tour dalla cittadina più importante dell’Oltrepò: Voghera. Pittoresco comune a sud del fiume Po, Voghera ci apre le porte dell’Oltrepò Pavese con le sue viuzze del centro storico che si aprono su piccole chiese e monumenti che ne segnano la memoria storica. Se vi doveste fermare a pranzo qui, vi consigliamo l’Osteria del Campanile, luogo perfetto dove assaggiare i migliori peperoni di Voghera. Salite poi in macchina e lasciate da parte l’architettura cittadina: è tempo di natura. A circa quindici minuti di macchina vi si presenta il “grand canyon d’Oltrepò”, l’orrido di Sant’Antonino. Si tratta di profonde gole formate dallo scorrere verticale dei corsi d’acqua, che con gli anni ha eroso la roccia, modellando dei veri e propri canyon, suggestivi e maestosi. Per la prima notte vi consigliamo l’albergo e ristorante Selvatico, a Rivanazzano, a pochi minuti da Torrazza Coste. Cucina ricca di piatti tipici, presidi Slow Food e referenze artigianali.
Giorno 2: A Casa dei Maga. Mettetevi alla guida di buon mattino e dirigetevi nella prima e più iconica tappa nel mondo degli artigiani Triple “A”: Barbacarlo. Ad accogliervi troverete Giuseppe Maga, l’eredità più importante dell’Oltrepò si trova oggi nelle sue mani. Con la sua solita sigaretta in bocca e con quel passo gentile e sicuro che ricorda suo padre, vi porterà nel cuore del grande vino delle colline di Broni. Per la pausa pranzo vi consigliamo di provare i grandi ravioli ripieni di brasato (in dialetto “Bata Lavar”) del ristorante Bazzini. Nel pomeriggio, dirigetevi nel cuore della Valle Versa: Montù Beccaria. Sul cucuzzolo di una collina dalla forma vagamente appuntita troverete l’omonimo castello a fare da punto luce di tutto il borgo medievale. Per il pernottamento, vi consigliamo di alloggiare e cenare nell’agriturismo di un altro grande nome del vino biodinamico d’Oltrepò: Fausto Andi, che ha da poco passato le redini al figlio Augusto.
Giorno 3: Grandi vignaioli dal futuro. Il terzo giorno lo inauguriamo con una visita a Tenuta Fornace, l’azienda agricola di Andrea Rossi, artigiano Triple “A” che vi mostrerà un Oltrepò rivoluzionario e inedito. Dopo la degustazione tra i suoi splendidi filari collinari, saltate in macchina e spostatevi nella peculiare Golferenzo, un borgo meraviglioso tutto in pietra nel cuore della Valle Versa. Nell'antichissimo ristorante Olmo Napoleonico troverete la cucina tipica dell’Oltrepò e un’ottima accoglienza casereccia, parola di Andrea Rossi! Un’altra tappa immancabile è senza dubbio Tenuta Belvedere, piccola realtà contadina rinata nel 2013 grazie all’instancabile lavoro del suo vignaiolo Gianluca Cabrini. La sua storia è la perfetta sintesi del pensiero innovativo e artigianale che contraddistingue i giovani produttori d’Oltrepò. Risalite in macchina e dirigetevi poi verso Fortunago, uno dei “borghi più belli d’Italia”. Appena 430 abitanti per un borgo medievale arroccato sul cucuzzolo di una collina che rappresenta uno dei migliori punti panoramici dell’Oltrepò Pavese. Come ultima tappa giornaliera non può mancare la storica azienda agricola Castello di Stefanago, meravigliosa cornice per una degustazione a base di vini artigianali genuini ed estremamente beverini.
Giorno 4: L’ultimo assaggio di Oltrepò. Concludiamo il tour alla scoperta dell’Oltrepò Pavese con l’Alta Valle Staffora. Scendete a sud e avvicinatevi al confine con l’Emilia. Incontrerete qui un altro simbolo dell’Oltrepò: il castello di Zavattarello, conosciuto come Castello dal Verme. Per l’ultima pausa pranzo niente può battere una sosta a Varzi, storico borgo medievale dove ha casa il famoso salame di Varzi. Prenotate un tavolo al Caffè del Centro, ristorante e vineria storica ideale per imprimersi nella memoria un sapore che duri nel tempo.
Con la pancia piena e lo sguardo che indugia ancora un po’ sulle ampie colline a perdifiato, è giunto il momento di posare i binocoli. Salite in macchina. Prima di partire, vi concedete un’ultima occhiata all’orizzonte, poi guardate nello specchietto retrovisore: tutte quelle casse di vino sono il regalo più bello che potevate farvi. Mettete in moto e sorridete, si torna a casa.
Buon viaggio!