A dir Montalcino oggi viene subito in mente il Brunello, ma non è stato sempre così. Per questo abbiamo chiesto a Gabriele Grazi e Sebastian Nasello di Podere Le Ripi, di raccontarci la storia di un territorio che negli ultimi cinquant’anni ha vissuto una delle più grandi rivoluzioni del mondo del vino.
Il territorio di Montalcino, quaranta chilometri a sud-est di Siena sulla linea di confine della Maremma, si limita sostanzialmente ad un’unica collina che si sviluppa dai 120 ai 650 metri sul livello del mare e all’interno di un quadrante di poco più di quindici chilometri per lato, delimitato dalle valli dei fiumi Orcia, Asso e Ombrone.
Le origini di Montalcino per come lo conosciamo oggi, quantomeno dal punto di vista paesaggistico, sono da ricercarsi nel Medioevo, tra l’800 e il 900, quando le colline di questo fazzoletto di terra toscana fiorirono in tutto il loro splendore adornandosi di castelli, abbazie e piccoli borghi. A giocare un ruolo fondamentale in questo cambiamento urbanistico fu l’impulso dato dalla vicina via Francigena, la via dei pellegrini su cui andava sviluppandosi una primordiale forma di turismo. Tra questi borghi c’era Montalcino che conservò questa sua dimensione rurale per lungo tempo. Proprio questo tipo di ambiente lo rende oggi una destinazione mondiale e un modello agricolo tra i più invidiati al mondo per il grande equilibrio tra biodiversità e vigneto specializzato.
Per assurdo, Montalcino visse il suo periodo più buio tra gli anni ’50 e i ’70 del Novecento, complici la sua dislocazione remota e mal collegata e la completa assenza di investitori. Così nel ventennio successivo al secondo dopoguerra il territorio assistette a un progressivo spopolamento e ad un’emigrazione di massa in cerca di fortuna, inseguendo un sogno d’urbanizzazione e sviluppo economico che pareva non avrebbe mai potuto attecchire a Montalcino.
A quell’epoca e sin dalla metà dell’Ottocento il vino più prodotto e apprezzato del luogo era il Moscadello di Montalcino, un vino dolce e beverino ottenuto da uve moscato, mentre il Brunello, progetto di vino ideato da Clemente Santi e portato avanti con perseveranza dal nipote Ferruccio Biondi Santi, rimaneva confinato a una produzione di poche migliaia di bottiglie che faticavano ad affermarsi anche solo a livello nazionale. A partire da questa situazione di stallo s’innescò il boom economico di Montalcino, sostanzialmente grazie all’arrivo di un nuovo protagonista sul territorio: Banfi, ossia la famiglia Mariani, una famiglia italo-americana specializzata nella commercializzazione e distribuzione di vino e bevande negli Stati Uniti, che decise di investire su Montalcino sotto consiglio del loro enologo di fiducia Ezio Rivella.
La famiglia Mariani aveva idee ben chiare ed acquistò 2.830 ettari di terreni coltivabili (per 1/3 vitati) a buon mercato, insediandosi sul territorio e investendo massicciamente per un primo e breve momento sul Moscadello, per poi spostarsi sul Brunello, intravedendo le grandi potenzialità del progetto di Clemente Santi. L’arrivo di un player internazionale di tale importanza permise al Brunello di Montalcino di cominciare a viaggiare oltreoceano con maggior convinzione e professionalità, proprio ciò che non era riuscito sino ad allora per mancanza di mezzi ai piccoli artigiani locali. Dagli anni ’80 in poi fu semplicemente un crescendo continuo, ai pochi contadini rimasti sul posto si unirono sempre più investitori da tutto il mondo, fino a raggiungere il complesso mosaico odierno.
Montalcino conta oggi 3.500 ettari di vigneto, di cui 2.100 a Brunello, per una produzione che oscilla tra i nove e i dieci milioni di bottiglie l’anno, spalmati su circa duecentocinquanta produttori di varia natura: dai microproduttori locali, presenti sul territorio da diverse generazioni, a grandi aziende, spesso di proprietari internazionali, con numeri di produzione vertiginosi.
Come sta accadendo nel resto d’Italia, ma con ritmo ben più serrato, Montalcino si sta orientando sempre di più verso un’agricoltura di tipo biologico, che ormai coinvolge quasi la metà dei produttori totali, tra cui anche grandi aziende, a cui si sommano anche alcune realtà biodinamiche. Tra produttori iconici del territorio e piccole realtà emergenti, tra chi ha sempre prodotto in un certo modo e chi ci si è avvicinato col tempo, anche il naturale è ormai ampiamente diffuso a Montalcino, da Case Basse di Soldera a Il Paradiso di Manfredi, da Marino Colleoni a Fonterenza, da Stella di Campalto a Piombaia, da Pian dell'Orino a Gaetano Salvioni di Albatreti, fino ovviamente a Podere le Ripi, solo per citarne alcuni.
Fare Brunello è tutt’altro che semplice. Il lungo invecchiamento da un lato permette sicuramente di esaltare con facilità territorialità e personalità del sangiovese grosso, dall’altro si tratta di una sfida tecnica per ogni produttore. Salvaguardare freschezza, energia e tensione tannico-salina per tutti questi anni in cantina può diventare un vero rebus. A far la differenza è soprattutto la sensibilità dei cantinieri e degli artigiani, la capacità di accompagnare il vino in questo lungo periodo interpretandolo come una crescita e non semplicemente come una conservazione che spesso, se mal gestita, porta invece ad un impoverimento.
Un po’ come nel Barolo, i produttori si dividono oggi tra due schieramenti: i più fedeli alla tradizione, convintissimi che il sangiovese richieda esclusivamente la botte grande e i modernisti, che invece accolgono di buon grado anche recipienti più piccoli come barrique e tonneaux di rovere francese. Nonostante ci siano eccellenti rappresentati di entrambi gli stili enologici, la sensazione è che il territorio non stia ancora offrendo il massimo del suo potenziale, con molti produttori che ancora devono trovare il loro spazio e una loro fisionomia sul palcoscenico del grande vino. Lo dimostrano le carte dei vini troppo spesso colonizzate da non più di una sessantina di brand. Il boom del Brunello sembra non esser stato ancora metabolizzato da tutta la comunità. Il radicale cambiamento degli ultimi 50 anni ha fatto sì che piccoli contadini ed ex mezzadri si sono trovati a fianco di investitori appena lanciatisi nel mondo del vino cavalcando l’onda del successo. Se in Italia esistesse un Italian Dream, la storia del Brunello di Montalcino si candiderebbe come uno dei principali case history.
La condizione agricola in cui versa Montalcino ha dell’incredibile. Nonostante lo sviluppo degli anni passati e i crescenti interessi economici, ancora si avvantaggia di un enorme patrimonio di biodiversità. Solo il 15% della superfice è infatti coltivata a vigneto, lasciando ampio spazio a boschi, olivi, incolti e altre colture. Si tratta di un fenomeno pressoché unico a livello nazionale, qui infatti non si registra né l’eccesso di monocoltura, né lo scempio paesaggistico di altre zone o l’azzeramento ambientale delle colture meno redditizie. Questo è dovuto anche a delle attente politiche di crescita concordate tra autorità e produttori che hanno saputo contingentare la produzione a favore di una maggior ricerca di qualità e posizionamento, tutelando l’ambiente.
Montalcino vanta una variabilità pedologica e climatica fuori dal comune. Semplificando molto, dal punto di vista dei suoli, la collina può essere divisa in tre fasce parallele. La prima, tra il 120 e i 200 metri, disegnata da colline e dolci vallate appoggia su suoli alluvionali argillosi, ricchi di scheletro e umidi ed è quasi totalmente riservata alla coltura del grano. La Val d’Orcia del resto è sempre stata una dei più importanti serbatori cerealicoli della Toscana. La fascia intermedia, tra i 200 e i 450 metri sul livello del mare, è quella dove i vigneti trovano la loro miglior espressione. Qui il terreno è ricco di argille finissime mescolate con calcari marini, i suoli marnosi, che rendono grande il terroir montalcinese. La perenne condizione di stress data dalla tessitura del suolo e dal ph alcalino fa sì che le piante di sangiovese producano poco, restituendo però tanto nel bicchiere. Infine la parte alta che arriva fino alla cima della collina presenta terreni ricchi di scheletro con presenza di galestro e granito e rocce metamorfiche di origine vulcaniche, provenienti dal monte Amiata, un ex vulcano ora dormiente. Qui boschi e uliveti, gli altri grandi protagonisti di Montalcino, trovano la loro condizione ideale.
Per spiegare invece la situazione climatica, è più semplice identificare quattro diverse zone nei diversi versanti di sud-est, sud-ovest, nord-est e nord-ovest. Oltre ovviamente alla differente esposizione alla luce solare, i versanti meridionali sono quelli che godono di temperature più elevate e gli orientali quelli dove si verificano meno precipitazioni grazie alla vicinanza dell’Amiata che agisce da vero e proprio parafulmini. Ad ogni modo la posizione intermedia tra la catena appenninica e il mare, garantisce su tutto il territorio di Montalcino un macro clima mediterraneo asciutto, grazie anche a una buona e omogenea ventilazione.
Oltre all’olio e al vino, Montalcino è anche famosa come città del miele, esistono infatti tanti piccoli produttori, di cui l’azienda Tassi rappresenta la punta d’eccellenza locale. Se le produzioni montalcinesi si limitano essenzialmente a queste tre, basta spostarsi di pochi chilometri per ritrovare tutti i prodotti simbolo della gastronomia toscana, dalle grandi carni, come i bovini di razza maremmana e i suini di cinta senese, spesso allevati allo stato brado, come alla Tenuta di Paganico, ai formaggi di pecora, che hanno capitale a Pienza e di cui l’azienda biologica Podere il Casale, rappresenta una delle tante eccellenze.
Anche la cucina si rifà alla grande tradizione toscana, unendo gli elementi fondamentali di quella senese e di quella maremmana. A voler nominare un piatto per importanza, non si può non parlare dei pinci (più noti nel resto della Toscana come pici), conditi con pomodorini, aglione della Val di Chiana e briciole di pane tostate oppure con i classici ragù di maremmana o di selvaggina.
Giorno 1: Montalcino. Nonostante ci si possa arrivare in autobus, la macchina è consigliata per aver la libertà di muoversi in zona. Raggiunto il paese, vi accoglierà la fortezza, che merita senzadubbio una visita. Potrete poi perdervi per le vie del centro storico, ammirando scorci mozzafiato sulla Val d’Orcia e sulle altre vallate che circondano il paese. Dopo un pranzo veloce all’Enoteca della Fortezza, piuttosto che Alle Logge di Piazza o a La Sosta, che offre un’ottima selezione di vini naturali, il pomeriggio impone una tappa obbligata: la visita dell’abbazia di Sant’Antimo a Castelnuovo dell’Abate, uno dei più importanti esempi architettonici romanici della Toscana. Il resto della giornata è assolutamente da dedicare al vino, Podere Le Ripi dista pochi chilometri e vi accoglieremo con gioia. All’ora di cena tornati in paese c’è l’imbarazzo della scelta per mangiare, potrete poi passare la notte all’albergo il Giglio, un vero e proprio pezzo di storia di Montalcino.
Giorno 2: Monte Amiata. Dopo una sveglia presto e una colazione alla Fiaschetteria Italiana, uno dei locali storici d’Italia, dove si respira l’atmosfera di un tempo, mettetevi alla guida in direzione Monte Amiata, dove potrete visitare il magico Giardino di Daniel Spoerri nelle campagne di Seggiano, sia per il percorso tra le installazioni artistiche che per rilassarvi all’ombra dei castagni. Dopo un pranzo al Silene, il pomeriggio concedetevi un bagno nelle acque termali dei Bagni San Filippo. Una volta cotti a puntino, andate a Bagno Vignoni dove potrete pernottare all’Osteria dell’Orcia, appena fuori il piccolo borgo, e cenare in paese all’Osteria del Leone.
Giorno 3: Val d’Orcia. Bagno Vignoni merita una visita alla luce del giorno, tra la piazza centrale con la grande vasca d’acqua termale, l’erboristeria e la libreria ricche di chicche che non si trovano ovunque. Anche San Quirico, che dista pochi chilometri, merita uno stop, specialmente per gli Horti Leonini, un classico giardino all’italiana del 1500, e per un pranzo alla Trattoria Osenna. Procedendo verso Pienza, lungo la strada non perdetevi la Cappella di Vitaleta di epoca rinascimentale, da dove si vedono panorami mozzafiato tra campi di grano, cipressi e calanchi di creta, sfondo di numerose produzioni cinematografiche. Giunti a destinazioni, perdetevi per il centro di Pienza tra una visita al Duomo, a Palazzo Piccolomini e Palazzo Borgia. Prima di cenare al ristorante Daria a Monticchiello, godetevi un aperitivo a La Guardiola, appena fuori la porta del paese. Per la notte invece potrete alloggiare in centro a Pienza, a La Bandita, o nei tanti agriturismi disseminati tra le campagne circostanti.
Giorno 4: Montepulciano. L’ultimo giorno procedete in direzione Montepulciano, ma fate tappa a metà strada dal caseificio Il Casale per una visita e una degustazione di formaggi da capogiro e al Tempio di San Biagio, un capolavoro del Cinquecento toscano. Giunti finalmente alla città poliziana visitate le vie del centro storico fino ad arrivare al Caffè Poliziano per un aperitivo sulla terrazza che offre un panorama unico sulla Val di Chiana. Prima di partire concedetevi una fiorentina come si deve all’osteria dell’Acquacheta. Vi attende un viaggio nostalgico a causa delle troppe cose che non siete riusciti a fare. Poco male, sarete obbligati a tornare in zona quanto prima.
Buon viaggio!