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Tenuta Migliavacca, la biodinamica e l'agricoltura a ciclo chiuso

Reportage //

Tenuta Migliavacca, la biodinamica e l'agricoltura a ciclo chiuso

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Come si raggiunge l’autosufficienza di organismo aziendale? Cosa significa abbracciare un approccio agricolo biodinamico negli anni ’60? Per capirlo siamo andati a trovare Francesco Brezza, vignaiolo, agricoltore e allevatore, contadino a 360°.

A partire dal ghetto ebraico di Casale Monferrato, imboccando la Via Salita Sant’Anna, una strada statale che si lascia la città alle spalle per inerpicarsi sulle colline, poco prima di arrivare a San Giorgio, sulla vostra destra incontrerete un viottolo appena asfaltato e le indicazioni per la Tenuta Migliavacca, l’azienda agricola di Francesco Brezza.

FRANCESCO E LA MEMORIA STORICA: DUECENTOTREDICI CAMBIALI DA MILLE LIRE

Ogni anno, quando ero più piccolo, il secondo sabato d’aprile si faceva una gita nelle campagne del Monferrato. Papà caricava in macchina due damigiane di vetro grandi quanto me e si passava a prendere il Peppo, un suo amico storico che a sua volta ne caricava altre due. Così con la scusa della giornata fuori porta, si tornava in serata con le damigiane piene e il vino per un anno. Quando arriviamo davanti a Tenuta Migliavacca, appena scendo dalla macchina mi guardo attorno e ho come un déjà-vu: il Po, Casale dall’alto, la campagna. E mi assale un dubbio: se per anni il vino fossimo venuti a prenderlo qui?

Dalla porta della cantina sbuca Francesco e finalmente, dopo averlo sentito tante volte per telefono, riesco a dare un volto alla sua voce. “Mi avevi detto che avrei trovato i lavori lungo la strada” gli dico. “Hanno finito di cementare ieri” replica indicando la via asfaltata che si interrompe a pochi metri dall’entrata del casale “volevano arrivare fino a davanti alla cantina -Non fate un passo di più- gli ho detto. A cosa sia servito asfaltare lo sanno solo loro, questa strada la faccio solo io e chi mi viene a trovare”. Francesco non ci conosce, ma ci tratta come se fossimo amici di una vita. Dalle sue parole traspare un uomo umile ed estremamente orgoglioso che non vede l’ora di raccontare sé stesso, ma soprattutto la sua Tenuta Migliavacca, di cui più che régisseur, sembra sentirsi parte integrante, componente tanto piccolo, quanto essenziale.

Casale un tempo era la seconda città più importante del Piemonte, una sorta di Torino in miniatura e un importante avamposto dell’esercito dove stavano quasi ventimila militari. Infatti, prima che il mio bisnonno la comprasse nel 1921, la Tenuta era la residenza estiva di un ufficiale. Gli costò duecentotredici cambiali da mille lire. Poi nelle generazioni si ampliarono i campi attorno. Con mio nonno la proprietà arrivò a quattordici ettari, con mio padre a trentacinque, io adesso ne ho una decina a vigneto, circa trenta ad erba medica e altri quindici tra grano e orto. Casale storicamente è sempre stata una zona agricola, poi sono arrivate le industrie del freddo, dell’eternit e del cemento e si è trasformata”.

Del racconto di Francesco mi lascia sbalordito la precisione storica del racconto: elenca anno, mese e giorno di nascita di nonni e bisnonni, date di passaggio del testimone della Tenuta, poi d’un tratto s’incupisce indicandoci una collina poco sotto di noi “Lì, il 30 settembre del ’96, di lunedì, mio papà Luigi si è ribaltato col trattore. Così a 25 anni, da un giorno all’altro, mi son ritrovato tutta l’azienda sulle spalle. I miei fratelli non erano interessati a portarla avanti, così nel 2000 sono riuscito a ricomprare i terreni e riunirla tutta. Che la mia vita fosse intimamente legata alla Tenuta già lo sapevo, fin dalle elementari mi addormentavo in classe perché passavo tutta la giornata a lavorare in campagna con papà.”

Francesco ci chiede se vogliamo fare un giro per i campi, ovviamente accettiamo e dimostra la sua soddisfazione per la risposta “la cantina è l’ultima cosa che si va a vedere in un’azienda agricola!” E comincio a intuire come il vino rappresenti una parte marginale dell’identità di Tenuta Migliavacca.

TENUTA MIGLIAVACCA TRA AUTOSUFFICIENZA E CICLOCHIUSO

Nel vigneto di barbera passiamo affianco a un melo spezzato in due “L’altro ieri c’era un vento pazzesco, faceva i 110 chilometri orari, ha fatto un sacco di danni”. Negli anni hai visto cambiare tanto il clima?” gli chiedo. “In parte si, sicuramente fa caldo più presto, ma la cosa più spaventosa sono questo tipo di fenomeni atmosferici isolati. Mio padre un vento così penso non l’abbia mai visto”.

Francesco ci tiene poi a farci vedere la terra delle sue colline tra marne affiorate e un’argilla friabile e umida, capace di compattarsi con un po’ di pressione fino a diventare dura come un sasso “qui il terreno trattiene l’acqua, quindi nonostante il caldo problemi di siccità non ne abbiamo”. Camminiamo per i filari con Francesco che di tanto in tanto si china a raccogliere i tralci striscianti abbattuti dal vento, nel frattempo ci mostra l’effetto sulle foglie di flavescenza e peronospora. “Quest’anno in tutta la zona abbiamo avuto un serio problema con la peronospora. Siamo arrivati a fare addirittura otto trattamenti, quando di solito non si superano i quattro o cinque. La cosa assurda è che anche chi lavora con la chimica ha avuto un sacco di problemi, il che dimostra che a lungo andare serve a poco o nulla”. 

Passando in una vigna di quarant’anni, Francesco mi dice che l’anno prossimo ha intenzione di espiantarla e rimango interdetto “non bisognerebbe conservare le piante vecchie?” “Si da un lato certamente, ma io penso che il mio più grande patrimonio sia il terreno e salvaguardare il suolo implica per forza fare rotazione. Dopo quarant’anni con la stessa coltura il terreno si è impoverito, dopo la vigna ci metterò l’erba medica per quattro anni che è azotofissatrice, poi un anno di grano, un anno di orzo, di nuovo erba medica e poi vedremo se ripiantare la vite.” La conferma che ci troviamo in un’azienda non vinocentrica.

La cosa mi incuriosisce e chiedo a Francesco di spiegarmi come funziona Tenuta Migliavacca. L’azienda vive da solami spiega Francesco “è autosufficiente. Siccome siamo agricoltori, come dicevo prima il nostro patrimonio è il terreno, da mantenere vivo e vitale grazie alla sostanza organica prodotto dai bovini, che sono alimentati dalle produzioni aziendali di orzo, grano ed erba medica. Questo è quello che si intende con ciclo chiuso. Io ho trenta bovini che necessitano almeno di venti, venticinque ettari di seminativo per il sostentamento. Per stare tranquilli con l’autosufficienza serve almeno un 30% di superficie in più, in modo da esser coperti in casi di cattive annate. Ogni bovino poi ti restituisce sostanza organica sotto forma di letame con cui puoi concimare circa un ettaro di terra. Questa è la base della biodinamica: ogni realtà agricola deve vivere come un organismo aziendale autosufficiente” conclude mentre arriviamo davanti alla stalla, il cuore pulsante di Tenuta Migliavacca, dove tutto comincia e tutto finisce.

LA BIODINAMICA NASCOSTA: UN NUOVO APPROCCIO AZIENDALE

Dopo aver fatto amicizia a debita distanza con Zolfo, toro a fine carriera, conosciamo anche Monica, la moglie di Francesco, e loro figlia tredicenne Cristina. “Vi fermate da noi a pranzo, vero?” chiede Monica. Dati i racconti delle sue doti culinarie e il tono retorico della domanda, non ce lo facciamo ripetere due volte. “Vi chiamo io quand’è pronto, allora” ci saluta, mentre con Francesco ci sediamo all’ombra della veranda tra la stalla e il casale, dove finalmente riesco a fargli la domanda che avevo in serbo da qualche giorno Oggi se fai biodinamica sei considerato uno stregone, cosa significava farlo nel 1964?Francesco ride e replica “Eri considerato un pazzo, anzi era una cosa da tener proprio nascosta. Oggi in alcuni ambienti è un merito, negli anni ’90 quando io andavo a presentare i miei vini ai ristoranti non dicevo mica di fare agricoltura biodinamica. L’avessi detto mi avrebbero sbattuto fuori dalla porta”.

Gli chiedo di raccontarmi come tutto è cominciato. “Un tempo qui era molto più umido di adesso, pioveva anche molto e quindi era necessario trattare spesso. Mio nonno Andrea addirittura andava in banca con il cavallo e il birucin a prendere le monete fuori corso di rame, poi le scioglieva con l’acido solforico e l’acido nitrico per farsi il solfato di rame per i trattamenti. E così è stato insegnato a mio padre. Dopo la pioggia si andava in vigna a trattare, il problema è che dopo due ore se pioveva ancora bisognava fare un secondo trattamento.

Nei primi anni ’60 con la diffusione della chimica, i primi tecnici arrivarono alla Tenuta e mostrarono a mio padre i prodotti alternativi che assicuravano la durata di un singolo trattamento per una decina giorni, anche nel caso fosse venuto a piovere di nuovo. Pareva un grande vantaggio e mio padre decise di provarli. I giorni successivi al trattamento mio padre tornava a casa con tutte le braccia e le gambe gonfie, il medico gli spiegò che era dovuto ai residui di questi prodotti nel vigneto e gli sconsigliò di lavorare tra i filari dopo i trattamenti. Questo fece scattare subito una grande perplessità nella testa di mio padre. Si chiedeva come potesse non fare male alle piante se faceva male a lui.

In contemporanea nelle risaie a fondo valle vicino a Casale iniziarono i primi diserbi che sostituirono il tradizionale lavoro delle mondine. Verso fine maggio, inizio giugno venivano usati i diserbanti, l’acqua evaporando ne portava con sé i residui, portati fin su dalle colline grazie al vento. Ce ne siamo accorti perché il grignolino era molto sensibile: le foglie iniziarono a diventare tutte prezzemolate e si seccarono i viticci e le punte dei grappolini.

Mio padre conobbe il professor Garofalo dell’associazione Suolo e Salute che lo mise in contatto con Gianni Righetti che ai tempi era il referente della biodinamica in Italia. Mio padre ai tempi non sapeva neanche cosa significasse biodinamica, ma da lì nacque la scintilla che lo portò tra il ’64 e il ’65 a trasformare l’azienda che ai tempi era incentrata quasi solamente sul vigneto e il suo approccio agricolo, abbracciando questo nuovo metodo e portando Tenuta Migliavacca alla dimensione odierna”.

“Io ti vedo estremamente pratico in tutto quello che fai” gli dico “come ti rapporti a una disciplina agricola che contempla anche una grande componente filosofica?” La risposta di Francesco è molto più semplice e scontata di quanto potessi immaginare Io la mia biodinamica la vivo principalmente dal punto di vista agricolo”.

Monica ci chiama in tavola. Bastano due forchettate per inserirlo tra i migliori pranzi piemontesi della nostra vita. Tra insalata russa, vitello tonnato, lingua al verde, pomodori ripieni e risotto allo zafferano, Francesco apre uno a uno i suoi vini, che scatenano la convivialità in tavola, dimostrando vivacità, freschezza e grande beva. I vini della Tenuta Migliavacca sono vini essenziali e profondamente gastronomici, di quelli che in tavola non si rendono protagonisti, ma di cui si sente la mancanza non appena finiscono. Chiedo a Cristina anticipatamente scusa per la domanda da vecchio “sai già cosa ti piacerebbe fare da grande?” Cristina sorride “sinceramente no, ma per ora il vino ancora non lo bevo”.

Il tempo di un caffè ed è già di tornare verso Genova, salutiamo, ringraziamo per la giornata, ma prima di partire ho la necessità di chiedere a Francesco se negli anni ha mai venduto vino sfuso “Certo” mi risponde “vengono qui da tutto il nord Italia, soprattutto milanesi”. Bingo! Lungo la strada chiamo mio padre “Papà, abbiamo mai comprato il vino da Francesco Brezza in Monferrato?” “Da chi?” “Niente, lascia stare. Ah, chiama il Peppo e digli che l’anno prossimo a prendere il vino vi ci porto io”.

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