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Stéphane Tissot: la vie est belle

Reportage //

Stéphane Tissot: la vie est belle

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In che misura il vino è capace di essere espressione di un territorio? Siamo andati a verificarlo di persona da Stèphane Tissot, grande interprete della biodiversità morfologica dei suoli dello Jura.

Costeggiando le mura del Clos che racchiudono la storica Vigne de Rosiéres di Louis Pasteur a Montigny-les-Arsures, si finisce per imboccare una stretta stradina che dopo un centinaio di metri si apre su un cortile con un vecchio torchio ricoperto di muschio e una scritta che non lascia spazio a equivoci: Domaine André et Mireille Tissot. 

UN MOSAICO DI TERROIR

Il primo incontro nel calice con lo Jura è di quelli che non si dimenticano mai. Le sfumature ossidative che rendono i Vin Jaune e gli altri savagnin sous voile così typé non possono lasciare indifferenti: o si amano o si odiano. Proprio per la loro spiccata particolarità, i vini ossidativi si prestano a essere spesso adottati come prima chiave di lettura della scena vitivinicola jurassienne. C’è però un altro elemento che non può essere trascurato nell’esplorazione “gustativa” di questo territorio, si tratta dell’incredibile varietà e diversità del sottosuolo che fanno dello Jura un vero e proprio mosaico di terroir. E al Domaine Tissot, con più di venti diverse cuvée, questo è l’approccio che si può scegliere di privilegiare.

Quando partiamo alla volta di Montigny-les-Arsures, di Stéphane Tissot so solo due cose. La prima riguarda appunto il suo lavoro, volto principalmente alla ricerca dell’espressione della complessità geologica che contraddistingue la regione. La seconda invece è quello che mi hanno detto essere il suo motto “la vie est belle!”

Arriviamo di lunedì sera e il centro di Arbois è semideserto. Le luci di una vetrina guidano i nostri piedi verso quello che sembra essere l’unico locale aperto. Ironia della sorte si tratta proprio dell’enoteca e punto vendita cittadino del Domaine. Bénédicte, la moglie di Stéphane, sta per abbassare le serrande, ma ci riconosce al di là dei vetri e ci invita dentro per un bicchiere di bollicine. Fissato l’appuntamento per l’indomani, le chiediamo un consiglio su dove andare a cena. Ma giorno e orario proprio non giocano a nostro favore e così finiamo a mangiare una suprême de volaille au Vin Juane che purtroppo di attraente ha solo il nome.

La mattina successiva, quando arriviamo di fronte al Domaine, troviamo la porta aperta e ad accoglierci c’è solo un tintinnio di vetri in lontananza. Ci sporgiamo all’interno della cantina “Stéphane?” chiama Fabio. Dal fondo del corridoio ci risponde una voce “J’arrive!”. Poco dopo dal buio compare la sagoma di uomo alto e corpulento: ha un cappellino in testa, la barba brizzolata e l’aria seria. Poi incrocia lo sguardo di Fabio, lo riconosce e si illumina in un sorriso “Le Triple “A” sont arrivés! Scusate stavo imbottigliando che c’è ancora luna calante”. Poi si riconferma il solito Stéphane “La vie est belle!”

Non facciamo in tempo a pianificare la giornata che siamo già in macchina in direzione Les Bruyères, un vigneto che conta sei dei cinquanta ettari totali del Domaine, particolarmente significativo per avere un primo assaggio del carattere multiforme dello Jura. Quando gli chiediamo di raccontarci le origini del suo territorio, Stéphane si anima e diventa difficile stargli dietro, un po’ per il francese e un po’ per sua profonda conoscenza in materia di geologia. “Durante tutta l’età Giurassica, e già a partire dal Triassico” comincia Stéphane “la regione era ricoperta da un mare poco profondo a cui dobbiamo la grande presenza di fossili di origine marina. Poi i movimenti delle Alpi e del Massiccio del Giura e i sedimenti che si sono depositati nel tempo hanno portato alla formazione di suoli molto stratificati in cui entrano in gioco terreni argillo-calcarei e marnosi argillosi. I primi, i più recenti, sono più chiari, leggeri, a volte sassosi, i secondi, più scuri, freddi e pesanti, si distinguono per l’epoca di origine delle argille: del Lias, datate 200 milioni di anni fa e ricche fossili, e del Trias, le più antiche”.

Appena giunti a destinazione Stéphane, impaziente, scende dalla macchina e ai lati del sentiero che separa due appezzamenti raccoglie due zolle di terra e le mette a confronto. “Questa più compatta ci indica la sua natura argillosa, nello specifico queste sono argille del Trias, ideali per il savagnin e il poulsard. Quest’altra friabile e con presenza di caillou ha una maggior componente calcarea ed è il substrato preferito da pinot noir e trousseau”. All’appello manca solo lo chardonnay, attraverso il quale Stéphane mette in mostra come le differenze suolo siano in grado di influenzare l’espressione di un vitigno “Sulle argille lo chardonnay gioca su note fumé, un particolare amartume e parti più riduttive, sul calcare invece tira fuori delicatezza, sapidità e sfumature citronné”.

Stéphane poi lascia cadere a terra le due zolle e ci guarda “Tutto chiaro?” In quel momento sono le nostre espressioni a rispondere per noi. “Ho capito dai” replica Stéphane “andiamo a vedere se le differenze si fanno più chiare dentro a un bicchiere”.

LO JURA IN BOTTIGLIA E NEL PIATTO

Mezz’ora dopo siamo in cantina, a perderci tra veri e propri corridoi di barrique lunghi fino a venti metri. Stéphane ci fa passare dalla teoria alla pratica versandoci nel calice, uno dopo l’altro, sei diversi campioni di botte di chardonnay cresciuti su suoli differenti.

Cominciamo dai terreni più calcarei e sassosi del Les Graviers, delicato, fresco e agrumato, e del Tour du Curon, più voluminoso e dallo stile borgnotto. Passiamo poi ai terreni ricchi di fossili caratterizzati dalle argille del Lias come l’En Barberon, disteso ed esuberante, il Mailloche, energico e concentrato, e il Sursis, coltivato a Chateau Chalon, dove parte tostata e acidità si fondo quasi a ricordare un vecchio Chablis. Chiudiamo infine sulle argille del Trias del Les Bruyères, in cui la parte riduttiva prende il sopravvento, richiedendo sì un periodo di affinamento più lungo, ma regalando poi le più interessanti evoluzioni nel tempo.

La visita in cantina prosegue al piano superiore, dove risiede la stanza di affinamento dei savagnin sous voile, le cui pareti sono colonizzate dai lieviti della flor.

“Tutti i vini ossidativi sono vinificati in acciaio e aggiungo un po’ di solforosa” spiega Stéphane “questo ci consente di avere fermentazioni più rapide e di tenere a bada l’acidità volatile. L’affinamento ossidativo richiede vini molto stabili in partenza”. Poi aiutandoci con la torcia del telefono ci chiniamo sulla botte scolma per provare a intravedere il velo della flor. “Lo spessore della vela varia di anno in anno” continua Stéphane “L’alcol inibisce i lieviti, quindi nelle annate calde la vela si assottiglia e si ottengono vini più concentrati. Se è vero che l’ossidazione controllata è un tipo di affinamento in parte omologante, scegliendo di far stare sotto vela tutti i Vin Jaune per sei anni e mezzo possiamo mettere in evidenza l’annata”.  

Scendiamo le scale e ritorniamo al punto di partenza, una grande sala illuminata dalla luce che penetra dalla parete a vetri che affaccia sul cortile. Su un grande tavolo al centro della stanza si spiega l’intera batteria di etichette del Domaine.

Aprono le fila tre bollicine, l’Indigene, il BBF e il Blanc de Noirs, che, come ci spiega Stéphane “a partire dal 2017 affrontano anche la seconda fermentazione per mezzo dei lieviti indigeni grazie all’aggiunta di mosto congelato”. Ripercorriamo il percorso degli chardonnay, questa volta assaggiando le annate in commercio che, dopo due anni di botte e qualche mese di bottiglia, mettono ancora di più in risalto i tratti distintivi dovuti alle diversità del suolo. Stéphane mentre racconta i suoi vini diventa un vero vulcano di parole che trasudano passione. E non si fa in tempo a finire un calice che te ne sta già versando un altro. Un po’ perché è fatto così, un po’ perché solo assaggiando tutte le sue etichette si può dare voce a tutte le sfaccettature di un territorio così vario e complesso.

Poi Stéphane mette in tavola due bottiglie coperte e ci incalza “Ora è il vostro turno. Assaggiate e mi dite se lo chardonnay viene da argille da calcare e se si tratta di un’annata fredda o calda”.Dopo la doppia lezione di Stéphane distinguere calcare e argille è quasi un gioco da ragazzi. Sull’annata invece tiro a indovinare puntando tutto sul freddo. Scopriamo le bottiglie e appaiono un Tour du Curon e un Les Bruyères. Entrambi della torrida 2009.

Il sole ci invita a proseguire sui rossi spostando il tavolo in cortile e cominciando a mettere qualcosa sotto i denti. Stéphane tira fuori un salame e mentre lo affetta ci invita a servici il DD, un uvaggio di poulsard, trousseau e pinot noir, dedicato a suo papà André, per tutti Dedé. Seguono poulsard e trousseau in purezza, entrambi nelle versioni in legno e amphore, che mettono a nudo l’animo rispettivamente più libertino e più serioso dei due vitigni autoctoni dello Jura.

È il momento che tutti aspettavamo. Stéphane entra in cantina, ne torna poco dopo con una bottiglia di Vin Jaune Les Bruyères 2012 e la apre. Non facciamo a tempo a porgergli i calici che ci raggiunge suo figlio Emrich con in mano una casseruola fumante da cui si intravedono cosce di pollo e mourilles. Con un pizzico di delusione scopriamo che la bottiglia non è per noi, o almeno per il momento. Serve per dare il tocco finale a una suprême de volaille au Vin Juane che questa volta è da far girar la testa. E mentre Stèphane versa il vino nella pentola, i fumi alcolici si disperdono nell’aria e la degustazione si fa banchetto.

DA ANDRÉ A STÉPHANE: STORIA DEI TISSOT

A fine pranzo, uno Chateau-Chalon da urlo e due fette di Comté diventano il pretesto per far raccontare a Stéphane la storia del Domaine e della sua famiglia. Il Vin Jaune è nato con il Comté e il Comté è nato con il Vin Jaune. I miei nonni avevano una fattoria, producevano il formaggio e davano l’uva alla cooperativa”.

“Hanno avuto quattro figli e la vigna è spettata a mio padre André, che è diventato vignaiolo a tempo pieno fino ad arrivare a vincere una medaglia d’oro a Parigi con il suo vino” continua Stéphane “A quel punto ha deciso di investire e di acquistare altre vigne. Io ho cominciato ad affiancarlo quando avevo diciassette anni. Anche io ho vinto delle medaglie e mio padre era molto felice. Poi ho cominciato a fare biologico e a quel punto non era più molto contentochiude in una risata.

Manco a farlo apposta dal fondo del cortile compare un uomo tale e quale a Stéphane, ma con vent’anni di più. Non può che essere André, che si versa un bicchiere di vino e da lì a poco ci offre la sua versione della storia.

“La mia è una cultura del vino convenzionale, i diserbanti ci venivano venduti come prodotti miracolosi e nel ’67 ho cominciato ad usarli. Non immaginavo che sarebbe stato così distruttivo. Ricordo che poi Stéphane, dopo aver fatto esperienze all’estero, mi disse che se non gli avessi lasciato fare se ne sarebbe andato. Devo ammettere che ho visto i risultati sin dal primo anno, specialmente in termini di identità territoriale”.

Poi la storia del Domaine passa per l’abbandono dei lieviti selezionati, l’adozione delle pratiche biodinamiche, fino all’incontro con le Triple “A” nel 2003. “Da allora ad oggi di cose ne sono cambiate ancora tantissime, a cominciare dallo Jura stesso” racconta Stéphane “negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio boom. Questo ha attratto sia tanti nuovi turisti appassionati sia una generazione di giovani vignaioli che stanno investendo su una viticoltura pulita e di qualità. Dal nostro punto di vista abbiamo cominciato a lavorare con le anfore, abbiamo ampliato la produzione di Vin Jaune vinificandoli per parcella e acquistato nuovi appezzamenti. Sono convinto che se mai dovessero fare una mappatura dei Grand Cru dello Jura avremmo una posizione di partenza privilegiata”.

Poco dopo il sole comincia ad abbassarsi, ricordandoci che siamo già in ottobre. Ci infiliamo di nuovo la giacca e Stéphane ci propone di andare a finire la degustazione tra i filari del Clos de la Tour du Curon, vigneto le cui prime testimonianza risalgono addirittura al 1340. Sulla cima della collina, che in alcuni punti raggiunge pendenze davvero ragguardevoli, svetta la torre che dà il nome al clos “è di metà dell’Ottocento” racconta Stéphane “e veniva usata come casa dai guardiani che controllavano che non venissero rubate le uve”.

Ai piedi della torre si spiega una distesa di filari tinteggiati dai colori dell’autunno che giungono fino alle prime case di Arbois, all’orizzonte altri vigneti risalgono le colline fino ai confini dei boschi sulle cime. Stéphane tira fuori dallo zaino una clavelin impolverata, l’etichetta recita Vin Jaune 1992, ma non è finita qui “questo è l’unico Vin Jaune orange della nostra storia” aggiunge Stéphane “o meglio è l’unica annata in cui sono riuscito a farlo. Tutte le altre volte che ho provato ne ho ricavato un ottimo aceto!È difficile trovare le parole per descrivere le emozioni che il vino è in grado di suscitare e non parliamo di sapori, ma di un insieme di sensazioni che prima riempiono il palato e, mentre si fissano nella mente, formano ricordi nel cuore.

Stéphane comincia a salutarci, poi cambia idea, rientra nella torre e ne esce subito dopo con in mano un’altra bottiglia “mi son dimenticato di questa: non potevo non farvela assaggiare. Giuro che è l’ultima”.
Davanti agli occhi ci troviamo una bottiglia di Cantillon “Emrich ha lavorato per un po’ da loro e ne sono nate alcune collaborazioni” ci spiega “tra cui questa lambic invecchiata nelle botti di Vin Jaune”.
Stéphane ci mostra l’etichetta e subito penso che per quella birra non avrebbero potuto scegliere nome più azzeccato: “La vie est bélge”!

Poi però questa volta Stéphane ci saluta per davvero, riscende i gradini che dalla Tour du Curon riportano a valle e la sua sagoma si fa sempre più piccola, finché sale in auto e scompare all’orizzonte. Nel frattempo il sole sta tramontando dietro le colline e il buio comincia a spegnere i riflessi dorati dei primi filari a valle. Cinque minuti più tardi sul paesaggio davanti a noi è praticamente calata la notte portandosi via il sole, il paesaggio e Stéphane. L’unica cosa che non è in grado di prendere con sé è il sottofondo del Vin Jaune che pian piano si ripresenta e con prepotenza riconquista prima la bocca, poi la testa e infine l’anima.

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