Una storia d’amore può gettare le fondamenta per il recupero di un territorio? Per trovare una risposta siamo andati fin sull’Etna per incontrare Rori e Cinzia, vignaioli di SRC.
Arrampicandosi sulle pendici nord del vulcano tra i comuni di Randazzo e di Solicchiata, vi ritroverete in un mosaico di piccoli vigneti da cui nascono alcune delle eccellenze del Rinascimento enoico che sta vivendo l’Etna. In contrada Crasà, un antico muretto a secco in pietra lavica delimita il piccolo fazzoletto di terra che ha sancito la nascita di SRC Vini, il progetto visionario di Rori, Cinzia e Sandra Parasiliti.
INTRECCI D’AMORE, DI VINO, DI VITA
Riconosco gli amori, quelli veri. Amare significa camminare insieme a ritmo condiviso, verso una meta comune. E Rori e Cinzia Parasiliti amano: è evidente, è rassicurante, è contagioso.
Tutto nacque sulle spiagge scure di Stromboli, che entrambi, imprenditori di successo, frequentavano fin da giovanissimi. Poi l’incontro, gli amici in comune, il riconoscersi immediatamente, l’iniziare un percorso di vita insieme tra la pianura emiliana e le terre vulcaniche di Sicilia. Qualche anno più tardi Rori donò a Cinzia, come regalo di compleanno, un piccolo appezzamento di terreno alle pendici dell’Etna, racchiuso da un muretto a secco di pietra lavica. E, a poco a poco, iniziò a prendere vita una nuova storia d’amore, quella con la terra, la vite, il vino.
In una serata fredda di fine inverno, mentre il vulcano è nascosto dalle nubi, raggiungiamo con Rori e Cinzia il porticciolo di Acireale, dove le barche sono ormeggiate a secco, sulla discesa a mare, nera come la pece, per lo strato spesso di polvere eruttiva che la ricopre. I colori dei piccoli scafi risaltano su questa lavagna e rimandano ai pastelli delle facciate delle case un tempo abitate dai pescatori e ora meta dei turisti estivi. Decidiamo di iniziare da qui, dalla spiaggia, come la loro relazione, la conoscenza tra di noi e con i loro vini di montagna.
Il ristorantino del porto, scavato come una grotta nella roccia, cucina solo pesce locale, pescato in maniera tradizionale. Malgrado i prezzi proibitivi del gasolio, che tengono in porto i pescherecci, qualche cattura è disponibile per la nostra cena: piccoli frutti di mare, gamberi, calamari, un paio di polpi, che gustiamo semplicemente bolliti, e un’orata dalle branchie rosse e vive, che viene arrostita sulla carbonella. Il collagene del pesce, che vernicia il palato, incontra nel bicchiere la potenza del Bianco Pirao, un falso magro. La percentuale alcolica esile, da vino d’altura, è sostenuta da una struttura potente, che imprigiona sentori di artemisia e di frutta matura. Il riposo in bottiglia, come per tutti questi vini di vulcano, baciati dal sole, spazzati dal vento e raccolti quando le temperature non sono più torride, favorisce il matrimonio tra le varie componenti del vino, che acquista equilibrio e una bocca lunga, piacevole, che domanda subito un altro sorso. È il mio primo assaggio di un vino di SRC e sento di essermi già innamorato anch’io. Ne berrei altre due bottiglie, ma neppure in cantina ne sono rimaste.
Da quella prima vigna racchiusa, l’azienda è cresciuta con ulteriori acquisizioni, raggiungendo quasi i quindici ettari. Rori e Cinzia hanno esplorato tutta la zona in bicicletta, decidendo di acquistare solamente appezzamenti ancestrali, dove le vigne fossero già presenti in tempi antichi e, quindi, resistenti alla prova dei secoli. Hanno ricercato piccoli terreni, circondati da muretti, arricchiti da annessi agricoli, con viti centenarie ancora presenti, prediligendo quelle coltivate ad alberello, come da tradizione. La motivazione è chiara: in un territorio naturalmente refrattario alla maggior parte delle parassitosi, grazie anche alla predisposizione dei due vitigni principali, nerello mascalese e carricante, la filosofia dell’azienda è quella di intervenire il meno possibile, accompagnare invece di guidare. I trattamenti sono per lo più manuali, zappature e rincalzi, e le uniche sostanze che vengono utilizzare in vigna sono zolfo, farina di roccia e propoli. Le viti vecchie, adattate alla siccità, hanno spinto le radici nel profondo della terra, sotto allo strato di polvere e lapilli, fino ad incontrare la roccia e l’umidità sotterranea. E le quattro zappature annuali, mi spiega Rori, servono a arieggiare il primo strato di terreno, permettendo alla pianta di “bere” le molecole d’acqua disperse nell’atmosfera unica che circonda il vulcano.
SI SCRIVE SRC, SI LEGGE ESSERCI
Il risveglio al mattino mi regala l’emozione della neve appena sopra al paesino di Linguaglossa. Esco un po’ leggero, da sprovveduto turista del Nord che fa finta di dimenticarsi che la cima dell’Etna sia a oltre 3.300 metri, ma l’eccitazione di correre verso i fiocchi appena caduti mi fa dimenticare le temperature rigide e il vento gelido.
Percorro dieci chilometri in salita, in un paesaggio che mi porta ad immaginare come dovevano essere queste pendici oltre seicento anni fa. Trovo una mulattiera in basalto, la roccia effusiva con cui l’architetto Vaccarini ricostruì, in periodo barocco, buona parte della città di Catania, distrutta da una delle sette eruzioni che la rasero al suolo. Il sentiero lastricato assomiglia a tutti quelli che nel Mediterraneo gli arabi esportarono insieme alla cultura delle cisterne per raccogliere l’acqua piovana. La larghezza permette a due muli, someggiati con due gerle cariche d’uva o di vino, di percorrere la strada in senso contrario e l’ampiezza e lunghezza degli scalini è tagliata sulla comodità dell’incedere dei quadrupedi. La moderna strada asfaltata ha però cancellato e mortificato l’antica mulattiera a ogni tornante.
Mi addentro nel bosco e scopro che tutto è terrazzato con un lavoro certosino di ripiani, muretti e anfiteatri emiesagonali, che permettevano di sfruttare tutto il territorio esposto al sole e di moltiplicare la metratura dei piccoli appezzamenti. Ovunque, nascosti dalla vegetazione che, dopo l’abbandono dei campi avvenuto negli ultimi cento anni, ha invaso prepotentemente ogni metro della montagna, si ritrovano vecchi ceppi di vite, ulivi soffocati da pini, castagni e essenze giunte da Oltreoceano, palmenti, pozzi, frantoi, case per il ricovero degli attrezzi. È impressionante, per tutti i chilometri che mi consente il mio allenamento, scorgere senza soluzione di continuità, a destra e a sinistra, un sistema agricolo evoluto, perfetto, conservato in maniera impeccabile, come solo la roccia inerte lavica può garantire, ma tristemente abbandonato. In alcune radure, moderne aziende vinicole hanno spianato le terrazze, frantumato le pietre vulcaniche con potenti macchinari, diradato gli alberelli per trasformare gli appezzamenti vitati in filari, più agevoli da lavorare a macchina, oppure hanno piantato ex-novo costruendo accanto ai campi diserbati enormi capannoni che nascondono verosimilmente un abbondante apparato di tecnologia enologica.


Mi intrufolo in una grande costruzione di sassi abbandonata e ricoperta dalla vegetazione e trovo invece l’antica vasca per la fermentazione delle uve e l’enorme torchio azionato dalla vite senza fine. È triste riconoscere come un organismo agricolo perfetto, autosufficiente, che non risparmiava un solo metro quadrato che potesse essere fonte di sostentamento, in una terra tra le più fertili al mondo, sia oggi completamente negletto, in spregio alla fatica di decine generazioni che, a mano, hanno spietrato e costruito manufatti, hanno individuato le migliori zone e le migliori selezioni di viti adatte a produrre e hanno tramandato fino a noi un patrimonio inestimabile che oggi, ed è una speranza, qualcuno sta cercando di salvare.
Solo adesso capisco le intenzioni che animano Rori e Cinzia: l’essere rianimatori di questa ricchezza agricola e trasmetterla alle generazioni successive. L’acronimo SRC contiene le iniziali di Rori e di Cinzia, ma precedute da quella di Sandra, la figlia di Rori. E si legge “Esserci”, avere il coraggio di fare la propria parte perché i vini dell’Etna ritornino a vivere in armonia con la terra che li ospita.

DI CONTRADA IN CONTRADA
Con questa consapevolezza parto insieme a loro per la visita a tutti gli appezzamenti. La ricognizione parte dal primo tassello di questa trama di piccole parcelle, quella in contrada Crasà da cui tutto partì in quel genetliaco. Lì osserviamo le vecchie viti di nerello mascalese, poi proseguiamo per contrada Calderara, dove è stata costruita la cantina e sono state messe a dimora nuove barbatelle a piede franco, da selezione massale avvenuta in azienda, continuiamo in montagna, nel comune di Randazzo, verso contrada Rivaggi, dove le antichissime piante ad alberello di nerello convivono con alcune di granaccia, fino a raggiungere i 1000 metri dove maturano le uve del carricantePirao. Ma il sogno di Rori e di Cinzia è quello di recuperare terrazze vitate fino a 1200 metri, dove si possono ancora trovare botti e palmenti nascosti nei piccoli casali annessi alle vigne, segno tangibile del fatto che, anche in tempi di climi ben più rigidi, fino a quell’altitudine si riusciva a vinificare.
Attraversare una giovane colata lavica coagulata è un’emozione enorme, come l’osservare la montagna da quest’altezza e la pianura ormai lontana. In mezzo alle vigne scorgiamo i segni dei cinghiali e delle mucche che pascolano praticamente selvatiche. Allestiamo una piccola merenda con il pane di grano duro cotto nel forno a legna del paese vicino, qualche fetta di coppa artigianale e un pezzo di caciocavallo.
Il vento inizia a farsi freddo e ci mancano ancora le vigne più alte, ad alberello, selve di pali di sostegno a cui la vite si abbraccia per resistere al vento. Rori mi spiega che aspira a vini che non abbiano difetti al naso, che non ha paura di aspettare che in bottiglia il tempo smussi i tannini del nerello e che dopo nove vendemmie è ancora tempo di imparare e di sperimentare. È un uomo curioso Rori, metodico, intelligente, colto, innamorato della sua terra e del proprio lavoro. Interviene il meno possibile ma non lascia nulla al caso, agendo con millimetrica precisione.


Cinzia condivide con lui la fatica dell’azienda, la profondità di pensiero, la generosità, la cultura, la dedizione al bello e al buono. Ed è l’anima creativa. Pittrice sensibile, ha disegnato personalmente l’etichetta, osservando che l’Etna, visto da qui, non appare come il classico cono ma come una montagna dotata di due mammelloni, che realizza affrontando due profili umani, quasi speculari, che ha poi ruotato di novanta gradi e colorato. Lava, sangue, vita, vino e sensualità convivono in queste etichette assolutamente uniche e riconoscibili in mezzo a molte altre.
Arriviamo intirizziti dal verduriere locale, che ci fa trovare uova di cascina, carciofi dell’Etna, bietole, erbe selvatiche, limoni e i primi mazzi di finocchietto. Cuciniamo tutti insieme per accogliere la degustazione dei vini di SRC: biete appena scottate e una crema di avocado siciliani con menta e limone; le “minestre”, così vengono localmente denominati i vegetali spontanei che solitamente finivano cotti in brodo, crude, solamente marinate nel sale e accompagnate da cipollotto e aceto balsamico di Modena, dell’acetaia di famiglia; poi zuppa orientale di vegetali in brodo leggero di piedini di maiale e uova, luppolo e rosmarino della vigna. È una bella serata, che scorre lenta e semplice.
Rori e Cinzia stappano generosamente le prime annate prodotte. I vini invecchiati hanno trovato in bottiglia bilanciamento, sapore e bevibilità inaspettati. Ma sono anche quelli più semplici, dell’annata, l’Etna Rosso e l’Etna Bianco, a sorprendere per intensità, complessità e freschezza: merito delle vigne vecchie e di un disciplinato lavoro di accompagnamento in cantina, tra cemento e legni esausti. Ogni vino è appagante e sorprendente, si accosta al limone, resiste ai carciofi, gioisce del formaggio. Pare di conoscersi da sempre e sembra strano aver potuto fare a meno di queste bottiglie fino ad oggi, sento che oggi è l’inizio di qualcosa.
Gli inizi si riconoscono sempre. E tutte le storie hanno un inizio. Ma non tutte proseguono, se non con l’impegno quotidiano. Sandra, Rori e Cinzia hanno deciso di profonderlo, hanno scelto di esserci, ogni giorno, con solidità, per questa terra, per questi vini, per tutti quelli che desiderano condividerli con loro e far parte, in qualche maniera, del loro progetto d’amore.
