Quanto è importante un’attenta osservazione della natura per intuire la direzione da intraprendere nel proprio lavoro di agricoltori? Per comprenderlo a fondo siamo andati a trovare Martin Gojer e Marion Untersulzner, vignaioli di Pranzegg che hanno fatto dell’osservazione e del confronto la chiave del successo di questo maso.
Percorrendo la statale 12 che da Bolzano corre verso nord quasi parallela all’autostrada del Brennero, giungerete fino alla stazione di valle della Funivia del Colle. A quel punto, imboccando via Campegno, solo tre tornanti vi separano dalle porte del maso Pranzegg.
ANIMO DA BURRO, OSPITALITÀ DA OLIO D’OLIVA
La prima volta che assaggiai un calice di Campill di Pranzegg, Fabio Luglio me lo presentò come una “schiava liberata”. Sorrisi al gioco di parole, ma non capii fino in fondo cosa significasse di preciso. Oltre alla bontà del vino a stupirmi fu il fatto che in una terra di bianchi il vino più identificativo di Pranzegg fosse un rosso e per giunta ottenuto da un vitigno che più volte mi era stato presentato come poco interessante, quasi incapace di raggiungere grandi risultati in termini di complessità e profondità.
Pochi mesi dopo Martin mi offrì uno spaccato storico ed enologico del suo territorio completamente differente da quello che credevo di conoscere. Mi ritrovai di colpo a fare i conti con una regione storicamente vocata alla produzioni di rossi e con un vitigno, o meglio, una famiglia di vitigni bistrattati ma dal grande potenziale inespresso. La comprensione del processo di “liberazione della schiava” mi assorbì a tal punto che quel giorno finii quasi per tralasciare completamente il resto della storia di Pranzegg e dei suoi protagonisti Martin e Marion. Ecco che questo diventava automaticamente uno degli obiettivi di questo nuovo viaggio.
Salendo i tornanti che conducono alle porte del maso, il traffico cittadino della pianura cede il posto a una quiete quasi surreale accompagnata dalla neve caduta la notte precedente. Sulla soglia della porta c’è Martin ad accoglierci “Benvenuti a Pranzegg, vi stavamo aspettando. Freddino, eh?” Saliamo le scale del maso che ospita nell’ordine la cantina, una piccola sala degustazione, la casa della mamma di Martin e quella di Martin e Marion, che ci saluta indaffarata da dietro ai fornelli. Dalla parete a vetri si gode di una vista privilegiata: dal manto bianco, uniforme, ovattato fanno capolino i tronchi ordinati delle pergole del vigneto storico di Pranzegg.
Il tempo di un bicchiere di Caroline, l'uvaggio bianco che porta il nome della figlia di Martin, e siamo già con le gambe sotto al tavolo. Marion ci rapisce con i suoi canederli di barbabietola dal cuore morbido e rosso sangue e Martin ci racconta la storia della casa e del luogo “la mia famiglia è arrivata qui solo nel 1935, ma il maso ha origini molto più antiche. La cantina per esempio risale addirittura fino al XIII secolo ed è ancora intatta. Il resto della struttura invece è stato costruito alla fine dell’epoca austro-ungarica di cui riprende lo Jugendstil".
L’influenza di quel periodo del resto si fa ancora sentire in tutto l’Alto Adige “siamo italiani ma abbiamo anche un che di austriaco, siamo un bel mix tra burro e olio d’oliva” suggerisce Marion ridendo. Il vino nei calici guida l’alternarsi dei discorsi tra il ricordo del vino che faceva il padre di Martin, il ruolo delle cooperative nel panorama enologico altoatesino, l’origine ladina del nome Pranzegg che significa “prato rapido verso l’acqua” (ad indicare l’orientamento dei terreni verso l’Isarco).
Una torta di grano saraceno ai mirtilli, un caffè e l’ultimo sorso di Caroline ci danno la forza di riaffrontare il freddo. Martin non vede l’ora di mostrarci l’ultimo vigneto che hanno preso in gestione.
STESSA MANO, VERSANTI OPPOSTI
Bolzano fa da piano di una vera e propria conca stretta tra le alture, una morfologia del territorio che per assurdo lo posiziona tra le aree più fredde d’inverno e più calde d’estate di tutta Italia. “Nel periodo tra le due guerre con l’annessione dell’Alto Adige all’Italia e l’avvento del Fascismo, Bolzano subì una forte industrializzazione” ci spiega Martin “Così nel ‘35 mia nonna dovette abbandonare il maso di pianura e trasferirsi a Campiglio al maso Pranzegg”. In pochi anni la viticoltura della zona si trasformò in viticoltura eroica di montagna, impreziosendo ancora di più ogni piccolo fazzoletto di terra.
Quando scendiamo dall’auto ci troviamo a Signat, esattamente sul versante opposto rispetto a Campiglio e si riesce a intravedere il maso in lontananza. Qui le pendenze si fanno quasi vertiginose. “Avendo esclusivamente vigneti sulle due sponde delle alture che chiudono la valle abbiamo esposizioni opposte e altitudini differenti. Questo da un lato ci offre il grande vantaggio di poterci dividere facilmente il lavoro tra i vari appezzamenti” continua Martin “Allo stesso tempo però se un ettaro di vigneto in pianura richiede 250 ore all’anno di lavoro, un vigneto su queste pendenze ne pretende almeno 1100”.
Proseguiamo tra i boschi di larici e castagni fino al vigneto da cui nasce il Tonsur, un caso di coplantazione assai raro per queste zone, dove convivono varietà diverse tra loro come muller thurgau, pinot bianco, sylvaner e altre varietà minori autoctone che Martin impiega in caso di fallanze. “Qui il suolo è tutto porfido” racconta Martin mentre ci mostra la roccia che si intravede tra i terrazzamenti “c’è anche un alto grado di silice che restituisce una sapidità identitaria ai tutti i nostri vini”.
La terza tappa è il vigneto di Unterplatten dove convivono schiava e gewurztraminer. “Il gewurztraminer è un vitigno vecchissimo, ha una genetica evoluta, ma per tanti secoli non è mai stato incrociato. Per questo le viti sono super sensibili e muoiono giovani. Qui per esempio l’impianto risale al ‘98 e temo che non gli restino ché due o tre vendemmie”.
L’entusiasmo di Martin nel raccontare il suo lavoro non ha freni, specialmente quando torniamo a Campiglio, dove le pergole di schiava schierate a fianco della casa risalgono al ‘56. “Quest’anno abbiamo piantato un sacco di alberi da frutto tra le vigne. Meno rese per una maggior qualità di vita” esclama Martin appena aprire di aprire un nuovo capitolo “l’obiettivo è tornare alla policoltura, come del resto è sempre stato”.
POLSO, OSSERVAZIONE E TESTA
Davanti a una tazza di té caldo Martin e Marion ci raccontano la storia di Pranzegg “Quando la mia famiglia si è trasferita qui la policoltura era la norma” spiega Martin “così i terreni erano dedicati all’allevamento di vacche e maiali, poi c’era l’orto, il bosco e naturalmente i vigneti. Poi col tempo, dopo la seconda guerra mondiale, Pranzegg ha perso la sua multifunzionalità finendo per concentrare le attività esclusivamente sulla produzione di uva che veniva venduta. Nel ‘91 quando è mancato mio padre era un periodo in cui molti vendevano la terra. Mia madre e mia sorella invece hanno avuto il coraggio di portare avanti la storia di Pranzegg”.
“Per me è stato chiaro fin da bambino che sarei rimasto qui” continua Martin “da un lato non avevo alternative dall’altro il vino mi dava soddisfazione e ho deciso di fare questa scommessa. Nel 2009 ho venduto solo il 30% dell’uva e dal 2010 ho smesso del tutto: ero una delle pochissime mosche bianche in un panorama dominato dalle cooperative e dai loro conferitori. Le critiche e i “non funzionerà” sono serviti solo a darmi ancora più carica!”
“La concezione altoatesina” interviene Marion “è che siccome la terra è poca e cara bisogna sfruttarla al 100% per questo la chimica in questo territorio ha rappresentato per molti una sicurezza. Il problema è che se ne è fatto un uso esagerato per troppo tempo. I contadini nella storia hanno sempre trovato strategie per sopravvivere cominciando dall’osservazione della natura. L’avvento della chimica invece ha fatto perdere questa capacità”.
“Polso, osservazione e testa” le fa eco Martin “questi sono gli ingredienti che ci hanno permesso di capire che la chimica non faceva per noi. Penso a quando al posto dell’insetticida per la tignola ho cominciato a usare le trappole, a quando ho smesso di usare il botriticida, oppure ancora a quando ho definitivamente abbandonato i fitofarmaci. All’inizio la vigoria e la tonicità delle piante era scesa di parecchio, ma ho capito che era una fase. Ho letto molto e mi sono confrontati con diversi produttori che mi hanno spinto a sperimentare le pratiche biodinamiche. Dopo meno di un anno già si vedevano i risultati e ho capito che per noi era la strada giusta. Non è stato poi così difficile, è tutta questione di mettersi in gioco e confrontarsi continuamente con gli altri e con sé stessi”.
“Ogni situazione è diversa” prosegue Marion “ogni organismo agricolo ha una storia a sé stante. Crediamo che il percorso agricolo di un vignaiolo sia una cosa molto personale e di conseguenza non abbiamo mai voluto entrare a fare parte di nessuna associazione di categoria. Avevamo trovato la nostra libertà e non volevamo nuove regole ma semplicemente lavorare secondo i nostri principi. Del resto prima di essere biologici o biodinamici siamo Marion e Martin. Il prossimo passo è il reinserimento degli animali per un ritorno alla policoltura. Per ora abbiamo le api, alcune galline e vorremmo introdurre pecore nane, le uniche in grado di pascolare sotto le pergole e tenere a bada l’erba senza mangiare i germogli”.
Mentre fuori è diventato buio, recuperiamo i calici e finalmente scendiamo in cantina. Martin ci guida tra le botti mostrandoci centinaia di bottiglie scambiate con i produttori durante le fiere “del resto il confronto tra produttori non si fa mica solo a parole” ci confida ridendo mentre spilla dalla botte il primo calice di vino. Cominciamo dalla schiava di Signat che dimostra un bel frutto, sfumature terrose, grande acidità e un tannino vegetale appena accennato tipico della vinificazione con i raspi. Si prosegue con quella di Unterplatten, più carnosa e di trama, dall’ingresso goloso e dal finale lunghissimo. A chiudere quella la schiava di Campill, quella di casa, quella liberata: la più aerea, profonda ed elegante. Sono tutte e tre strepitose. Sorrido: la schiava liberata si è fatta regina.