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Pàcina: storia di un luogo e dei suoi custodi

Reportage //

Pàcina: storia di un luogo e dei suoi custodi

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Quanto influisce la storia e l’identità di un luogo sui vini che ne nascono? Per scoprirlo siamo andati a trovare Giovanna Tiezzi e Stefano Borsa, vignaioli e custodi di Pàcina.

Costeggiando il piccolo borgo di Castelnuovo Berardenga dei cartelli su fondo marrone indicano la direzione per raggiungere la località Pàcina. Quando il cemento cederà il posto allo sterrato, incontrerete un lungo viale di cipressi che conduce fino a un antico monastero del 900. Vi trovate davanti a Pàcina, casa e cantina di Giovanna, Stefano e dei loro figli Maria e Carlo.

Pacina
Pacina

DUE PASSI TRA I VIGNETI SUL FONDO DEL MARE

Mi capita di pensare alla vita come a un gomitolo che si srotola e crea dei nodi nei momenti che ci segnano nel profondo: gli amori, i successi, le delusioni, le amicizie. A volte capita che il filo si spezza, a volte continua ad attorcigliarsi attorno ai nodi formandone di sempre più grandi e difficili da sciogliere.

La prima volta che ho incontrato Maria risale a quattro anni fa e poco più, a una sera di fine estate appoggiati contro a un muro dei vicoli di Genova con in mano un calice. Ero arrivato da poco, lavoravo in Velier da meno di una settimana, e il mio ex collega Roberto mi aveva invitato a bere qualcosa. Non lo sapevo ancora, ma il filo stava formando un piccolo e fragile nodo di un’amicizia che nasceva.

Per questo quando lasciamo Genova in direzione Pàcina, non è come tutte le altre volte che partiamo per andare in visita da un vignaiolo Triple “A”. La maggior parte di loro li conosco già, li ho incontrati in Velier o in qualche fiera, magari sono anche già stato in cantina, ma è il viaggio per il reportage che di solito consacra la nostra conoscenza. Questa volta è tutto diverso: non sto andando in visita da un produttore, ma a trovare degli amici.

Arrivare a Pàcina è immergersi in un paesaggio toscano da cartolina: un viale di cipressi conduce fino a un antico monastero del X secolo circondato a trecentosessanta gradi da vigneti, uliveti, boschi e campi. Lo sguardo si fa largo per chilometri fino a un’indistinta linea dell’orizzonte. Maria, stretta in un cappottino verde, ci viene incontro con un guinzaglio in mano: Kartoffen, il loro cucciolo di spinone italiano, è appena scappato. “Tornerà… benvenuti a Pacina. Siete fortunati, siete capitati nel primo giorno di sole dopo una settimana di pioggia”. Maria ci apre le porte di casa, dove ci aspettano i suoi genitori Giovanna e Stefano accogliendoci di fronte al camino della cucina con una tazza di caffè bollente. Sin dalle prime parole di Giovanna e Stefano si capisce una cosa: Pacina per loro non è una semplice azienda agricola, ma un luogo di cui si fanno custodi, l’epicentro delle storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuto e amato e che con questa fattoria hanno intessuto un legame indissolubile. “Pacina è figlia di due storie” racconta Giovanna “La prima è una storia geologica biologica che risale al Pliocene, a cinque milioni di anni fa, quando si sono formate queste colline. La seconda è una storia di famiglia che affonda le sue radici nel 1933, quando il mio trisnonno ha finanziato il figlio Edoardo Pulselli per l’acquisto della fattoria dove poi Edoardo ha vissuto”. Non appena ci raggiunge anche Carlo, il fratello di Maria, vinciamo il freddo e ci dirigiamo verso i vigneti.

Pàcina è una fattoria di 65 ettari in un corpo unico, ci troviamo sulle prime colline in provincia di Siena, tra il confine meridionale del Chianti Classico e le crete senesi. “Qui non solo abbiamo un clima favorevole” racconta Stefano “ma anche dei terreni ricchi e relativamente facili da coltivare. Non si trova più la combinazione di alberese e galestro che caratterizza il Chianti Classico, le terre di Pacina si sono formate dall’accumulo di depositi alluvionali e marini. Stiamo camminando sul fondo del mare di cinque milioni di anni fa”. “Chiudete gli occhi e vedete il mare” continua Giovanna lo sentite il vento di Pàcina?”. Poi si china e si mette a scavare nella terra giallo ocra di Pacina finché non trova un fossile a forma di conchiglia. “Da piccola giocavo a cercare i fossili. Questa terra è così caratteristica che ha dato un nome a un colore, il Terra di Siena”.

PÀCINA: SEDE DI UNA RIVOLUZIONE ECOLOGICA

Sarà anche un luogo comune, ma per la mia esperienza i toscani hanno in comune tra loro la capacità di entrare sin da subito in sintonia con chi si trovano di fronte. Se dovessi spiegarvi questa cosa in un minuto vi farei passare un minuto con Giovanna. “Mamma è così” mi dice Maria sottovoce “potresti metterla sul palco davanti a un’intera platea. Nessuno si annoierebbe”.

Mentre Stefano ci mostra le piante più vecchie di sangiovese che rientrano nella terra per uscirne poco più in là dando vita a una nuova pianta, chiedo a Giovanna di raccontarmi la sua storia. “Io sono figlia di un fisico e di una biologa. Dopo essere stati negli Stati Uniti, sono tornati in Italia e son venuti a vivere a Pàcina per vivere e conservare questo luogo. Non c’era più la mezzadria e a Pàcina stava nascendo una nuova storia. La parte agricola era stata presa in carico da mio zio Fabio. I miei non erano agricoltori, ma avevano una visione del mondo rivoluzionaria per i tempi. Mio padre Enzo è stato tra i fondatori di Arancia Blu, una rivista di ecologia politica, e le prime riunioni di Legambiente si sono tenute proprio qui a Pàcina.”

Quando Pàcina, tra il crollo dei prezzi del vino sfuso dovuto allo scandalo del metanolo e la gelata dell’85 che fece morire la maggior parte degli ulivi, smise di essere sostenibile, fu la madre di Giovanna ad avere l’intuizione di concentrarsi su una nuova visione del vino. Così nell’87 dalle migliori uve di tutta la fattoria nasce la prima bottiglia di Pàcina, con la stessa etichetta di oggi su carta riciclata verde. Un vino che era la perfetta rappresentazione dell’anima del luogo. Giovanna da subito comincia ad affiancare la mamma nel futuro della bottiglia. “Amavo questo luogo, avevo passato la mia infanzia su questi alberi. Pàcina mi ha cresciuta e sentivo che le dovevo la mia vita, anche se mi mancava l’esperienza pratica”.

Il ’92 è l’anno dell’incontro con Stefano e dell’inizio della loro storia d’amore. “Stefano, un agronomo milanese, ai tempi lavorava ancora a San Felice e poi diventò direttore di Volpaia, aveva già una professionalità nel mondo del vino e non solo ha deciso di accompagnarmi nella crescita di Pàcina, ma ha avuto la capacità di comprendere la storia di questo luogo e di non modificarne l’anima.” Da lì in poi gli eventi corrono veloci. Giovanna e Stefano prendono in mano le redini di tutta Pàcina, ampliano la superficie vitata, estirpano i vigneti nelle posizioni più sfavorevoli, danno vita all’agriturismo Pacinina, prendono la certificazione biologica, incontrano Franco Bordoni del Podere Pereto, con cui nasce una collaborazione per la gestione dei campi a seminativo, e nel 2005 abbandonano definitivamente la produzione dello sfuso.

“Andiamo in cantina?” propone Stefano. Facciamo dietro front e ripercorriamo il sentiero tra i filari in senso opposto. In fondo, davanti alla casa, ci aspetta Roberto, il compagno di Maria, con un cane al suo fianco. Kartoffen è tornato.

IL TESORO NASCOSTO NELLE PROFONDITÀ DI PÀCINA

Conoscendo Stefano, in un primo momento, vi potrà apparire taciturno, introverso e riservato, quantomeno finché non mette piede in cantina. Sarà che si trova nel suo habitat naturale, sarà che si sente a suo agio quando si fa spazio tra botti e vasche di cemento, ma avviene una vera e propria trasformazione. Calici in mano, lo seguiamo mentre spilla dalle botti due o tre annate per ogni etichetta di Pàcina, raccontando con precisione vino dopo vino.

La cantina di Pàcina è un vero e proprio monumento storico, una cantina scavata nel tufo su tre livelli, fatta di cunicoli e muri che trasudano storia. Non c’è neanche uno spazio libero, le botti si succedono senza sosta. Una cosa mi stupisce, Stefano non parla mai di mesi di affinamento. Lui ragiona per stagioni, in relazione a come si comporterà il vino col cambiare delle temperature “Questo ha bisogno ancora di un’estate, quello va in acciaio che deve sentire il freddo dell’inverno”.

Il vino di Pàcina per eccellenza è il Pàcina, frutto del tipico assemblaggio della zona di sangiovese, canaiolo e ciliegiolo. “La ricchezza dei nostri suoli si riflette nel colore del vino” spiega Stefano “per questo nei nostri vigneti non c’è neanche una pianta di colorino che è storicamente usato per dare colore al sangiovese”. L’ultima annata di Pàcina in bottiglia è il 2015, è in questo momento che capisco che è il tempo ad essere l’ingrediente segreto dei vini di Pàcina. Non sono Giovanna e Stefano a decidere quando imbottigliare il vino, è il vino a comunicarglielo. Anche per questo tutti i vini di Pàcina escono come IGT. Che senso avrebbe uscire come Chianti Colli Senesi, quando l’annata attualmente in commercio della DOCG è la 2019? Che senso avrebbe mandare alla commissione dei vini che secondo Stefano hanno davanti a loro ancora almeno tre anni di affinamento?

Passiamo in rassegna tutte le botti, dalla Cerretina, un macerato di trebbiano e malvasia di cui sono profondamente innamorato, al Villa Pàcina un sangiovese in purezza che fa solo cemento. “Il Villa Pàcinami confida Maria è la scommessa dei miei genitori sul sangiovese. Di solito è il passaggio in botte a rendere stabili i vini, per questo qui finiscono solo delle uve scelte per le caratteristiche di questo vino. Il risultato è un vino che tira fuori più frutto ed è più vicino all’origine della materia prima”.

Quando siamo venti metri sotto terra, la voce di Giovanna in lontananza interrompe i nostri assaggi. È pronto da mangiare! Sono due ore che siete qua dentro”. “Ancora tre, anzi quattro vini e abbiamo fatto” risponde Stefano. Giovanna ci raggiunge, mentre Stefano spilla il Pachna dalle botti. Il vino riprende le origini del nome etrusco di Pàcina “Col cambiamento climatico stiamo migrando verso sud. I Pachna testimoniano quello che succede nelle annate più particolari, identificano la storia del luogo”. Nel bicchiere sono rossi che superano facilmente i diciassette gradi, pur mantenendo la beva e l’equilibrio di tutti i vini di Pàcina. L’esempio più lampante è il 2017, ottenuto da uve che arrivate al giusto punto di maturazione erano già appassite, una sorta di “Amarone fatto in vigna”.

LA NUOVA GENERAZIONE DI PÀCINA

Ci sediamo a tavola davanti a un piatto di zuppa di cavolo nero. Stefano ha tirato fuori dallo storico un Pàcina 1994, il mio anno di nascita, “annata non formidabile” mi fredda subito. Penso che sarebbe potuta andarmi peggio: sarei potuto nascere in una grande annata ed essere astemio.

Sul mobile in fondo alla sala, una grande di foto di Carlo da bambino coi capelli lisci e biondissimi. “Quella foto ha fatto il giro del mondo ed è stata scattata proprio qui a Pàcina. È stata utilizzata da pubblicità per la Fred Perry per un sacco di anni”.

Il tempo a Pàcina ci scappa dalle mani. Ci alziamo da tavola che sono già le quattro, il sole già va tramontando di fronte alla casa-monastero. Non potete andare via senza aver visto la vinsantaiaci raccomanda Giovanna. In un piccolo locale adiacente all’agriturismo una distesa di uve in appassimento trebbiano, malvasia e canaiolo. Carlo aveva voglia di sperimentare un passito rosso per la prima volta a Pàcina. “Il segreto de La Sorpresa di Pàcinaracconta Maria “è la madre del Vin Santo. Quando il trisnonno di Giovanna ha comprato la fattoria ha comprato anche la madre. Ha più di cento anni.”

Prima di salutarci Roberto ci riempie qualche scatola di cachi, nespole e conserve fatte in casa. Sono i frutti del nuovo orto di Pàcina. Maria e Roberto, prima di stabilirsi qui, hanno viaggiato per un anno in Australia per aziende agricole e non appena sono tornati hanno dato vita a un piccolo progetto di orticoltura. Roberto ci porta a vedere la sua ultima costruzione, un pollaio mobile per una concimazione in movimento, mentre fieramente ci mostra il regalo di compleanno che ha fatto a Maria: due anatre mandarine che convivono nello stagno con tre oche. “Il prossimo passo è l’asino” conclude Roberto mentre Maria lo fulmina “No Robi, pure l’asino no”. Ridiamo.

Lascio Pàcina con un unico pensiero. Che sia appoggiati a un muro dei vicoli di Genova con in mano un calice, in piedi davanti al camino della cucina di Pàcina stringendo una tazza di caffè bollente o seduti in qualunque altro luogo del mondo tenendo tra le mani una cosa qualsiasi o anche niente, finché ci sarà filo, questo continuerà ad attorcigliarsi intorno ai nodi ormai stretti e inscindibili di nome Maria e Roberto.

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