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Massimiliano Calabretta, il vignaiolo apocrifo

Reportage //

Massimiliano Calabretta, il vignaiolo apocrifo

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È possibile fare vino naturale adottando un metodo scientifico? Per scoprirlo abbiamo fatto quattro chiacchiere in compagnia di Massimiliano Calabretta e due passi tra i vigneti di Randazzo.

Dall’aeroporto di Catania, che scegliate di circumnavigare il vulcano, o la montagna come viene detta in Sicilia, da oriente o da occidente lo stesso tempo di percorrenza vi separerà da Randazzo, comune sul versante settentrionale che ospita la cantina della famiglia Calabretta.

ESSERE VITICOLTORE A DISTANZA 

L’ingegner Massimiliano Calabretta ha venduto i suoi vini in tutto il mondo, abitando a milleduecento chilometri di distanza dalle sue vigne e convincendo i propri clienti con una conoscenza profonda, galileiana, approfondita e tassonomica del territorio, della vinificazione e dei suoi vini. 

Insegnante di impianti elettrici in una scuola superiore ligure, ha fatto i conti con le regole della sua professione, che gli consente lunghi periodi di vacanza, ma che ne impone la presenza in aula ogni giorno dell’anno scolastico. Quindi, ereditati i vigneti dal nonno, alle pendici dell’Etna, ha dovuto riconoscere che l’unica soluzione per non abbandonare la terra, non poteva che essere quella di governare i vigneti a distanza, grazie a un intelligente dosaggio di modernità e tradizione, delega e controllo, sperimentazione e recupero di pratiche centenarie. 

Accanto alla manutenzione dei terreni di proprietà, ha iniziato quindi ad acquisire altri appezzamenti, nei quali mettere a dimora nuove barbatelle, come a ricercare parcelle in cui crescessero già viti vecchie, per mantenere in vita i due filoni principali della produzione che, come due binari, da sempre conducono la vinificazione ai piedi del vulcano: i vini giovani di pronta beva e quelli lasciati evolvere per lungo tempo in cantina. 

Questo vignaiolo atipico, o “apocrifo” come preferisce definirsi, ha presto riconosciuto il proprio privilegio di poter coltivare in un territorio climaticamente e geologicamente benedetto. Tra i 700 e i 900 metri d’altitudine, dove la natura è ancora incontaminata, sull’Etna, il clima soleggiato e ventilato consente un uso estremamente limitato di rame e zolfo e inoltre i due vitigni prevalenti dell’azienda, nerello mascalese e carricante, sono varietà poco suscettibili alla peronospora, le viti centenarie hanno resistito alla fillossera e possono quindi ancora essere riprodotte e piantate a piede franco.
Nel 1997 ha iniziato a studiare l’argomento, con l’approccio verticale che lo contraddistingue. Poi, nel 2004, ha frequentato campo e cantina per toccare con mano, osservare, capire più a fondo e percepire empiricamente ciò che poi avrebbe sperimentato con prove, osservazioni, analisi e assaggi.

Quelli di Massimiliano Calabretta sono vini che nascono innanzitutto nella mente, ma che arrivano alla pancia di chi li beve e lo spingono a rabboccare immediatamente il bicchiere dopo ogni sorso. Sono vini scientificamente naturali.

TRA STUDIO E CONOSCENZA: LA CURA DEL DETTAGLIO 

Questo scienziato della vinificazione ha scelto di non abbandonare la produzione dei vini tradizionali etnei: il rosso invecchiato e il rosato “pista e mutta; ha dato vita ad alcuni vini espressioni di piccole parcelle, i vini di contrada, per capire fino in fondo quali fossero i sapori di tipici di quei micro-territori; e, da vero amante del metodo sperimentale, ha scommesso sul bianco autoctono, il carricante, in tempi in cui era stato abbandonato dai più. L’innovazione si è spinta anche a reintrodurre il pinot noir, a 900 metri d’altitudine, dove era tipico duecento anni prima, e a vinificare in purezza il nerello cappuccio, la minnella bianca e il nerello mascalese a piede franco. Un produttore commentò la sua scelta: “perché vuoi vinificare la minnella da sola? Fa schifo”! “Voglio esattamente capire quanto fa schifo, rispose senza scomporsi l’ingegner Calabretta. 

Ma non si tratta solo di studio. Il vino è sempre stato nella storia della famiglia. E l’esperienza degli antenati non è stata dimenticata. Semplicemente le sono stati affiancati un approccio innovativo e un’incoercibile curiosità. La scelta dei giorni di macerazione, di contatto con le bucce, ad esempio, non viene improvvisata, o determinata semplicemente dall’assaggio, dalla pratica o dalla moda, come avviene per molti vignaioli. Con test successivi, è stata definita una funzione che correla la dimensione della botte, con la superficie di contatto tra bucce e liquido e la frequenza delle follature, cioè i rimescolamenti della parte corpuscolata all’interno del mosto in fermentazione. E questa intuizione è stata desunta dall’osservazione di chi già praticava questa tecnica in maniera efficace. Massimiliano studiò l’esperienza del Sassicaia. E iniziò a distinguere i risultati organolettici dell’estrazione dalle vinacce da quella, successiva, dai soli vinaccioli, che danno al vino una crudezza, che poi il riposo in botte deve mitigare. Definì così il numero di giorni esatti di macerazione con le bucce per ogni suo vino. 

Allo stesso modo ogni variabile è stata studiata in maniera tecnica, unendo il ragionamento teorico alla verifica sperimentale. Scelta o meno di piede franco, scelta della varietà del portainnesto, decisione sulla lavorazione del terreno atto ad accogliere i nuovi impianti, qualità di legno da utilizzare nelle botti, tipologia di test di laboratorio più idoneo a valutare l’avvenuto svolgimento della fermentazione malolattica in botte, prima di procedere all’imbottigliamento, e una quantità impressionante di altri minuscoli dettagli… ogni aspetto è stato studiato da Massimiliano senza faciloneria e senza sconti. Come ogni ingegnere ha cercato di capire non come la vigna vive e respira ma come “funziona”, per inserirsi in questo meccanismo naturale nella maniera meno invasiva possibile ma con tutta la sapienza e la conoscenza che permettano di ottenere vini con il minimo intervento ma privi di difetti organolettici e di conservazione.

Nei vini di Calabretta si percepisce il frutto della vite, la tecnica non prevale sul vitigno, ma i vini sono precisi pur conservando tutta l’emozione del territorio: la quadratura del cerchio. 

Fa parte dell’approccio enciclopedico di Massimiliano anche l’assaggio. Divenuto sommelier, continua a praticare l’ambiente delle degustazioni e spesso si procura una grande varietà di bottiglie di un territorio, di un vitigno o di una tecnica di vinificazione, per cimentarsi in sessioni di degustazioni private di decine di bottiglie, convenzionali e naturali, per riuscire a cogliere, in maniera classificatoria, per analogia e differenza, gli aspetti che possono essere distintivi e utili a migliorare il proprio lavoro di vignaiolo. La tensione al continuo miglioramento è proprio uno dei tratti distintivi della cantina. E la crescita costante si percepisce nei vini, anno dopo anno. 

Credo che molti agricoltori si gioverebbero delle conoscenze raccolte in venticinque anni da Massimiliano, perché il metodo scientifico, a differenza di quanto si propaganda oggi, è figlio del dubbio, e ha lo scopo di trovare una regola nella serie di eventi naturali che regolano l’ecosistema così come di ammettere una serie di deroghe ed eccezioni, allo scopo di favorire la previsione di eventi futuri e quindi di restringere il paniere delle prove necessarie ad ottenere un risultato desiderato. E in caso di vendemmie e vinificazioni, il cui esito spesso viene verificato dalla generazione successiva a quella che se ne è materialmente occupata, questo approccio si traduce in una riduzione di rischio e in un aumento di trasmissione della personalità del vignaiolo al vino, che manderà a riposare prima in botte e poi in bottiglia perché venga gustato dopo dieci, venti o quarant’anni. 

Ho assaggiato la bottiglia più rappresentativa dell’azienda. Il Vigne Vecchie, dell’annata 2010. In questa vigna è stata fatta l’operazione “fallanze zero”. In tutti i filari, le viti mancanti sono state rimpiazzate con nuove barbatelle. Ma vengono effettuate due vendemmie distinte, una delle viti storiche e una delle piante recentemente messe a dimora. E nel Vigne Vecchie finiscono solo le uve delle piante più antiche. All’olfatto è elegante, con profumi di erbe, fiori, bacche e spezie. Il vino e maturo e il palato persistente. A dispetto del grado alcolico elevato, mi ha immediatamente colpito il bilanciamento tra struttura e aromaticità, un equilibrio capace di conferire al sorso la piacevolezza caratteristica dei vini provenienti da piante che sono state a dimora per decenni e hanno spinto le proprie radici in profondità, perfezionando l’adattamento al terreno e al territorio su cui insistono. 

IL MAGMA NELL’ANIMA 

Sono volato a Catania e da lì a Randazzo, per andare a vedere di persona la cantina dell’ingegnere e toccare con mano la terra di quelle vigne attorno al cratere. Mi ha accolto Salvatore Alfonso, appassionato collaboratore, muratore, agricoltore, fotografo e uomo di cuore appassionato della sua terra. 

Abbiamo assaggiato i vini delle botti e poi attraversato insieme a piedi le contrade in cui sono prodotti, sporcandoci le scarpe con quella sabbia nera di lava che mantiene il suolo morbido e fertile. Ho visto il lavoro manuale di scalzo delle viti, praticato con zappe modificate e dotate di due rebbi che permettono di dissodare il terreno lasciando a dimora le pietre vulcaniche, che agevolano il drenaggio. Ho osservato i muretti a secco e le viti, entrambi centenarie, degli appezzamenti più vecchi, che circondano le costruzioni che ospitano i palmenti, vasche per la vinificazione, e gli enormi torchi con la vite senza fine che ne permetteva la regolazione. Ho osservato la neve sulla “montagna” viva dell’Etna e percepito il vento ghiacciato che dai tremila metri scende fino alle terrazze attorno Randazzo, dove sono piantati i vigneti.

E, soprattutto, ho respirato la fatica e la passione che animano questa viticoltura sostenibile, ancestrale e moderna allo stesso tempo, e permettono la produzione di vini molto attuali che ancora parlano il dialetto dell’isola. 

Qualcuno potrebbe trovare Massimiliano Calabretta poco funky e i suoi vini poco punk. Ma personalmente credo che, in un mondo in cui la conoscenza è stata barattata con la simpatia e l’immagine con la sostanza, vi sia un valore inestimabile e molto moderno in chi ha saputo cogliere dalla tradizione le trovate più interessanti, trasformandole in un metodo trasmissibile alle generazioni future e non appiattito sulla sensibilità individuale. Un vino, allo stesso modo, non mi entusiasma mai per la presenza di impuntature che, secondo alcuni, ne certificherebbero la naturalità, ma mi emoziona se è immediatamente godibile, se richiede un altro sorso, se sa tramettere la profondità intellettuale di chi l’ha immaginato, se sa esprimere un territorio nella maniera più autentica ed eccellente, unite a una facilità e piacevolezza di beva, che riescono a ridefinire col parametro di “bevanda” uno dei più nobili tra gli “alimenti”. Il vino, nella definizione biblica ripetuta nel rituale della Messa cattolica, è il “frutto della vite e del lavoro dell’uomo”, il prodotto naturale della terra, che la sapienza umana accompagna a divenire nutrimento e divertimento. E Massimiliano Calabretta è uno dei sacerdoti di questa trasformazione, che ha come religione la scienza galileiana e come discepoli gli entusiasti estimatori dei suoi vini, diffusi in ogni continente

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