Fino a dove può spingersi la volontà di un vignaiolo di affermare l’unicità dell’espressione di un terroir? Per scoprirlo siamo andati a trovare Lino e Giuseppe Maga, i mitici produttori del Barbacarlo.
Camminando lungo una delle strade principali del centro di Broni vi potrebbe capitare di intravedere, alla porta di una piccola corte, una vecchia insegna bianca che porta il nome dell’Azienda Agricola Barbacarlo: tre vetrine che da fuori ricordano quelle di un’osteria tradizionale celano l’archivio storico, liquido e umano del vino che ha scritto la storia dell’Oltrepò Pavese.


CASA MAGA: L’ARCHIVIO STORICO DEL VINO SIMBOLO DELL’OLTREPÒ
C’è una cosa che ho sempre invidiato a mio nonno: la memoria. Nonostante i suoi novantaquattro anni ha la capacità di ricordare con dovizia di particolari versi, luoghi, nomi e date legati alla sua gioventù e ai suoi studi. Son sufficienti due bicchieri di vino per fargli cominciare a parlare perfino il latino. Ho sempre pensato che fosse una dote specifica di mio nonno, ma dopo aver incontrato per la prima volta Lino Maga comincio a pensare che sia un fatto generazionale.
Quello di Lino Maga è uno dei grandi nomi del vino italiano, uno di quelli che se si beve per passione prima e poi si incontrano e da cui il passaggio è obbligato. E così dal suo Barbacarlo, il vino più celebre dell’Oltrepò Pavese, capace di sfidare il tempo come pochi altri, nominato per la sua incredibile qualità da Mario Soldati e tanto amato da due storici amici di Lino, prima ancora che grandi personalità e penne del vino italiano: Gino Veronelli e Gianni Brera.
Per questo varchiamo quasi con riverenza il portone del caseggiato nel centro di Broni. Quando bussiamo alla porta, l’ombra che si avvicina da dietro la tenda e che lascia intravedere la coppola in testa e la sigaretta in bocca non lascia spazio a dubbi: è Lino. Ci guarda senza proferire parola, è la voce in lontananza del figlio Giuseppe ad invitarci a entrare. Bastano pochi passi per ritrovarsi catapultati in una grande sala dominata da un tavolo di legno centrale che pare un vero e proprio archivio storico. Vecchie fotografie e ritratti appesi ai muri, un intero scaffale alla parete dove prendono posto tutte le annate di Montebuono e Barbacarlo, poi libri, volumi, quotidiani, pubblicazioni in ogni dove senza un apparente ordine, e ancora cartoncini bianchi su cui scritte a pennarello risuonano come perle di saggezza, e talvolta ammonimenti, che lasciano intuire di trovarsi in uno dei luoghi di culto del vino italiano.


Giuseppe ci invita a sederci, pragmatico e diretto rompe il ghiaccio versandoci nei calici un bicchiere di Barbacarlo 2018 e cominciando ad affettare pane e salame. A casa Maga il tempo si ferma, anzi perde ogni logica, i muri già trasudano storia e racconti: non c’è bisogno di domande, tantomeno di cronologie, è sufficiente lasciarsi guidare dal fluire delle parole per immergersi nella storia dell’azienda, dei Maga, del Barbacarlo.
Mentre mi perdo ad osservare l’immensa verticale di Barbacarlo alle mie spalle, lo sguardo si sofferma sul 2003. “È stato l’anno in cui abbiamo cambiato bottiglia e tappi perché avevo paura per la tenuta” interviene Giuseppe “Un’annata tanto siccitosa quanto eccezionale. Un vino da sedici gradi e passa e con ancora residuo zuccherino. Non a caso è stato l’anno in cui ci han bocciato all’esame della DOC Oltrepò Pavese. Da lì in poi abbiamo smesso di usarla. Mio padre chiamò subito Gino Veronelli e gli mandò due campioni. Dopo averli assaggiati ricevemmo la sua telefonata, era fuori di sé: per lui era una delle più grandi annate di Barbacarlo di sempre. Fregatevene della DOC, ci disse, fatelo andare per la sua strada. Da lì in poi sul Barbacarlo troverete l’IGT Rosso Provincia di Pavia. Gino per questa storia finì per litigare con metà dei suoi collaboratori. Quando uscì la sua Guida Oro dei Vini il Barbacarlo 2003 era stato premiato con il Sole, il più alto riconoscimento della guida”.
Mentre Giuseppe ci parla, dall’altra stanza ci raggiunge con passo lento Lino. Si siede, si accende una sigaretta e chiude il racconto: “Oggi si beve vino in tutto il mondo. In Giappone se c’è scritto DOC o meno non gliene importa niente. Io raccolgo trenta quintali all’ettaro dove il disciplinare ne permette duecento. Ditemi voi se non è una mortificazione per la genuinità e per il vino. Il vino è una cosa seria!”




I MAGA: VIGNAIOLI IN FASCE
Anche se fu Lino il primo a imbottigliare il vino nel 1958, i Maga sono vignaioli da sempre, tanto che l’attuale Valle Recoaro era conosciuta come Valle Maga. “Siamo in Oltrepò dal 1500 e la famiglia era divisa in più categorie con nomi dialettali” ricorda Lino “i bufèt, i terìterì… noi eravamo i ràt, i topi, perché facevamo rumore di notte, ci alzavamo alle quattro e mezzo del mattino per andare a lavorare”.
Lino, nato nel 1931, ha partecipato alla sua prima vendemmia quando ne aveva sei. Oggi è alla sua ottantatreesima. Giuseppe non è da meno “la mia prima è stata a tre anni, son finito pure sul giornale”. Lino si alza, fruga tra una pila di fogli, fino a che trova una cartelletta da cui tira fuori una copia intonsa del Giornale di Pavia del 1969, dove un articolo riporta la fotografia di un irriconoscibile Giuseppe da bambino in mezzo ai grappoli. “A sei” continua Giuseppe “guidavo il motocoltivatore. Mio nonno non voleva guidarlo perché non aveva la patente. Andava avanti lui sul suo motorino della Legnano per vedere se c’era la polizia e io gli venivo dietro. Alla fine la patente non l’avrebbero potuta ritirare a nessuno dei due”. Lino se la ride sotto i baffi “ah, le civiltà contadine… speriamo che ritornino” chiude nostalgico.
Mentre Giuseppe ci serve lo spumeggiante 2017 comincia con il racconto della storia del Barbacarlo. “Era la collina di famiglia, ognuno aveva il suo pezzettino di terra, si chiamava Porrei, luogo di casa. Un terreno tufaceo estremamente difficile da lavorare perché ripidissimo e impervio. Nel 1886, quando morì lo zio Carlo lo lasciò in eredità ai nipoti che andarono al catasto a cambiargli il nome in suo onore, così la collina diventò Barba Carlo. Lì si è sempre fatto un vino di qualità tanto che se un vino dell’Oltrepò era buono si diceva che assomigliava al Barbacarlo”. È qui che interviene Lino con la memoria dettagliata che mi ha fatto ripensare a mio nonno “Nel 1961 fondammo il Consorzio dei Vini Pregiati e Tipici dell’Oltrepò Pavese e il 12 luglio del 1963, il Ministero agricolo emanò la legge Paolo Desani che istituiva le Denominazioni di Origine. Il nome Barbacarlo non era tutelato come nome di luogo così in poco tempo nacquero altri Barbacarlo, ma non solo… la legge prevedeva che potesse essere prodotto in più di quaranta comuni diversi”. Così comincia la storia di Lino Maga in tribunale, una battaglia legale destinata a durare ventidue anni.

DA SOLO CONTRO TUTTI: DI BARBACARLO CE N’È UNO SOLO
Il racconto di Lino, anche per chi come noi mastica ben poco del linguaggio, delle forme e del funzionamento della giurisprudenza, si fa appassionante, almeno quanto il Barbacarlo 2019 che Giuseppe ci versa nei bicchieri, una versione ferma dall’importante residuo zuccherino. Le vicissitudini in tribunale di Lino lo vedono sfidare da solo, aiutato solo dal punto di vista giornalistico dagli inseparabili amici Gino Veronelli e Gianni Brera, associazioni sindacali, il Ministero dell’Agricoltura, la Camera di Commercio di Pavia e il Comitato Nazionali di Tutela dei Vini. “Dovetti licenziare due avvocati con parcelle lunghe un metro e mezzo” ricorda Lino “poi finalmente ho incontrato un avvocato che ha sposato la causa… amava il vino. Del resto nella mia vita mi sono sempre salvato sturando bottiglie”. Per la prima sentenza che diede ragione a Maga, mentre altri vini mettevano in bella mostra il nome “Barbacarlo”, bisogna aspettare quella del 1983 del Tar del Lazio, che fu subito impugnata in Consiglio di Stato. Ci vollero altri tre anni affinché anche il Consiglio di Stato si espresse in favore di Lino condannandoo le controparti a pagare la parcella del suo nuovo avvocato e garantendo ai Maga l’esclusività del nome. “Eravamo a una fiera a Casteggio quando fu emessa la sentenza” racconta Giuseppe “arrivarono i Nas che sequestrarono tutti i Barbacarlo presenti, fatta eccezione per il nostro”. “A fare le cause ci si fa il sangue marcio” confessa Lino “ma la mia coscienza mi diceva che avevo ragione. Avevo tutto contro e io chi ero? Nient’altro che un contadinaccio che si divertiva anziché disperarsi”.




Mentre il sole va tramontando, usciamo nella corte dell’ex cantina, Lino mi mostra i resti di una vite di centovent’anni appesa al muro “una volta le piante duravano cent’anni, ora venti. Con la meccanizzazione si è finiti per trascurare la vite che invece vanno servite. Oggi manca la manodopera e la burocrazia impedisce di intervenire”. Salutiamo Lino, mentre si accende l’ennesima sigaretta e Giuseppe ci propone di accompagnarci sul Montebuono, l’altro cru aziendale. Lo seguiamo in macchina fino alle pendici del vigneto arroccato sul cucuzzolo dell’omonima collina, anche qui le pendenze sono vertiginose. Solo salire in cima è una scarpinata non da poco, fatichiamo ad immaginare cosa significhi lavorarci. Dall’alto la vista è tanto spettacolare quanto spettrale: da un lato la collina del Barbacarlo, dall’altra l’industria e la foschia ad annebbiare la vista. Tra i vigneti diventa più chiaro quale sia il tratto comune dei tre vini così diversi che abbiamo assaggiato nella giornata: è la terra a fare da matrice, il fil rouge di espressioni uniche e irripetibili di un vino ogni anno differente ed uguale a sé stesso allo stesso tempo. “Noi facciamo il vino sempre allo stesso modo” racconta Giuseppe “si imbottiglia a primavera, esistono Barbacarlo più asciutti, più fermi, più spumeggianti, è l’equilibrio ad essere sempre lo stesso. Una cosa è certa, se hai vissuto l’annata, la ritrovi nel bicchiere”.
Mentre ripartiamo verso Genova, mi chiedo se mai avrò la memoria di mio nonno. Sono sicuro che se mai dovessi arrivare ai novant’anni vorrei raccontare ai miei nipoti con la stessa dovizia di particolari il giorno in cui ho incontrato Lino Maga, il guru dell’Oltrepò Pavese. Se la memoria dovesse essere un fatto generazionale e non fossi in grado di ricordare, allora potranno stare certi che nella mia cantina troveranno una bottiglia di Barbacarlo per loro e sarà lei a parlare al posto mio.