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La Maison Overnoy-Houillon tra mito e leggenda

Reportage //

La Maison Overnoy-Houillon tra mito e leggenda

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In che modo un vignaiolo e i suoi vini entrano a far parte della leggenda? Abbiamo passato una mattina in compagnia di Pierre Overnoy ed Emmanuel Houillon per ripercorrere la loro storia.

Imboccando la strada che corre verso sud dal centro di Arbois, vi troverete ad attraversare un bosco fino alle porte del piccolo borgo di Pupillin che si sviluppa lungo Rue de Ploussard. Un centinaio di metri più avanti, sopra un grande portone in legno, un’insegna sulla destra recita “Pierre Overnoy”: vi trovate di fronte alla Maison più illustre e discussa dell’intero panorama dello Jura e del vino naturale.

IL VOLTO UMANO DELLA LEGGENDA

La nascita delle Triple “A” non è un evento, ma un processo e proprio per questo individuare un momento preciso non è così semplice. Una cosa però è certa: furono le prime esplorazioni francesi a trasformare l’idea in realtà. Luca scelse la Loira, terra del suo amico Nicolas Joly, che si narra scrisse la charte della Renaissance des Appellations la stessa notte che Luca stese il decalogo delle Triple “A”. Fabio Luglio si occupò del sud della Francia, dalla Provenza alla Linguadoca, accompagnato da Alberto Belluomini, storico agente lucchese della Velier. A Paolo, il fratello di Luca, toccarono Borgogna e Jura, e proprio dal nord dello Jura comincia il suo e il nostro racconto.

Sono le tre del pomeriggio di un giorno d’inverno di vent’anni fa. La porta di legno cigolante di una piccola casa al centro di Pupillin si apre e compare un uomo quasi sulla settantina calvo, di bassa statura e leggermente ricurvo su sé stesso. Quell’uomo è Pierre Overnoy, fuori dallo Jura il suo nome dice ancora poco o nulla, e i suoi vini ancora si faticano a vendere. Per incontrarlo Paolo è partito la mattina stessa da Genova, non si è neanche premurato di chiedere l’indirizzo preciso, del resto avrà pensato -quanti Overnoy che fanno vino vuoi che ci siano in Jura?- Ecco, quando bussa a quella porta è già al terzo tentativo.

I ricordi a questo punto si sommano, si mischiano e si confondono, perché -questo lo capirò solo dopo- dentro quella casa di Pupillin l’ordine cronologico del tempo perde ogni sua importanza. Così la cucina economica a legna e la cena spartana, che Pierre gli offrirà solo quando fuori è già notte, servono a Paolo per spiegarmi quanto quel contesto fosse lontano dalla realtà degli Chateau e dei Domaine che aveva frequentato sino ad allora. I grappoli raccolti lo stesso giorno di venti diverse annate e conservati sotto formalina gli restituiscono la sua prima spaventosa e impressionante testimonianza degli effetti del cambiamento climatico in atto. I calici condivisi con Pierre diventano il ricordo del suo primo passo in un mondo del vino diverso, dove uomo e natura lavorano in sinergia per racchiudere in bottiglia la massima espressione di un territorio.

Un incontro di lavoro che si trasforma in un momento conviviale, di condivisione di ideali e di scambio reciproco, lo convince che l’idea visionaria di suo fratello Luca non è una follia, ma una strada che punta dritto al futuro. È l’alba delle Triple “A”.

Vent’anni dopo, quando arriviamo di fronte alla casa di Pupillin di cose ne sono cambiate parecchie, a partire dal fatto che sappiamo esattamente quale sia l’Overnoy che stiamo cercando. La figura di Pierre, pur nella sua discrezione e umiltà, nel tempo ha assunto caratteri quasi mitologici: il suo lavoro l’ha consacrato come uno dei produttori più emblematici nel panorama del naturale e non solo e i suoi vini sono tra i più ricercati e introvabili al mondo. Oggi come allora invece al suo fianco, e Pierre ci tiene a sottolinearlo, c’è Emmanuel Houillon, per tutti Manu.

È lui per primo ad affacciarsi dalla porta, indossa dei pantaloncini corti e una felpa strappatai in cui si stringe per il freddo mattutino, poi riconosce Fabio e lo abbraccia. Poco dopo lo segue Pierre, che ormai di anni ne ha ottantacinque, in tuta e maglietta e ci saluta sostenendosi con una racchetta da sci. A vederli da fuori non diresti di trovarti di fronte a due vignaioli che hanno scritto alcune delle pagine più importanti della storia del vino. Ma questa è la cosa più bella: incontrare da vicino i protagonisti della Maison Overnoy-Houillon può restituire un ritratto sincero e originale e un volto più umano a ciò che di fatto ormai appartiene alla leggenda.

PIERRE E MANU: UN’AMICIZIA NATA DANS LES VIGNES

Manu e Pierre montano su un vecchio furgone giallo della Renault facendo cenno di stargli dietro e tempo cinque minuti ci ritroviamo immersi in una vallata dove si alternano boschi, prati incolti e vigneti dipinti dai primi colori dell’autunno.

Al fianco di un capanno che ospita un vecchio forno, si spiegano i vigneti di ploussard e savagnin, dove alcune viti risalgono addirittura al 1939. “In totale coltiviamo sei ettari e mezzo e l’età media delle piante è molto variabile” comincia Manu “I primi impianti di Pierre risalgono a fine anni ‘60, i più recenti al ‘93 e poi nel 2018 abbiamo piantato gli ultimi tremila metri. Qui nonostante l’esposizione a nord riusciamo a raggiungere maturità ottimali e negli anni si sta rivelando una condizione sempre più favorevole. Savagnin e ploussard prediligono le marne rosse del Trias, che devono il colore alla presenza di ferro ossidato. Più in là, le marne appartengono all’epoca più recente del Lias, diventano grigie e si mescolano al calcare: con lo chardonnay fanno un’accoppiata fantastica”.

Manu stacca una foglia di ploussard,  attraversa la strada e fa lo stesso da una pianta di savagnin, poi ci si avvicina per mostrarci le differenze “il ploussard si riconosce facilmente per i lobi incavati, al contrario del savagnin che è senza lobi e presenta una peluria sotto la foglia”. Nel 2013, sotto l’impulso di Pierre, Manu ha messo a terra anche una piccola parcella di trousseau. Se il primo raccolto è stato vittima della terribile gelata che ha segnato lo Jura nel 2017, la 2018 ha restituito i primi frutti con i quali Pierre ha voluto provare a ricreare un assemblaggio che appartiene ai suoi ricordi da bambino, quando il nonno usava fare un vino melangé di ploussard e trousseau. “L’unico problema” se la ride Pierre “è che non so le proporzioni!”, chissà se gli assaggi gli faranno tornare la memoria.

Ne approfittiamo per chiedere delucidazioni a Pierre sul corretto nome del vitigno a bacca rossa più identificativo dello Jura. “Il nome originale è ploussard” ci risponde deciso “prende origine da plous, per la somiglianza degli acini ai frutti del prugnolo selvatico. Il nome poulsard nasce da un errore di trascrizione di un bretone in un documento sui vini dello Jura e fu poi adottato dalle grandi maison perché suonava più elegante”.

Poi Manu si guarda complice con Fabio “On y va à deguster les vins?” Gli occhi ci si illuminano e facciamo dietrofront. Manu prende sottobraccio Pierre e li guardiamo risalire insieme sul furgone.

Proprio nella relazione tra Pierre e Manu si trova una delle prime chiavi di accesso per comprendere a fondo alla storia della Maison. Ritornati a casa Overnoy, dove l’antica cucina economica dei racconti di Paolo è ancora in funzione, Manu ci racconta con fare sbrigativo la storia di quel fortuito incontro che in realtà ha cambiato il destino di entrambi. “Io sono originario di Besançon che dista sessanta chilometri da qui, dove la fillossera aveva fatto scomparire i vigneti. Quando ho bussato alla porta di Pierre era il 1989, avevo quattordici anni e nessuna esperienza alle spalle. Ho fatto la mia prima vendemmia, mi è piaciuto e non me ne sono più andato”.

Manu infatti frequenta il Lycée Viticole di Beaune alternando due settimane sui banchi di scuola a due settimane tra i filari di Pierre. È in quegli anni che nasce tra i due una relazione di reciproca accoglienza: Pierre accoglie Manu come apprendista e Manu accoglie Pierre come maestro di vino e di vita. Ma il loro rapporto, più che a quello tra maestro e allievo, assomiglia a quello tra un padre e un figlio. Manu osserva, conosce e si costruisce un’esperienza e Pierre riconosce in lui la persona giusta per dare continuità e nuova linfa vitale al suo lavoro.

“-Tutti parlano tanto di me, ma è Manu ad aver fatto il grande salto di qualità unendo la precisione del gesto alla sensibilità del pensiero- mi confidò Pierre bevendo Vin Jaune in una tenda in mezzo al bosco durante la festa di Marcel Lapierre” mi racconterà Fabio qualche ora dopo. Già dal 2001 infatti Pierre ha fatto un passo indietro lasciando le redini della Maison a Manu, ma sempre restando al suo fianco. Così i vini della Maison Overnoy-Houillon sono figli della continuità, del confronto e della complicità tra i due.

A TAVOLA DI CASA OVERNOY

Nel frattempo Manu ci ha fatto sedere davanti a un calice portando con sé sei bottiglie senza etichetta. Cominciamo dallo Chardonnay del 2017, anno della gelata in cui i pochi grappoli in cantina hanno concentrato il calore estivo integrandolo alla tipica freschezza citronné che lo chardonnay restituisce sui terreni più calcarei dello Jura.

Seguono due annate dell’iconico Savagnin Ouillé: un 2020 che riposa in botte dal momento che conserva ancora un grammo di zucchero e un 1999 in cui ritroviamo la mourille, il fungo secco tipico della francese, le noci tostate, il tartufo, pur mantenendo quelle leggerissime sfumature ossidative di mela verde che diventano invece preponderanti quando il savagnin viene lavorato sous-voile. Mentre parla dei vini, Manu mette in mostra la sua vena più analitica “io vado in bottiglia, solo a zero zuccheri. Il vino ha bisogno dei suoi tempi e a volte le fermentazioni durano anche quattro o cinque anni, ma non abbiamo paura di aspettare. La botte del 2020 è ottenuta delle piante di savagnin più vecchie che in vigna reagiscono meglio agli eventi naturali e danno uve che conferiscono più profondità e concentrazione al vino”.

L’arrivo di Pierre, che è stato il primo produttore dello Jura a lavorare il savagnin ricolmando nel tempo la botte, è provvidenziale per farci raccontare la genesi di questa lavorazione, che oggi va per la maggiore “La prima annata è nata nel 1985, un po’ dettata dal caso. Un sommelier mi ha chiesto se avessi mai provato e mi ha fatto venire la curiosità. Ci sono voluti dieci anni di colmatura di botte prima di andare in bottiglia. Il vino con la vela perde inevitabilmente alcune sue complessità, la lavorazione ouillé invece permette di cogliere le sottigliezze del savagnin in tutte le sue sfumature”.

Manu ci fa procedere a ritmi serrati e ci passano nel bicchiere prima due sperimentazioni di macerazione sullo chardonnay, una 2022 ancora in fermentazione e una 2011 dove “il lungo affinamento ha spogliato il vino dell'esuberanza giovanile delle bucce facendolo tornare al minerale della terra”, poi la 2018 e la 2020 dell’uvaggio tra ploussard e trousseau, rispettivamente in proporzioni 80/20 e 70/30, e infine un Poulsard del 2002, sul quale Manu comincia ad affettare il pane fatto in casa da Pierre e la bresaola di un ristoratore francese che ci ha raggiunto nel frattempo.

Tutto lo spazio però se lo riprende subito il vino quando compare sulla tavola un Vin Jaune del 2012. “Ricchezza e complessità” spiega Manu “sono l’indice di qualità dei Vin Jaune. Noi ricerchiamo una certa costanza, sono le caratteristiche del vino a determinare la permanenza sous voile. Per esempio la 2008 è ancora sotto vela e a dicembre andremo in bottiglia con la 2005. Imbottigliando direttamente dalla botte, la vela si deposita momentaneamente sul fondo e viene subito messo dentro un savagnin giovane che diventerà a sua volta Vin Jaune”. Ricchezza e complessità sono solo l’anticipazione di una longeur de bouche che ha dello straordinario, ancora una volta rinfrescata dall’acidità ferrosa delle terre rosse su cui cresce il savagnin. 

Puissance et fraicheuresentenzia Pierre con gli occhi vigili, racchiudendo in due parole i tratti distintivi di tutti i vini che ci sono passati nel calice. Poi, complice un bicchiere del rosso dei suoi ricordi, si sbottona e comincia a raccontarsi “Io sono nato nel ‘37 e sono figlio di contadini, allora non si era vignaioli, allevatori o orticoltori: si viveva di policoltura. Poi negli anni ‘60 i miei mi hanno lasciato due ettari di vigna che ho portato avanti finché è arrivato Manu, con cui abbiamo recuperato altri vigneti”.

Pierre infatti diventa vignaiolo proprio negli anni dell’avvento dei diserbanti chimici, ma sin dal principio dubita delle illusioni vendute a buon prezzo e sceglie la strada di un’agricoltura naturale in vigna. Allo stesso modo in cantina, abbandona quanto appreso durante i suoi studi, prediligendo fermentazione in spontanee, fino ad abbandonare definitivamente l’uso dell’anidride solforosa nel 1984.

Come vent’anni prima, quando arrivano in tavola il risotto allo zafferano e lo spezzatino, la degustazione diventa convivio, le spiegazioni e i racconti si trasformano in chiacchiere e Pierre racconta anche una barzelletta. Ma mi perdo con il francese e non la capisco.

Quando gli chiedo delle Triple “A”, Pierre ricorda la conferenza tenuta all’ultimo Vinitaly del 2003 sui Vin Jaune e sulla trasformazione dell’etanolo in etanale, la partecipazione a Terra Madre a Torino e poi anche la prima visita di Paolo “quando è venuto e mi ha letto il decalogo, ho pensato -questi hanno messo l’asticella bella alta- In quegli anni, a parte noi vignaioli, non ci credeva nessuno”.

Una settimana prima che partissi per lo Jura, la sera stessa del giorno in cui mi aveva raccontato del suo viaggio, Paolo Gargano mi ferma per le scale della Velier “Mi sono dimenticato di una cosa prima” mi dice “le Triple “A” sono una delle cose più belle e rivoluzionarie che ha fatto mio fratello”. Una settimana dopo, prima di salutarmi e a modo suo me, lo ripete anche Pierre Overnoy.

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