Cosa significano e quali sono i ricordi di vent’anni di lavoro insieme? Abbiamo voluto integrare i nostri con quelli di Mark Angeli e Stéphane Bernaudeau, tripleAisti della prima ora e mostri sacri di Anjou.
STORIA DI UN SEME PIANTATO VENT’ANNI FA
Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. E quella del vino naturale, come tutte le rivoluzioni silenziose che cominciano dal basso, assomiglia più a una foresta. Allora alla sua origine non può che esserci un seme.
È gennaio e il freddo e il buio avvolgono la vecchia casa con la porta e le finestre viola di Thouarcé. Poco più in là, sulla ghiaia, c’è un drappello di uomini stretti nei loro cappotti e riuniti attorno a un’auto con il bagagliaio aperto. Sembrano non curarsi del gelo mentre si scambiano calici e bottiglie, abbracci e risate. A tenere banco è un uomo italiano coi capelli lunghi: fuma in continuazione e parla un francese dal vago accento caraibico. Attorno a lui una mezza dozzina abbondante di uomini: tutti francesi, tutti vigneron e quella “avec Lucà” se la ricorderanno come la degustazione più inusuale a cui abbiano mai partecipato. I loro nomi sono Mark Angeli, Stéphane Bernaudeau, Richard Leroy, Thierry Puzelat, René Mosse e altri ancora. Ma è il 2003 e a quel tempo ancora non dicono niente a nessuno. È difficile dire se e quanto ne siano consapevoli, ma insieme stanno piantando un piccolo seme che sarà fondamentale per il movimento del vino naturale in Italia.
Salto temporale di pochi mesi. Verona, ultimo giorno di Vinitaly. Una struttura bianca con le pareti a vetri ospita la Degustarena di Velier. Di quelli che erano a Thouarcé quella notte ci sono tutti, poi altri colleghi dalla Borgogna, dalla Jura, dalla Provenza, dalla Slovenia. Per la prima volta compaiono sui muri le tre “A” di Agricoltori, Artigiani e Artisti, per l’ultima volta la Velier si riunirà dentro il Vinitaly. Luca, con Paolo e Fabio al suo fianco, ha appena decretato insieme ai produttori italiani più illuminati, tra cui Stanko Radikon, Nicolò Bensa, Paolo Bea e Angiolino Maule, che la fase di rottura è ufficialmente cominciata. Il Vinitaly è la sede simbolica di un mondo del vino che non li rappresenta più, l’anno successivo nascerà il primo ControVinitaly a Villa Favorita. Quella notte non ci sarà bisogno di disallestire la Degustarena: a tirar giù la struttura ci hanno pensato Luca e i produttori. Il seme è germogliato, non ha ancora una forma precisa, ma sa di dover crescere veloce perché ha già tutti contro.


Altro salto temporale. Questa volta di quasi vent’anni. A poche manciate di metri dall’albergo nel centro di Thouarcé la macchina si ferma e il cofano comincia a fumare. Fabio esce dalla macchina cercando di capire cosa non va, poi prende il telefono “Mark, ciao, senti ci si è rotta la macchina. Mi dai il numero di un meccanico? Bene, e ci vieni a prendere tu?” Comincio a pensare che il fatto che l’auto si sia rotta proprio a Thouarcé non sia un caso. “Sono vent’anni che non vengo qui” mi dice Fabio “Mark e gli altri li ho incontrati più volte, ma sempre in giro per fiere”. Venti minuti dopo una Volkswagen grigia si ferma davanti a noi con a bordo una ragazza giovane e un uomo con il capello in testa, la camicia a quadri da cui spunta un batuffolo di pelo bianco e gli occhi verdi e gentili, i più sorridenti che abbia mai visto. Ho visto solo le sue foto di vent’anni prima, ma lo riconoscerei comunque: Mark scende dalla macchina e non appena incrocia lo sguardo con Fabio comincia a cantare “It's good to feel you again. It's been a long gain time”. “Hasnt’it? I know a farmer who looks after the farm” gli va dietro Fabio, poi si abbracciano. Mi era già chiaro che in Triple “A” i rapporti umani vengono ben prima di quelli commerciali, ma forse non fino a questo punto. Mark e Fabio non sono produttore e distributore che si incontrano, ma due grandi amici (con una passione comune per i Genesis) che non si vedono da una vita e che insieme Luca e a tutti i produttori della prima ora hanno fatto la rivoluzione. Il germoglio si è fatto albero, ha dato i suoi frutti e lasciato andare nuovi semi. Insomma non solo hanno fatto la rivoluzione, l’hanno pure vinta. Ora tocca alla seconda generazione.
Montiamo in macchina e si presenta anche Margot, compagna di Martial e futura nuora di Mark. Ha un sorriso genuino e la guida sportiva di chi queste strade tra i paesini le ha percorse centinaia di volte. “Andiamo alla Ferme?” chiede Fabio. “No, ci aspetta Stéphane per pranzo” replica Mark. Siederemo al tavolo con due mostri sacri della Loira, Mark Angeli e Stéphane Bernaudeau, il maestro e l’allievo. Del resto le loro storie si intrecciano a tal punto che raccontandole separate si faticherebbe a comprenderle a fondo.
SOUVENIR DAL PASSATO
“Questa me la ricordavo” dice Fabio indicando la cassetta verde delle lettere con numero 14 di Rue de l’Abondance. Svoltiamo sullo sterrato che in pochi metri conduce davanti a una casa e dalla porta aperta si affaccia la sagoma in penombra di Stéphane. Senza che si mettano a cantare i Genesis, ma tra Fabio e Stéphane si ripete la scena vista poco prima con Mark.
Se dalle vecchie foto dell’archivio Triple “A” Mark l’avrei comunque riconosciuto, non potrei dire lo stesso di Stéphane, che vent’anni fa era poco più di un ragazzo. Il sorriso beffardo stampato in faccia di chi ha sempre la risposta pronta, gli occhiali da sole a nascondere gli occhi e abbronzatura fino all’altezza della manica, come ogni contadino che si rispetti.
Mentre Mark ci fa accomodare in giardino, Stéphane porta in tavolo un intero Paté en croute e ci raggiunge anche Martial, il figlio di Mark, con sette bicchieri in una mano e una bottiglia senza etichetta nell’altra. Sarà la prima di una batteria di sei chenin di cui proveremo a riconoscere la mano del produttore (e fin qui è un cinquanta e cinquanta) e il vigneto di provenienza (e qui la cosa si fa davvero difficile). Mentre mangiamo i discorsi e i racconti si sovrappongono e spesso le voci corrono troppo veloci per la mia comprensione del francese. Raccolgo dettagli qua e là. Sento Mark che ricorda le foto di Keiko e Maika raccontando come fosse rimasto stupito dalla loro capacità di cogliere la complessità di un luogo e delle persone in un semplice scatto, poi racconta di come usando lo zolfo vulcanico dell’Etna sia riuscito a dimezzarne le dosi nei trattamenti, oppure ancora di questo surriscaldamento sconosciuto a cui ha assistito negli ultimi anni che l’ha costretto a cambiare portainnesti.
Complice il quarto bicchiere di vino, mi faccio coraggio e col mio francese maccheronico chiedo a Mark se ha qualche ricordo di quella degustazione che ha fatto la storia delle Triple “A”. Gli occhi di Mark si illuminano “È stato incredibile! C’eravamo tutti e Luca, mentre beveva, continuava a fumare senza mai perdere la capacità di assaggio. Era strano per tutti noi: non avevamo mai preso parte a una degustazione così conviviale, ma professionale al tempo stesso. Era un approccio completamente innovativo per i tempi. Nonostante avessi già un importatore in Italia che lavorava bene i miei vini, ho intuito che Luca stava per far nascere qualcosa di grande: per la prima volta la visione di un commerciante non era orientata esclusivamente alla vendita, ma anche alla trasmissione del nostro modo di lavorare, della nostra filosofia e del nostro contributo per l’ambiente”.
Poi, senza neanche bisogno che glielo chieda, passa avanti ai “souvenir” di quell’ultimo Vinitaly. “Ricordo questa stanza con le pareti vetrate e Luca dentro indemoniato” comincia Mark, “molti gesti e molte parole… come un vero italiano” puntualizza Stéphane col sorriso. “Dopodiché per pranzo era arrivato a far da mangiare uno chef con due stelle. E poi quel Vinitaly mi ha cambiato la vita: ho finalmente capito cos’è un caffè ristretto” esclama Mark in una fragorosa risata subito prima di ricomporsi “scherzi a parte, fino a quel giorno neanche lo bevevo e da lì ho cominciato ad amarlo, ma soprattutto ad avere un chiaro riferimento in testa di cosa dovesse essere un vero caffè”. Stéphane coglie la palla al balzo e ci stuzzica proponendoci “un vero caffè francese”. Guardo Mark e gli chiedo “Ma gli ha insegnato a fare solo il vino?”
È proprio nel momento in cui pongo quella domanda che realizzo una cosa più importante: della storia di Mark e Stéphane conosco solo i ruoli, il maestro e l’allievo. Ma di come sono andate le cose non ne so nulla.
GENESI DI DUE VIGNAIOLI
“Sei nato vignaiolo o lo sei diventato?” chiedo a Mark. “La mia famiglia ha sempre fatto agricoltura, ma io facevo il muratore” replica “è stato il caso a farmi diventare vignaiolo. La Sansonnière per com’è fatta oggi non è altro che il risultato di quattro situazioni dettate dal caso. Per cominciare quando mi proposero di pagarmi un lavoro in bottiglie. E pensare che fino ad allora io il vino non l’avevo manco mai bevuto. Non avessi accettato con ogni probabilità oggi non saremmo qui. Secondo punto, aver trovato la Sansonnière nel 1989, dove già allora si praticava la policoltura. Terza casualità, aver incontrato Stéphane poco dopo, che è presto diventato il mio braccio destro. Quarta e ultima: la volontà di Martial di portare avanti il mio lavoro”.
Rivolgiamo lo sguardo verso Stèphane che capisce al volo che spetta a lui “Si è andata come dice Mark: per caso, le cose succedono così, senza nessuna ragione apparante. Pensate che nella mia famiglia nessuno beveva e quando ero adolescente mi han detto che avessi voluto avrei comunque potuto assaggiare il vino. Mio padre mi diede un vino talmente cattivo che bastò bagnarsi le labbra per decidere che non faceva per me. Qualche anno più tardi, mentre studiavo scienze forestali, durante l’estate i miei mi mandarono a fare qualche lavoretto per conto del nostro vicino di casa. Si chiamava Mark Angeli. Quell’incontro fortuito cambiò tutto: Mark mi portò ad amare il vino fatto con l’uva e mi chiese se volessi lavorare a tempo pieno per lui, così divenni maître charrettier. Certo le vigne non sono come le foreste, ma a convincermi fu la necessità di lavorare all’esterno, volevo assecondare il mio bisogno di sole, di vento e di pioggia”.
Alle parole maître charrettier mi salta subito in testa una vecchia foto appesa in ufficio in cui Mark guida i cavalli tra gli alberelli di chenin. “L’attrezzo che si usa scalza la terra attorno al piede della vite e fa traspirare il suolo” ci spiegano “lavorando senza mezzi meccanici non si rischia di urtare la pianta e non c’è compattamento del terreno per il passaggio del trattore. Di certo non è semplice perché bisogna educare il cavallo e fargli capire l'utilità de suo lavoro. È un po’ un gioco di forza, ma col tempo si impara a fargli capire quando sta facendo qualcosa che non va e a fermarsi quando serve. Alla fine diventa un vero e proprio collega di lavoro”.
Poi Stéphane, per divertimento, affitta un piccolo vigneto bistrattato dove allo chenin si alterna qua e là qualche pianta di verdelot e le viti han da tempo superato l’età della massima produttività. Così nel 2000 vinifica la sua prima annata di Les Nourissons “Milleduecento bottiglie in totale!” esclama “E novecento son finite sul mercato italiano. Presto ho capito che con così poche bottiglie me lo sarei bevuto tutto, mi son messo alla ricerca di un altro vigneto e ho trovato il Terre Blanches. Ma ora basta parlare di Loira!” Stèphane si alza e torna poco dopo con in mano una bottiglia di SP68 Rosso di Arianna Occhipinti “Quello che mi piace dei vini di Arianna? Sono un mix incredibile, ha compreso come coniugare la freschezza e il sole della Sicilia”. Mark non rinuncia al suo bicchiere, poi si alza e ci dà appuntamento a dopo “ora fatevi un giro in cantina con Stéphane, io poi vi aspetto alla Ferme che andiamo a vedere i vigneti”.
LA VERITÀ DANS LE VERRE E IL KNOW-HOW AL SERVIZIO DEL TERRITORIO
La cantina del Domaine Bernaudeau si rivela essere un piccolo edificio coperto d’edera a fianco della casa di Stéphane che consiste sostanzialmente in due piccole stanze dove contenitori di rovere, vetroresine e inox si spartiscono il poco spazio a disposizione tra le pareti di pietra. E se durante il pranzo Stéphane sembrava più schivo e riservato rispetto a Mark, in cantina inizia a concedersi a poco a poco, rivelando una personalità attenta, estremamente riconoscente nei confronti di Mark e altrettanto forte e geniale.
Si comincia da tre botti diverse dell’ultima annata di Les Coqueries e proviamo ad assemblarli per vedere come gioca quella con la volatile più spinta insieme a quella che ha ancora un importante residuo zuccherino. Proseguiamo con Les Onglés, quello che all’assaggio dalla botte si mostra più completo, e Les Nourissons, ricco, completo e profondo, con un alcol importante ma perfettamente integrato, anche se in una fase passeggera di riduzione. Stéphane la avverte subito e ci porge una sputacchiera. Con Fabio ci guardiamo e, sapendo che difficilmente berremo questo vino ancora, finiamo il bicchiere fino all’ultima goccia.
Si passa ad annate più vecchie e quando gli chiediamo come mai Les Nourissons 2017 tira fuori un lato salino incredibile, Stéphane mette in mostra il suo passato da maître charrettier. “In parte è dovuto ai terreni acidi che tendono a far salificare il tartarico dei vini, ma è anche relazionato a come si lavora il terreno. Meno si lavora la terra, più lo chenin tira fuori la parte più vegetale e amaricante. Questi però son discorsi generici. Ogni vigna è differente e non esiste una verità, se non quella dans le verre. Il compito del vignaiolo è quello di osservare e di allenare la sensibilità con l’esperienza. Chi fa il vino deve prima comprendere il proprio terroir, poi la cantina è solo un accompagnamento con il quale dai una direzione all’uva seguendo i tuoi gusti”.
Non facciamo tempo ad accorgercene che si sono già fatte le cinque, Mark ci sta aspettando. Stéphane ci accompagna fino alle porte della Ferme e ci dà appuntamento per cena. Mentre percorriamo il vialetto in ghiaia riesco finalmente a far assumere almeno una collocazione spaziale all’idea che mi ero fatto di quel primo incontro tra Luca e Mark. Le porte e le finestre della casa e della cantina sono dipinte dello stesso viola, ormai scolorito, dello stemma che si trova sulle etichette della Sansonnière.
Tempo di una manciata di minuti e stiamo camminando tra gli alberelli di Les Blanderies, il vigneto più celebre de La Ferme de la Sansonnière, il cui impianto risale al 1949. Mark si china su una pianta e ci spiega che è periodo di spollonatura: un’operazione di vendemmia verde volta a lasciare sulla pianta solo i grappoli più esposti al sole. Mark in meno di dieci secondi passa di pianta in pianta. Poi si ferma, mi guarda e mi fa “La prossima è tua”. Mi avvicino alla pianta con riverenza e Fabio dietro che mi ricorda di andarci cauto “le bottiglie della Sansonnière sul mercato sono già poche, ci manca solo che ti metti a togliergli i grappoli”.
In realtà la “sfida” lanciatemi da Mark nasconde quella che oggi è la sua missione. Da quando Martial ha acquisito completa autonomia sia in vigna che in cantina, Mark può dedicare la maggior parte del suo tempo a formare giovani agricoltori. “Se un tempo si recuperavano i terreni abbandonati, ora si recuperano i ragazzi che vogliono tornare alla terra” ci dice facendo trasparire quanto questa cosa gli stia a cuore. Mark lo fa quasi per dovere morale nei confronti del luogo che lo ha accolto. Il territorio è stato per tanti anni al suo servizio, adesso è il suo know-how ad essere al servizio del territorio.
Proseguiamo verso i vigneti di Les Fouchardes e di un altro appezzamento che fornisce le uve per La Lune. Nonostante i vigneti siano distanti tra loro solo pochi passi, la composizione del suolo è completamente differente. Se in quello inferiore prevale la sabbia, a Les Fouchardes hanno la meglio le argille, che hanno meno capacità di assorbire il calore del sole. “Questo significa che sopra avremo una maturazione più lenta sia per quanto riguarda il frutto sia nello sviluppo della complessità aromatica in bottiglia. Al contrario la Lune è un vino più pronto. Non è portavoce di un singolo climat, ma più vigneti concorrono alla sua composizione. Per noi rappresenta la qualità minima dello chenin, vorremmo che fosse uno standard per tutto il territorio”.
Un vento forte e costante ci accompagna lungo tutta la nostra permanenza tra i filari “è il bene comunitario della nostra regione” racconta Mark “Da un lato sicuramente ci aiuta ad evitare le malattie, dall’altro però può arrivare a stendere a terra le piante più giovani. Molti hanno risolto la cosa cambiando sistema di allevamento delle piante: da alberello a cordon royat. L’uso del fil di ferro assicura la stabilità della pianta e la produttività può essere spinta fino anche a trenta grappoli a ceppo. Noi per preservare la forma di allevamento tradizionale e una produzione adeguata e qualitativa abbiamo scelto di adottare un portainnesto debole che produce poca vegetazione e tanto legno, fornendo così alla vite una struttura in grado di resistere al vento”.
Il telefono di Mark squilla. È Martial che ci dice che siamo già in ritardo per la cena. Hanno prenotato un tavolo a La Table de La Bergerie, il ristorante di David Guitton. “Perfetto” risponde Mark “passiamo dal meccanico e arriviamo”. La macchina però non è ancora stata riparata. Ci tocca fermarci un giorno in più.
QUANDO L’ALLIEVO DIVENTA MAESTRO
La mattina seguente siamo autonomi, ci hanno messo a disposizione una Cinquecento di cortesia, ma restiamo comunque costretti in zona. Durante la cena, la sera prima, siamo riusciti a far stravolgere l’agenda a Stéphane: appuntamenti della mattina cancellati e fissata visita ai vigneti. Ci viene incontro con un vecchio furgone verde della Mercedes, con cui ci farà ben presto ricredere sul concetto di “guida sportiva” di Margot: stargli dietro è una vera impresa.
“Dai andiamo che proviamo a vederli tutti” ci dice. Stéphane è comunque di fretta, i figli tornano presto da scuola e deve essere a casa in poco più di un’ora. Facciamo prima tappa al Terre Blanches, un micro monopole di 0,30 ettari con piante tra i settanta e gli ottant’anni, che Stéphane ha acquistato nel 2008. “Qui abbiamo argille bianche di origine calcarea che restituiscono allo chenin finezza, freschezza e femminilità” racconta mentre dimostra come sugli alberelli di una certa età ci si possa addirittura sedere.
Passiamo a Les Onglés, un vigneto di 2,5 ettari con piante di oltre quarant’anni suddiviso tra tre produttori biodinamici, completamente isolato grazie ai boschi e particolarmente battuto dal vento. “Quando c’è vento si usano i portainnesti deboli che lignificano tanto e hanno poco parte vegetativa, così gli alberelli non vengono abbattuti. Qua nel sottosuolo troviamo scisti degradati che danno vini di volume, densità e concentrazione. Il Les Onglés è il Rocky Balboa degli chenin”.
Terzo stop dove tutto è cominciato nel 2000, allo storico vigneto di Les Nourissons. 0,7 ettari con piante che superano ampiamente i cento anni, dove oltre allo chenin si trovano alcune piante di verdelot, nient’altro che il verdelho portoghese. Così lo chenin, più restio a mostrarsi in gioventù, lascia inizialmente il posto all’esuberanza del verdelot che spinge sulla parte aromatica. Arrivando a Les Nourissons il colpo d’occhio è impressionante. Si potrebbe riconoscere a distanza di centinaia di metri quale sia la porzione di vigna di Stéphane: l’unica dove ancora sopravvivono piante che per anzianità restituiscono una produzione estremamente qualitativa, ma limitata. Al suo fianco solo piante giovani, esclusivamente di chenin, coltivate in modo da poter raccogliere più uva possibile. Mentre ci mostra come riconoscere un vitigno dall’altro alla seconda della brillantezza del colore delle foglie, Stéphane ci racconta la storia del vigneto “Quando l’ho preso, un po’ per l’età avanzata delle piante e un po’ per la presenza del verdelot, che allora superava il venti per cento, nessuno lo voleva. L’ho affittato fino al 2009 quando poi l’ho comprato. Qui gli scisti si fanno ancora più degradati ed entra in gioco il verdelot, quindi ne esce un vino di finesse e puissance, il più voluminoso in assoluto”.Ultima fermata a Les Coqueries, altro monopole di 0,45 ettari con piante di oltre sessant’anni su argille brune “In una parola, lo chenin a Les Coqueires è larghezza” attacca Stéphane, poi di colpo s’interrompe, le mani corrono alle tasche e risponde al telefono. È tempo di scappare: la figlia è appena tornata a casa. Stéphane ci abbraccia frettolosamente, poi guarda Fabio e sarcastico gli fa “per vederti devo aspettare altri vent’anni?”. Entra nel furgone e lo seguiamo con lo sguardo finché sparisce all’orizzonte.
Anche da Mark ci siamo accordati per un saluto prima di andar via. Il saluto diventa un bicchiere di vino e il bicchiere di vino si trasforma in una visita in cantina. Martial spalanca la porta viola, si arma di alzavino e cominciamo a passare in rassegna botte per botte. Poi prima di andare padre e figlio ci tengono a mostrarci la loro ultima trovata: un originale sistema di climatizzazione della cantina. L’acqua di un piccolo laghetto viene pompata in cima al tetto sul quale scorre prima di tornare da dove era stata prelevata. “In questo modo possiamo mantenere costante la temperatura in cantina” ci spiega Mark prima di ricordarci che, nonostante il vino rappresenti il motore principale, è la policoltura a rappresentare uno dei punti cardine della fattoria “Alla Ferme si va ben oltre i vigneti. Qui convivono mele per la produzione di sidro, grano tenero per la farina, girasoli per l’olio, l’allevamento di vacche bretoni per il letame e qualche gallina libera. Questo è l’unico futuro possibile dell’agricoltura”.
Salutiamo Mark e Martial e, sulle note dei Genesis, la Cinquecento ci riporta verso l’autofficina. Questa volta la macchina è pronta e non abbiamo scuse per fermarci ancora. Ripartiamo. Dopo un po’ Fabio mi guarda e mi fa “Allora?”. “Mark e Stéphane: l’allievo e il maestro” gli rispondo a mo’ di titolo. “L’allievo diventato maestro a sua volta”. “Già. Sai, pensavo… se il verdelot a Les Nourissons è arrivato a centodieci anni, quanto può andare avanti una foresta?”

