In che misura è possibile ritrovare nel calice l’identità di un luogo, il carattere delle persone che lo abitano e i tratti distintivi del loro approccio al lavoro? Per scoprirlo siamo andati al Domaine Guillemot-Michel dove Sophie Rousille, insieme al marito Gautier, ha scelto di dare continuità al lavoro dei suoi genitori.
Lungo la strada che collega Viré e Clessé, i comuni che danno il nome a una delle cinque appellations comunali del Mâconnais, incontrerete un piccolo borgo rurale in pietra che porta lo stesso nome della Route: Quintaine. Vi trovate nel luogo dove Marc e Pierrette a partire da metà anni ’80 hanno cambiato il destino del Domaine Guillemot-Michel.
DAL 1985 A OGGI: STORIA DI DUE CAMBI GENERAZIONALI
A furia di frequentare il mondo dei vini capita di intessere con delle bottiglie delle vere e proprie relazioni personali. Non si tratta di rapporti statici, ma in continua evoluzione, del resto col tempo cambiano i vini e cambiamo noi. Così nascono frequentazioni assidue e saltuarie, amicizie e antipatie. A volte la relazione diventa così intensa e duratura da assomigliare a una vera e propria storia d’amore, fino al punto che alcune bottiglie ci sembra di conoscerle da sempre. Per questo varcando il cancelletto in ferro battuto del Domaine Guillemot-Michel da un lato sento le emozioni amplificarsi, dall’altro cerco di riconoscere nel luogo che mi circonda quella purezza, precisione ed essenzialità che mi hanno fatto innamorare del Viré-Clessé.
Il borgo di Quintane si spiega in piccoli vialetti che si aprono su corti di casette in pietra viva, colorate dalle tinte pastello di porte, finestre e cancelli. È l’immagine di una Francia rurale fatta di piccoli villaggi immersi nel verde, in una campagna dove il tempo sembra rallentare. La cura, l’attenzione al dettaglio, la ricerca della bellezza nella semplicità si rispecchia in ogni aspetto restituendo un senso di pace interiore.
In fondo al vialetto Gautier esordisce con un ottimo italiano “Benvenuti al Domaine Guillemot-Michel. Scusate il mio italiano, capisco tutto ma non lo parlo benissimo. Se preferite possiamo fare in inglese o in francese”. È in questo momento che sanciamo un tacito accordo che per tutta la giornata ci farà cambiare lingua a ogni frase, se non durante.
Gautier si incammina verso il grande albero cresciuto spalla a spalla con il portone celeste della cantina e comincia a raccontarci la storia del Domaine. “I nonni di Sophie erano viticoltori e conferivano le uve alla cooperativa di cui erano soci. Sono stati Marc e Pierrette a cominciare ad imbottigliare il proprio vino, convertendo in biologico la conduzione agricola, per poi approdare alla biodinamica nel 1992”. Lungo le pareti della cantina sono disposte dodici grandi cuve piastrellate di cemento, dove viene vinificato e affina il Viré-Clessé. Gautier passa in rassegna tutte le fasi della produzione “dopo tre o quattro ore di pressatura lenta delle uve, si va in cuve, una notte di decantazione statica e comincia la fermentazione. Durante l’intero processo di vinificazione non facciamo né travasi né battonage in modo che il vino riposi sulle sue fecce che si depositano sul fondo per separarle prima dell’imbottigliamento”, poi ci indica un'imbottigliatrice a cinque becchi in fondo alla stanza, uno dei primi elementi che fa comprendere come l’approccio al lavoro al Domaine sia interamente manuale, attento, artigiano.



“Oggi coltiviamo sei ettari e mezzo a chardonnay per una produzione totale di circa quarantamila bottiglie” spiega Gautier “eppure sin dal principio Marc e Pierrette hanno progettato la cantina perché potesse accogliere due intere annate contemporaneamente. Questo serve nei millesimi più acidi, quando le fermentazioni malolattiche sono molto lente, e ci permette di andare in bottiglia solo ed esclusivamente quando il vino è pronto”. Ancora una volta al primo posto cura, precisione e rispetto del tempo.
Nella stanza successiva la nostra attenzione viene catturata da un contenitore esagonale inclinato usato a mo’ di pupitre e la domanda ci sorge spontanea “fate anche una bollicina?” “Questo è il secondo anno nella storia del Domaine” risponde entusiasta Gautier “Sophie adora lo Champagne e da quando è subentrata ai genitori nel 2012 ha portato due grandi novità: qualche nuovo vino e la distillazione delle vinacce per valorizzare ancora di più la nostra materia prima”. Così nel 2014 Sophie ha fatto le sue prime duemila bottiglie di petillant, per poi ripetere l’esperimento nel 2021 dando vita a un metodo ancestrale rosato da gamay e chardonnay, le Feu et la Glace.
Appoggiate a una parete, perfettamente ordinate, incontriamo le bottiglie che compongono la memoria storica del Domaine. “Per i trent’anni di biodinamica del Domaine abbiamo una verticale di tutte la annate” racconta Gautier “Come potete vedere ne abbiamo ancora tante del 1986, l’anno di nascita di Sophie, e manca invece all’appello il 1991. A quanto pare l’annata era così buona che Marc e Pierrette non ne hanno lasciata neanche una bottiglia”.
Una piccola porta di legno dà accesso a un’ultima piccola stanza con il pavimento in ghiaia, che ospitano alcune demimuids di decimo passaggio e tre anfore di terracotta: ci troviamo nella sede delle altre sperimentazioni portate avanti da Sophie e Gautier. “Sono tutte diverse declinazioni del nostro chardonnay” illustra Gautier “nel legno abbiamo la Cuvée Charleston, da vigne ultracentenarie su suoli marnosi, mentre l’argilla ospita il Retour à la Terre, da vigne su suoli argillosi. Secondo la teoria il livello di micro ossigenazione dei due materiali è lo stesso, ma il vino all’interno reagisce molto diversamente: l’argilla restituisce vini più sferici, levigati e molto più resistenti all’ossigeno. Infine a partire dal 2018 abbiamo iniziato le prime sperimentazioni di macerazione sulle bucce, poi a pranzo assaggiamo il risultato”.





A TUTTO TONDO: DAI PREPARATI DI VIGNA AL DISTILLATO DI VINACCE
Montiamo in macchina per raggiungere uno dei vigneti più significativi del Domaine. Di fronte a una distesa di filari protetti da un bosco, l’appezzamento di Marc, Pierrette, Sophie e Gautier salta subito all’occhio: è l’unico che a un mese dalla vendemmia ha perso interamente le foglie, “è l’unico a non aver ricevuto concimazioni azotate” traduce Gautier.
Poi chinandosi ci mostra la forma di allevamento della vite “a due braccia”, che da un lato permette di contenere l’espansione della pianta e dall’altro di poter scegliere ogni anno tra due diversi capi a frutto. “Tutte le nostre viti provengono da selezione massale e complessivamente l’età media supera i sessant'anni” racconta, poi ci porge due acini in via d’appassimento rimasti in pianta e aggiunge “in zona non è raro che si sviluppi la botrytis, un tempo Marc faceva un vin liquoreux, ma è una tipologia che ha un mercato molto difficile. E per giunta la botrytis si sviluppa nelle annate più sofferte, quando già arrivi alla vendemmia con poca uva in pianta”.




La tappa successiva è il luogo della seconda innovazione fortemente voluta da Sophie: i locali dove viene distillata la Marc. Gautier apre un grande portone che rivela due antichi alambicchi discontinui a bagnomaria, riadattati personalmente da Marc Guillemot. “Il primo fattore fondamentale” ci spiega “è la quantità di succo trattenuta dalla vinaccia che è inversamente proporzionale allo spessore della buccia: più è sottile, maggiore è la quantità di succo trattenuta, più delicata risulterà la Marc. Il secondo invece sta nella della temperatura: siccome lavoriamo con fuoco vivo utilizziamo il legno d’acacia, che gli dà forza, e i ceppi morti di vite che invece bruciando lentamente fanno diminuire gradualmente la temperatura”. Attraversando la strada si giunge a due piccole cave d’affinamento situate ai lati opposto di un vialetto di Quintaine. “La maggior parte del distillato è fatto affinare in legno abbassando progressivamente il grado fino ad ottenere la Marc. Una parte invece, lasciata bianca, la impieghiamo per produrre il nostro gin e il nostro assenzio, grazie alle botaniche dell’orto di Pierrette”.


L’orto di Pierrette rappresenta un altro elemento fondamentale per entrare in contatto con l’estrema cura e attenzione al dettaglio che distinguono il lavoro dei Guillemot. Gautier ci conduce all’interno di un laboratorio dedicato alla preparazione di tisane e preparati, punto di partenza della conduzione agricola del Domaine. Appena entrati veniamo avvolti da una miriade di profumi a cui proviamo a dare un nome. Le soluzioni ce le offre Gautier mostrandoci le varie taniche di decotti, ottenuti da piante a foglia larga come felci, consolida, aglio orsino ed erba medica, che sono fatte fermentare da fresche e poi impiegate per dare energia alle piante e al terreno. Salendo al piano superiore i profumi virano e si fanno ancora più intensi: dei grandi sacchi contengono erbe aromatiche come timo, lavanda e rosmarino, fatte seccare, polverizzate e utilizzate per combattere le malattie.
“Andiamo a far pranzo e assaggiamo qualcosa?” propone Gautier. Acconsentiamo entusiasti, ma prima di tornare verso casa, ci fermiamo affianco all’orto delle botaniche ai piedi di un melo centenario a raccogliere qualche frutto caduto in terra “sarà il nostro dessert”!
L’IDENTITÀ NEL CALICE
Non avevamo il minimo dubbio: la cura e l’attenzione al dettaglio che distinguono il lavoro e gli spazi del Domaine si ritrovano anche nella casa di Sophie e Gautier. Ci accomodiamo in salotto al tavolo di marmo su cui troviamo già calici e bottiglie. “Scusate, ma non ho ancora avuto tempo di preparare niente” dice Gautier “voi cominciate mentre io metto su qualcosa”. Ci versiamo un calice della nuova bollicina rosata ideate da Sophie, lo seguo in cucina aldilà della parete a vetri e gli chiedo di raccontarmi la sua storia.
“Io sono originario di Grenoble e con Sophie ci siamo conosciuti all’Università di Montpellier. Abbiamo studiato entrambi enologia, proprio come Marc e Pierrette, e questo influenza molto il nostro approccio al lavoro: andiamo sempre alla ricerca del perché delle cose. Poi ho lavorato un po’ dappertutto: in Borgogna, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Australia. Per qualche anno ho perfino fatto sakè in Giappone, paese di cui mi sono innamorato perdutamente. Poi quando Sophie ha ripreso in mano l’azienda ho fatto il commerciale per una grande azienda dello Chalonnais, finché non ho cominciato a lavorare anche io qui al Domaine”.
Nel frattempo passiamo in rassegna nel calice tre annate del Viré-Clessé: una 2021, segnata dalla pioggia da cui è nato uno chardonnay con una buona percentuale di grains nobles che spinge sull’esoticità, una 2020 più calda dove l’alcol è ben bilanciato da un’acidità agrumata e una 2019 molto fresca che ha restituito più beva e agilità. Tre vini diversissimi tra loro, ma ancora una volta e ognuno a suo modo puri, precisi, essenziali.




Il momento di degustazione si trasforma in un pranzo conviviale non appena Gautier porta a tavola i piatti. Riso, sgombro, porri, sakè, salsa di soia e semi di sesamo: sei elementi perfettamente combinati, che mettono bene in mostra la sua passione sconfinata per il paese del Sol Levante. Perfino nella sua cucina si ritrova l’essenzialità, la purezza, la precisione che andiamo riconoscendo sin dalla mattina nel paesaggio, in Gautier, nell’approccio al lavoro da Guillemot-Michel. Ma è solo in quel momento che comprendiamo che non sono i tratti distintivi del vino a riflettersi in tutto ciò che ci circonda, ma più semplicemente viceversa.
