La selvatica anima pantesca, le terracotta delle anfore interrante, la creatività e l’esuberanza di Giotto. Siamo sbarcati sull'isola Pantelleria per cogliere l’essenza della sottile combinazione tra questi elementi che dà vita ai vini dell’Azienda Agricola Serragghia.
Dopo aver attraversato il mare a bordo del piccolo turboelica che collega la Sicilia a Pantelleria ad accogliervi troverete una terra dall’anima indomita e selvaggia. Attraversando il Parco Nazionale fino alla contrada Serraglia potrete scorgere il luogo di cui Gabrio Bini si è innamorato e di cui il figlio Giotto oggi si fa custode.
A CENA CON GIOTTO: CREATIVO, MUSICISTA, GOURMAND
Il primo vino naturale che ho ordinato consapevolmente nella mia vita aveva una bottiglia alta, col collo lungo e una freccia come etichetta. Non ho più smesso di cercarlo, di berlo, di stapparlo con rispetto, solo in occasioni speciali. Credo ancora sia uno dei migliori vini del mondo. Forse non è neppure un vino, ma un sorso di emozioni. Ma chi è l’uomo che continua a spremerle e a imbottigliarle?
A Malpensa la nebbia è così fitta che non si distinguono le sagome dei pochi aeroplani allineati sulla pista. Con noi portiamo solo vestiti, macchina fotografica, taccuino e penna: tutto l’essenziale più qualche salame. Il viaggio è lungo. Atterriamo a Punta Raisi e ripartiamo sorvolando un pezzo di Sicilia prima di tuffare in muso verso il basso, verso il nulla, in mezzo al mare, per fermarsi sulla pista di Pantelleria. Ad aspettarci il vento, tanto vento, e un tramonto rosso e tiepido, in un’isola deserta di persone, di macchine, di luci e perfino di animali.
Nel nero petrolio della notte pantesca ci inerpichiamo fino a una luce fioca che rischiara la finestrella di un dammuso. Ci accolgono le stelle di Orione, che sembra quasi di toccarle, l’abbaiare chiassoso di un cane, che muta in caciara festosa, e il guaito del vento freddo e umido che scompiglia i capelli. In piedi sulla porta della piccola casa di pietra lavica, ci accoglie Giotto Bini, l’unico altro essere umano oltre a noi nel buio della montagna in contrada Serraglia.
Onda ottiene il suo pezzo di formaggio e si accuccia ai suoi piedi. È con lui da undici anni, da quando si è trasferito sull’isola ed è andato al canile a cercare con chi condividere i lunghi giorni d’inverno. Da qualche tempo ha un problema a una zampa e ha meno voglia di correre ma presto viaggeranno a Palermo per incontrare un veterinario. Nel frattempo, vigilano insieme su questa fattoria.
Sul tavolo ricolmo di oggetti spuntano presto pane caldo di grano duro, del forno locale, fette di Morbier e Compté artigianali, dalla stagionatura e temperatura perfette, come ci si aspetta da uomo per metà francese, e una bottiglia di vino. Giotto si accende la sigaretta che ha appena finito di fabbricare e ci dà il benvenuto nella sua casa “sono uno zingaro ma non posso rinunciare a mangiare bene e bere bene”. Versa e ci porge lo Zibibbo 2020 nel suo gotto personale di vetro del Seicento, il miglior strumento per cogliere tutti i sentori del frutto di quelle viti. I calici si riempiono e le parole iniziano a scorrere. In bicchieri simili, a Venezia, in locali che si chiamavano “malvasie”, si beveva la malvasia di Candia, che giungeva via nave da Creta e dal Peloponneso. E il moscato d’Alessandria, che in Sicilia è detto zibibbo, che della malvasia è in qualche maniera parente, per motivi storici o funzionali, si trova davvero a proprio agio in quell’antico pezzo di vetro soffiato e ancora una volta è capace di sorprendermi. Nella scorsa annata, secca ma generosa di frutti, il Serragghia non ha superato i dodici gradi di alcool, come nelle prime vendemmie, in cui iniziò l’avventura di questa cantina unica al mondo, diciassette anni fa. Vi ritrovo i profumi di frutta maturata dal sole, di capperi, di fichi disidratati dal vento e di pelle umana, che mi avevano stupito fin dal primo incontro. Quella che stiamo degustando è un’annata eccezionale, che racconta la storia di una terra scura e degli uomini e degli animali che l’aiutano a partorire i propri profumi.
In questo lembo di lava, ci spiega Giotto, qualsiasi frutta acquisisce un altro sapore. Sceglie un limone del suo giardino e il mandarino di un amico e ne strizziamo due riccioli di buccia su un piatto di bresaola di Madesimo marezzata di grasso, appena affettata, che sa di fegato e di noci, e il cocktail funziona alla perfezione. E il matrimonio va a segno soprattutto con la bottiglia di Rosso Fanino, da uve rosse di perricone, anche detto pignatello, e uve bianche di catarratto, che accolgono nella miscela anche qualche grappolo di zibibbo, che giustificano l’impressione di continuità aromatica con l’assaggio precedente.
“Bisogna mangiare e bere bene nella vita. Ma anche sentire bene”. E infatti l’impianto di Giotto restituisce la musica in maniera impeccabile. Le vibrazioni fanno risuonare stomaco e cuore. Ci fa ascoltare un pezzo composto da lui, musica dub, un reggae missato in stile minimale, per cui sta cercando una voce giusta che possa arricchire con le parole la traccia che ha creato. “Anche il vino è musica, è vibrazione”.
Giotto anticipa la mia esplorazione del frigorifero: “nel casino ogni cosa è al suo posto”. E infatti il cavolfiore pantesco incontra, di lì a poco, coltello, tagliere, una padella rovente e la miglior salsa di soia artigianale che io abbia mai assaggiato. E Giotto ci serve un piatto dalla nota decisa di umami, che non può che fare l’amore con un vino dai medesimi sentori finali: il Serragghia Heritage 2020. Anni fa decise di creare una selezione speciale con il mosto delle viti più vecchie, piantate anche cento anni prima. Più la vite è datata, meno produce, ma più concentra il sapore. Ma non basta. Il vino è cambiato nelle ultime vendemmie anche per un altro motivo. È migliorato da quando tutta la squadra che lavora a Serragghia ha rinnovato l’armonia grazie all’arrivo di un agronomo di appuntito talento e di contagiosa passione. Ma questa storia Giotto la tiene in serbo per il nuovo giorno.




L’IRRIPETIBILE UNICITÀ DEI VINI DI SERRAGGHIA
La mattina inizia nel vento, gelido, dell’isola. Per combattere il freddo Giotto ci offre un tè corroborato dalla menta che cresce nell’orto spontaneo di fronte a casa. La fattoria ci appare altra stamattina. Ci accorgiamo delle enormi anfore appoggiate sul terreno, delle numerose costruzioni di sassi di lava sovrapposti a secco, del blu intenso del cielo, del mare d’inverno che si ingrossa lontano e del verde brillante delle fasce, dei cactus e degli alberi da frutto, a tratti nudi a tratti già ricolmi di fiori, malgrado siamo solamente a gennaio.
Percorriamo un’antica mulattiera rialzata, sospesa sui campi che un tempo erano di grano e oggi ospitano le viti, e arriviamo alla casa padronale, il regno dell’artista Gabrio Bini, il padre di Giotto. Ovunque è creatività, magnificenza, dettaglio. Marmi azzurri tagliati per dialogare con le nuvole, giardini di piante secolari disposte con grazia, spazi di meditazione e di consapevole corrispondenza tra la magia della bellezza creata da Dio e quella riprodotta dall’uomo. La casa è un esercizio di osmosi tra la cultura orientale e quella mediterranea, tra cisterne, marmi, mosaici, intarsi e formiche dai colori sgargianti, moderne ancora dopo quasi vent’anni. Gabrio Bini è stato uno dei grandi creativi italiani della seconda metà del secolo scorso, amico di Gastel, Fontana e Vitali, come la moglie, Genevieve, un’icona della pubblicità di qualità e probabilmente la donna di maggior intuito nei confronti del buono e del bello, che mi sia mai capitato di incontrare. Gabrio iniziò a produrre vino in questa contrada all’inizio del Duemila, insieme a capperi, origano e altre prelibatezze. Quello di Serragghia è un progetto che procede di padre in figlio, “agriculteur de père en fils - agricoltori di padre in figlio”. Nulla sarebbe potuto accadere senza l’intuizione unica del padre Gabrio e nulla potrà procedere senza la cura futura del figlio Giotto. “Sono diverso da mio padre ma c’è qualcosa di artistico che ci unisce” anticipa Giotto Bini, creativo e musicista di livello internazionale, riconoscendo il suo debito nei confronti del padre e dimostrando una modestia rara, che condivide con la madre.
Sull’aia facciamo la conoscenza dell’agronomo Daniele Stuppa, braccio destro di Giotto. Daniele, guida escursionistica del parco, buon amico e agricoltore a sua volta, stappa una bottiglia rifermentata, da cui si attendevano grandi sorprese ma che la trasformazione in aceto ha tradito. Può succedere con i vini liberi di esprimersi, che non vengono imbrigliati dai conservanti o dalla tecnologia. A volte, come i figli, scelgono un loro percorso, e bisogna lasciarli andare.




Chiediamo a Daniele perché questi vini siano così unici e irripetibili, e ci mostra una zolla di terra. I lapilli eruttati dalla “muntagna”, il monte Gibele, sopra di noi, hanno dato vita a un terreno fertile, maculato di sassi che drenano l’acqua con lentezza, punteggiato d’ossidiana, la pietra nera come la pece, tagliente come il vetro, che era il materiale conosciuto più duro prima della scoperta del ferro, e circondata da muretti a secco, che trattengono con parsimonia l’umidità marina in maniera tanto efficiente che sull’isola, se i semi sono quelli antichi, l’agricoltura non ha bisogno di irrigazione, malgrado piova molto di rado. I sapori degli ortaggi cresciuti con l’anidrocoltura si concentrano, e similmente avviene per quelli dell’uva.
Procedendo di fascia in fascia arriviamo al “sancta sanctorum” dell’azienda: l’anforaia. Oltre cinquanta anfore turche e spagnole di differenti capienze riposano interrate, l’una accanto all’altra, chiuse da un coperchio di marmo pesante. “Il vino si fa da solo, bisogna solo accompagnarlo e imbottigliarlo quando è pronto”. E Daniele annuisce alle parole di Giotto. A volte il contenuto di un’anfora percorre strade indesiderate e, come per la bottiglia assaggiata in mattinata, è necessario abbandonarlo al suo destino ma, molto più spesso, sotto la coltre spessa e bianca di lieviti, la “fioretta” tanto detestata dai contadini degli anni del boom, che ci appare in tutta la sua aromaticità e impenetrabile bellezza ogni volta che scoperchiamo un’anfora, si compie il miracolo della trasformazione aromatica: il mosto fermentato si affina per mesi sulle fecce fini ed evolve, in ogni anfora in maniera difforme, in un vino unico sulla terra, che l’uomo accompagna, assaggia, seleziona e decide quando imbottigliare.
Abbiamo il privilegio di attingere da quasi tutte le anfore e, sotto al “velo” di lieviti, peschiamo il moscatello, lo zibibbo, la miscela di pignatello e catarratto e il savagnin, da barbatelle di Pierre Overnoy, iconico produttore dello Jura, che danno il vino bianco italiano attualmente più caro del mondo, prodotto in sole cinquanta bottiglie, il Serragghia Notre Savagnin. Ma sono i sorsi tratti dalle numerose anfore marcate con l’H, atte a diventare Serragghia Heritage, a stupire maggiormente. Ognuna è eccellente, e differente. Solo la sapienza e la sensibilità di Giotto, di Gabrio e di Daniele, con un lavoro maieutico ancor più che artigianale e creativo, sapranno dosarle nella proporzione ottimale per ricreare in bottiglia quel vino aromatico, salato, marino e carneo insieme.



GABRIO, GIOTTO, PANTELLERIA: I TRE PROTAGONISTI DI SERRAGGHIA
A pranzo cuciniamo tutti insieme. Prima una pasta di Giovanni Fabbri con un una crema di trusso, il cavolo rapa autoctono, con groviera francese e limone, poi un piatto di “foraging” ottenuto dalla raccolta di bietole spontanee appena scottate e acetosella, maritate a un pesto al mortaio di prezzemolo dell’orto. Segue un’insalata di tutti elementi crudi marinati singolarmente: broccolo, gambo di broccolo, mela, limoni, cipolla rossa e l’erba grassa Ombelico di Venere, che cresce rigogliosa tra le fessure di quei massi neri. Lo Zibibbo tirato dalle anfore innaffia questo incontro tra amici del sapore riuniti in questa dimora d’artista. Giotto ci stappa una bottiglia di Serragghia Onda, da syrah e nero d’Avola, che reca in etichetta le lettere di un alfabeto creativo ideato da Giotto quando aveva solamente otto anni e iniziò a firmarsi G8. Onda è emozione pura, come tutti i vini, i sapori e le parole d’amore per la vita e la verità che corrono tra i dammusi di contrada Serraglia, di fronte al fuoco o al cospetto della montagna.
Giotto ci invita a non rincorrere il sapore del vino ma il suono, a ascoltarlo, a ascoltare la natura e la terra e a assecondarle. Da questo concetto sono nate le numerose fotografie con le bottiglie con la freccia appoggiate all’orecchio, così è stato plasmato questo luogo in armonia con la natura e ogni giorno vengono accuditi questi vini diversi da tutti gli altri.



Trascorriamo il pomeriggio a spasso tra le fasce, ad accarezzare i cavalli, a dar loro il fieno, a parlare di funghi, a raccogliere erbe selvatiche e a discutere di questa comunione con la terra ed il cielo, quell’equilibrio in cui Giotto è maestro, che prevede il benessere di piante ed animali prima ancora di quello dell’uomo.
Serragghia non sarebbe mai nata senza quel vulcano di idee del padre Gabrio ma Giotto è l’agricoltore che, da anni, vive in queste vigne tutti i giorni. È lui il custode dell’armonia di questa terra, dei suoi frutti, degli animali che la popolano, dei profumi che evolvono sottoterra, nella terracotta delle anfore, che si affinano nelle bottiglie con la freccia. Giotto ci ha mostrato l’umanità capace di umiltà nei confronti della natura e ci ha accompagnato nei meandri della creazione di un vino unico, come le specie, vegetali, animali ed umane, che vivono ai piedi della grande montagna, di fronte al mare, bruciate dal sole e accarezzate dal vento.