Quali sono gli ingredienti per dare vita a un’azienda agricola strutturata, poliedrica e orientata al futuro? Per capirlo siamo andati a trovare Elisabetta Foradori e i figli Emilio, Theo e Myrtha Zierock: agricoltori e artigiani del Trentino.
Uscendo all’altezza di San Michele all’Adige dall’autostrada del Brennero, si entra nella Piana Rotaliana. Dopo aver sfilato tra i giganti del Trento DOC fino ad attraversare il torrente Noce, si entra nel paese di Mezzolombardo, dove ha sede l’Agricola Foradori.
VECCHIE PERGOLE E NUOVE GENERAZIONI
Fino al giorno della partenza, di Foradori avevo letto tanto e bevuto poco. Fatta eccezione per una sbandata estiva per il Lezèr, gli altri teroldego mi erano passati tra le mani poche volte. Sempre ineccepibili, tecnicamente perfetti e forse per questo meno inclini a chi come me si lascia affascinare della coinvolgente imprecisione di alcuni vini naturali. Così, quando ci mettiamo in marcia direzione Mezzolombardo, anche perché non so bene cosa aspettarmi, decido di resettare memoria e palato per ricominciare da zero, confidando che vivendo di persona Elisabetta, Emilio, Theo e Myrtha potrò innamorarmi perdutamente dei vini di Foradori.
Quando varchiamo il cancello nel centro del paese sulla sinistra si apre una grande corte dove un ex fienile avvolto dall’edera ospita la cantina, sulla destra i filari ordinati si perdono all’orizzonte fino a una fila di cipressi in lontananza e più avanti un vociare richiama la nostra attenzione. A un grande tavolo di legno sono seduti Emilio, il figlio maggiore di Elisabetta che si occupa di vigne e cantina, Theo, il fratello minore e anima commerciale di Foradori, e la squadra di vendemmiatori intenta a pranzare. “Noi abbiamo cominciato” ci dice Theo salutandoci “ma siete ancora in tempo, qua la pausa pranzo dura un’ora e mezza”. “È così dai tempi di nostro nonno” lo interrompe Emilio “bisognava aspettare che il suo braccio destro Carlo si svegliasse dal riposino per ricominciare a lavorare. È diventata una tradizione”.
Ci uniamo a loro davanti a un piatto caldo e a un bicchiere di vino, ma non riesco a frenare la curiosità impaziente di fare la più scontata delle domande di rito “come sta andando la vendemmia?”. Nel resto d’Italia, tra gelate primaverili e siccità, tra i produttori è diffuso il malcontento, per questo quando Emilio mi confida di essere più che soddisfatto rimango per un attimo interdetto “certo, l’uva non è tantissima, ma quella che abbiamo tirato su per il momento era perfettamente sana, densa di succo e carica di zuccheri: davvero meravigliosa”. Mentre la squadra si alza per tornare al lavoro Emilio mi spiega come funziona da loro la vendemmia “qui durante la raccolta non abbiamo orari, ma lavoriamo per obiettivi: si finisce quando si è tirata su tutta l’uva che ci siamo prefissati di raccogliere la mattina. Non importa che ora sia, a obiettivo raggiunto liberi tutti. Fatta eccezione ovviamente per me e la squadra di cantina, per noi il lavoro comincia per davvero in quel momento”.
Theo ci propone di fare due passi tra le vigne dietro la corte, uno degli appezzamenti storici di teroldego dell’azienda. “Questa è la forma di allevamento tradizionale di questa zona” ci racconta facendosi largo tra le pergole “mia madre ha provato con il guyot diversi anni fa per cercare più concentrazione, ma alla fine il teroldego predilige la pergola. Oggi i filari vengono piantati a distanze molto ridotte, ma come vedete un tempo, quando tutte le aziende erano policolturali, tra i pali si arrivava ad avere anche sette metri di distanza in modo da utilizzare lo spazio per la coltivazione di ortaggi. Non è un caso che mia sorella Myrtha abbia dato il via al suo progetto di orticoltura proprio all’interno di questo vigneto”.
“In ogni vigneto” prosegue Theo “teniamo sempre due filari che non vengono trattati neanche con rame e zolfo come test. Quest’anno le differenze tra le uve del vigneto delle vecchie pergole sono state davvero minime. Qui il terreno è molto sabbioso e questo ci permette di usare viti a piede franco per eventuali rimpiazzi. Siamo a pochi passi dal Noce, l’affluente dell’Adige che disegna la Piana Rotaliana, questa valle fatta ad anfiteatro che per le sue caratteristiche morfologiche è specialmente vocata. Qui infatti arrivano i venti freddi dalle Doline che asciugano e portano le temperature fino a cinque gradi in meno rispetto alle altre valli intorno all’Adige”. Al termine del vigneto facciamo dietrofront per incamminarci nuovamente verso la corte. L’edera incornicia un portone verde accostato, dove una scalinata buia conduce fino alla cantina interrata.
ALLA RICERCA DELLE ANFORE DEL FUTURO
Girato l’angolo dopo l’ultimo gradino, ci si para di fronte una distesa di anfore numerate disposte su più file. Nel 2004 Elisabetta ha portato le prime tinajas in azienda, cambiando di fatto la storia di Foradori e facendola diventare tra le cantine di riferimento per le vinificazioni in anfora nel panorama italiano al fianco di nomi come quello di Josko Gravner. Elisabetta prima ed Emilio poi hanno intessuto un legame speciale con l’argilla, trovandone un materiale alleato, traspirante come il legno e neutro come l’acciaio, dove vengono lavorati teroldego, nosiola e pinot grigio per più di un terzo della produzione aziendale complessiva.
Ogni anfora porta un numero, così come i coperchi in inox appoggiati a terra: la fattura artigianale delle anfore costringe alla produzione di un coperchio ad hoc, realizzati da uno specialista di Salorno,che viene poi fissato con l’uso del mastice. “Queste sono le tinajas spagnole di Juan Padilla, artigiano de La Mancha riconosciuto tra i migliori al mondo” racconta Emilio muovendosi con destrezza in quello che ormai è il suo habitat naturale “Al momento siamo in crisi perché l’anno scorso è andato in pensione senza voler tramandare il mestiere a nessuno. Ci aveva detto che avrebbe insegnato il mestiere al figlio, che però è un camionista felice del suo lavoro”. Ogni anno da Foradori di norma si cambiano tra le cinque e le sei anfore e tutte le nuove prove non stanno dando i risultati sperati “Abbiamo fatto diversi test, ma porosità e materia prima sono troppo diverse. Temiamo che le tinajas di Padilla siano inarrivabili, ma non demordiamo: al momento stiamo facendo scouting in Portogallo”.
Nel frattempo Emilio prende e distribuisce i calici facendo segno di seguirlo “vi faccio assaggiare qualcosa che non avete mai bevuto”. Foradori, ci svela, è anche sede di continue sperimentazioni. “Siamo dell’idea che sia necessario fare ricerca costantemente. Ora stiamo lavorando con dello chardonnay di un vigneto che abbiamo acquistato sul Monte Baldo e con del manzoni bianco vinificato a grappolo intero”. Dalle sperimentazioni di Emilio e Theo è nato anche il Lezer, il primo vino interamente legato alla “nuova generazione” di Foradori che ha avuto un successo stratosferico. “È da tanto che ragioniamo su un Lezèr bianco, ma non abbiamo abbastanza uva” confessa Emilio.
Intanto anche Theo ci ha raggiunto “gli hai fatto assaggiare i vini senza solforosa? Ogni anno produciamo una piccola partita dei nostri vini classici senza solfiti aggiunti. Si riconoscono in etichetta dai pallini colorati all’interno del melograno, il simbolo di Foradori”. Theo, l’anima visionaria dei due, non nasconde l’entusiasmo, Emilio, il più pragmatico, le perplessità. “Nei nostri vini si trovano già pochissimi solfiti, raramente si superano i 30 mg/L. Sono fondamentali nel trasporto, non possiamo permetterci di non sapere come i nostri vini si esprimeranno in Giappone, negli Stati Uniti o in Australia. Per quello la linea senza solfiti viene venduta esclusivamente in azienda”. Proprio mentre penso che è anche in questa piccola divergenza di visioni che si nasconde il potenziale di Foradori, una voce rimbomba in cantina “Benvenuti ragazzi!” Ci giriamo e, con la stessa destrezza di Emilio, Elisabetta ci viene incontro facendo lo slalom tra le file di anfore.
DAL TEROLDEGO AL FORMAGGIO: L’AMORE TARDIVO DI ELISABETTA
Oggi Foradori conta venticinque dipendenti a tempo pieno. A fare effetto è come un’azienda famigliare possa allo stesso tempo essere strutturata, lavorando con metodo e per obiettivi e funzionando come un ingranaggio perfetto grazie al continuo confronto e a un’attenta divisione dei lavori. L’ingresso dei tre figli di Elisabetta in Foradori ha segnato una svolta decisiva. Con Emilio che si divide tra vigna e cantina, Theo che sviluppa la parte commerciale e il nuovo progetto ai piedi del Monte Baldo e Myrtha che si fa carico della produzione di ortaggi, Elisabetta ha preso in mano la diversificazione agricola dell’azienda, in particolare con lo sviluppo di un piccolo allevamento di vacche di razza grigio alpine per la produzione casearia. “Mettermi al di fuori della quotidianità della cantina” ci confida “mi ha fatto guadagnare una lucidità che prima non avevo, specialmente quando vanno prese decisioni o fatte delle scelte”.
“Il formaggio è il mio amore tardivo” ci racconta entusiasta Elisabetta “abbiamo una stalla a Fontanasanta con sette capi, che al momento sono in alpeggio. Ho fatto un corso da Alexandre Agethle, il casaro di Englhorn, un caseificio della Val Venosta nato da un crowdfunding”.
La produzione di Foradori attualmente si concentra su 3-4 formaggi a lungo affinamento con i quali stanno testando il mercato locale e definendo i piani di produzione e di vendita. “Più mi cimento nell’arte casearia” prosegue Elisabetta “più mi rendo conto del parallelismo tra vino naturale e formaggi artigianali. In entrambi i campi sono due gli aspetti che fanno la differenza: la materia prima e la naturalità del processo. Come nel vino portiamo avanti fermentazioni spontanee, per fare il formaggio al posto di usare i fermenti, facciamo degli innesti di latte crudo. Si tratta di una sorta di pied de cuve: la sera precedente alla lavorazione si scalda parte del latte crudo a 43°C per 4-5 ore. Durante la notte comincia una fermentazione spontanea e alla mattina si procede con l’innesto”. Allo stesso tempo però Elisabetta sottolinea come le rese casearie siano inferiori al 10%, la deperibilità del prodotto lo rendano più difficile da vendere e il pH molto più alto conceda molto meno margine di errore “bisogna essere metà scienziati e metà artigiani”.
L’entusiasmo caseario ci conduce fino all’imbrunire ed Elisabetta ci invita a cena nella sua casa tra i boschi altoatesini. Finalmente ci raggiunge anche Myrtha con il piccolo Pacifico. L’organizzazione e la ripartizione dei ruoli che contraddistingue Foradori dal punto di vista aziendale, si ritrova anche durante la cena. Elisabetta si divide tra fare la padrona di casa e la nonna mentre affetta i suoi formaggi, Myrtha ci racconta con entusiasmo dell’evoluzione del suo progetto di orticoltura mentre ci serve le sue verdure e Theo fa avanti e indietro dalla cantina stappando bottiglie una dopo l’altra.
SCRIVERE LE PRIME PAGINE DEL FUTURO DI UNA VALLE
La mattina successiva l’appuntamento è fissato per le otto: sarà Theo a farci da Cicerone per mostrarci la sede dei nuovi progetti di Foradori. Ci spostiamo verso l’altopiano di Brentonico, ai piedi del Monte Baldo, fino a ritrovarci all’interno di un’oasi verde e rigogliosa, dove si alternano vigneti, pascoli, orti e frutteti.
“Abbiamo comprato diversi terreni” ci spiega Theo “c’è un vigneto di chardonnay che abbiamo recuperato e altri due ettari e mezzo che al momento sono piantati a selvatico. Nei prossimi anni innesteremo sulle piante schiava, nosiola e altre varietà a bacca bianca. In sottozona Scale invece altri terreni sono dedicati ad alberi frutto e agli orti di Myrtha. I local chiamano questa zona Palestina perché è la più calda di tutta la valle. C’è anche una piccola casa, magari un giorno diventerà la casa di Myrtha e Pacifico”.
Nonostante la naturale vocazione agricola della valle, negli ultimi anni quest’area è stata soggetta a un progressivo abbandono delle terre, causato principalmente dalla mancanza del collegamento con l’acquedotto. Per questo il nuovo progetto di Foradori non si limita all’impianto di nuovi vigneti, ma punta a una vera e propria riconversione della valle. “L’idea è di trovare un modo perché i giovani siano incentivati a tornare ad abitare qui. È già stata organizzata una raccolta firme per la costruzione dell’acquedotto e siamo in attesa dei prossimi step burocratici. Ci muoviamo in modo che i viticoltori della zona possano contare sul nostro appoggio per un approccio alternativo alla vinificazione piuttosto che vendere le uve alle cantine sociali. L’obiettivo finale è proprio la creazione di un polo agricolo misto”.
Avrei considerato le parole di Theo a dir poco utopistiche, ma i due giorni vissuti in immersione in una realtà come quella di Foradori le fanno semplicemente risuonare come lungimiranti. La cura quasi maniacale di ogni dettaglio che è emersa in ogni momento passato a stretto contatto con Elisabetta, Emilio, Theo e Myrtha, rende Foradori un luogo dove le idee si coltivano, crescono e con pazienza e dedizione vengono portate a compimento. Poche altre volte mi è successo di vedere un cambio generazionale capace di portare innovazione e nuova linfa vitale, senza snaturare personalità e filosofia precedenti. E questo è merito tanto dei tre fratelli Zierock, quanto di Elisabetta, capace di fare un passo indietro, restando insostituibile punto di riferimento esperienziale di Foradori. È per questo che la sera a casa, davanti a una bottiglia di Sgarzon, il “tecnicamente perfetto” è solo il riconoscimento di un valore aggiunto del vino. E a fare breccia nel mio cuore di appassionato forse non è solo il vino in sé, ma la storia di cui si fa messaggero.