Quanto è importante il passaggio del testimone nell’evoluzione di un’azienda agricola? Per saperlo non potevamo che andare a trovare Florio Guerrini, erede degli insegnamenti di Manfredi Martini e depositario di un sapere pratico tramandato per via orale.
Risalendo la collina di Montalcino dal versante nord-ovest lungo la Strada Comunale del Canalicchio, una piccola via sterrata sulla destra conduce a un cancello di ferro battuto. Vi trovate di fronte alle porte del Paradiso di Manfredi: vigneto, oliveto, orto, casa e cantina della famiglia Guerrini.
VARCARE LE PORTE DEL PARADISO
Senza che neanche ce ne accorgiamo, il tempo consuma i ricordi, perfino quelli di cui ci si prende più cura. Si confondono i contorni, sbiadiscono i dettagli e a volte si finisce addirittura per crearne di nuovi, inediti, mai avvenuti. Solo alcuni sfuggono a questo destino: sono quelli che sopravvivono non per memoria, ma per la carica emotiva che portano con sé. E allora può succedere che le emozioni sappiano riportarli in superfice e farceli apparire, ancora per qualche istante, intatti come nel momento in cui li abbiamo vissuti.
Così di quel pomeriggio di gennaio di quattro anni fa, o almeno così credo, trascorso al tavolo del salotto di casa Guerrini, porto con me un ricordo tanto vivo quanto probabilmente distorto dal tempo. Ma di una cosa sono certo: quel giorno ha profondamente influenzato il mio modo di intendere il vino e, forse, anche un po’ la vita. Tornare a varcare le porte del Paradiso (di Manfredi sì, ma anche di ogni appassionato di Triple “A”) significa dare nuova linfa alle vecchie emozioni e tesserne di nuove, e la cosa mi suscita un moto di sensazioni contrastanti: entusiasmo e agitazione, smania ed euforia.
Quando arriviamo di fronte al cancello di ferro battuto non ho dubbi “Non è qui! Non c’era nessun cancello”. Qualche secondo dopo invece il cancello comincia ad aprirsi su un piccolo vialetto sterrato che si fa largo tra vigneti, olivi e piante officinali a bordo strada. In fondo, dalla porta di casa si fanno avanti Florio e sua figlia Gioia. “Finalmente ce l’abbiamo fatta” esclama Gioia gettandoci le braccia al collo “saranno due anni che proviamo a organizzare questa visita”. Anche Florio ci saluta, col garbo, l’eleganza e la riservatezza che tanto gli si confanno. “Ma quando siam venuti l’ultima volta il cancello c’era?” chiedo. “Mai l’avrei voluto mettere!” replica tra il risentito e il rassegnato “I caprioli e i cinghiali ci han costretto a recintare le vigne e di conseguenza a montare anche il cancello” Ricordavo bene, le emozioni cominciano a fare il loro lavoro.




Florio forse non è il più classico dei vignaioli. Non è cresciuto tra i filari e a farlo diventare figlio d’arte ci ha pensato il destino o, come usa dire lui, a fare il vino ha imparato per dovere. Ex professore di matematica alle scuole medie, Florio lascia la cattedra per dedicarsi all’agricoltura nel momento in cui suo suocero Manfredi Martini si ammala e non riesce più a portare avanti i lavori di campagna. Così Florio si mette al suo fianco e ne apprende conoscenze e sapere pratico, che con incredibile sensibilità, consapevolezza e senso di responsabilità mette al servizio del Paradiso. Gli insegnamenti e l’esperienza di Manfredi sono tramandati attraverso la semplice trasmissione verbale che, come ci tiene a puntualizzare Florio, “si rivela molto più rispondente alle esigenze di un territorio di quanto si possa trovare scritto sui libri”. E su quegli insegnamenti e sull’esperienza si fonda ancora oggi il modo in cui la famiglia Guerrini lavora, custodisce e vive Il Paradiso di Manfredi.
“Cosa volete che facciamo?” chiede Florio “Un giro in vigna” rispondiamo quasi in coro. “Che vigna sia” sentenzia Florio. Al che incrocia le mani dietro la schiena e si incammina lungo il vialetto sterrato. Noi facciamo dietrofront e gli andiamo dietro.
IL PARADISO SECONDO FLORIO
“Faccio sempre vedere questo punto perché qua ci sono le vigne più antiche ed è interessante guardare come cambia il colore della terra a seconda del sottosuolo” comincia mentre ci infiliamo tra i filari. Stare al passo con Florio non è semplice, non tanto per la velocità di marcia, ma per la più accurata conoscenza e coscienza di tutto ciò che gli sta intorno. Mentre si muove in perfetta simbiosi con la natura, ti guarda fisso negli occhi e ti trasporta con sé: ogni sua parola è soppesata e dispensa sapere disinteressatamente, con la sola volontà di condividere e raccontare non sé stesso, ma il luogo di cui si è fatto custode.
E così al fianco di Florio ci si sente bambini e torniamo a meravigliarci per le cose più piccole. Il modo in cui si capisce se un fiore è stato fecondato, il soffione del tarassaco “che non è il fiore, ma la strategia attraverso il quale disperde i semi”, la giusta maniera di raccogliere le ciliegie per assicurarsi che l’albero rifruttifichi l’anno successivo, l’importanza della convivenza delle specie vegetali e animali per il mantenimento della fertilità del suolo e per ottenere famiglie di lieviti più forti.
Come spesso accade in questi casi, sapere, conoscenza e cultura di Florio si rivelano essere direttamente proporzionali alla sua umiltà. Ogni sua affermazione è accompagnata da un “secondo me”, “per me è così”, “io credo questo” o “questa è la mia idea”. Florio nonostante sia in procinto di iniziare la sua cinquantesima vendemmia si offre di spiegare le sue convinzioni, senza mai darle per certezze.




Mentre ci parla, le sue braccia corrono tra le fronde e le mani si muovono a memoria ripiegando tralci e riportando cime tra le file. “Noi non sfoltiamo la vegetazione perché credo che la spinta verso l’alto riproduca una spinta verso il basso delle radici, aiutando l’apparato radicale a penetrare in profondità. Almeno, io ci credo che sia così”. Profondità nelle quali si cela il secondo patrimonio inestimabile del Paradiso dopo l’eredità degli insegnamenti di Manfredi: un terreno formato dalla stratificazione di rocce pietrificate in venticinque milioni di anni di compressione e sedimenti marini di nove milioni di anni fa intrisi di sali minerali e fossili. “Questo tipo di suolo restituisce ai nostri vini quella mineralità che li contraddistingue. Spesso ci capita di ritrovare fossili in superficie, è come se avessero un’energia che tende a farli risalire”spiega Florio, “sono la memoria del tempo” gli fa eco Gioia. L’emozione che restituisce un sorso dei vini del Paradiso di Manfredi non riportano in superfice solo i ricordi, ma fanno affiorare quelli di epoche geologiche dimenticate.
Ci chiniamo su un lembo di terra bianca e asciutta e ci mettiamo a cercare tracce di questi fossili. Chiedo a Florio e Gioia se i mesi precedenti senza pioggia abbiano portato sofferenza alle viti. Florio non fa che ripetermi che è proprio la profondità radicale delle sue viti che permette loro di non andare in stress idrico “per questo motivo io non parlo mai di annate più o meno siccitose, ma preferisco valutarle seconda la luminosità. È dalla quantità di luce che dipende l’andamento di un’annata. Io credo sia così”. “Trovata!” esclama Gioia euforica, fa un passo avanti e ci mostra tra le mani “una madreperla di sette, otto milioni di anni fa”.
Proseguiamo verso la cantina di vinificazione e ci si parano davanti una schiera di tini in cemento “Quarant’anni fa me li volevano far cambiare con l’acciaio” dice Florio indicandoli “io però conoscevo un modo di dire che sostiene che i buoni profumi nascono da ottime fermentazioni. Noi avevamo sempre avuto profumi fantastici... quindi perché mai avrei dovuto cambiare!? Guarda caso oggi in molti stanno tornando al cemento”. “Per questioni di inerzia termica?” chiedo. “Non saprei, noi la temperatura la controlliamo a mano” replica Florio appoggiando il palmo contro la vasca “se serve si fa un rimontaggio per far tornare la temperatura omogenea. Le nostre macerazioni di solito durano tra i diciotto e i ventidue giorni, ma non ci sono regole: è il vino stesso a dirci quando dobbiamo svinare. Arriva un profumo preciso e capisco che è tempo toglierlo dalle bucce. Almeno, per me funziona così”.
Nella cantina di affinamento invece trovano spazio solo botti grandi di Garbellotto in rovere di Slavonia, legno tradizionalmente usato già dai tempi di Manfredi.
“La chiave del nostro modo di fare vino è la semplicità e la chiarezza” spiega Gioia e Florio subito precisa “Le cose continuano a essere fatte come sono sempre state fatte. Il Brunello sta in legno trentasei mesi, la Riserva quarantotto, e una botte all’anno viene declassata a Rosso in modo da avere qualche bottiglia pronta prima e a prezzi più popolari. Il nostro Rosso non è nient’altro che un Brunello giovane”. Gioia poi ci mostra una piccola maschera appoggiato al muro che nasconde il buco attraverso il quale viene fatto passare un tubo d’acciaio per far raggiungere al vino la stanza dell’imbottigliamento, che è tuttora svolto interamente a mano.
È proprio lì che ci conducono, al di là del muro, dove su una parte è stata mantenuta la pietra viva proprio per mostrare l’alternanza di rocce e strati sedimentari originati dalla compressione delle sabbie marine, da cui fa anche capolino una piccola radice. “La mineralità dei nostri vini” spiega Florio “si esprime grazie alla presenza di sali che virano verso il dolce e che combattono l’aggressività dei tannini regalando più spessore alla beva. Altri sali sono amari, noi siamo semplicemente stati fortunati”. Nel frattempo per pranzo ci ha raggiunto anche Silvia, la figlia maggiore di Florio. Gioia rientra a mettere su l’acqua per i pici fatti in casa e Florio ci invita ad accomodarci in salotto portando con sé una bottiglia di Rosso 2020, i Brunelli 2015 e 2010 e anche una bottiglia di una vecchia annata del loro introvabile bianco, il vino per gli amici.



I RICORDI, LE EMOZIONI
Fare degustazione a casa Guerrini ha una precisa morfologia rituale: Florio prende e controlla uno ad uno i bicchieri dall’armadio, ne posa cinque davanti a ogni commensale e poi con delicatezza comincia ad aprire le bottiglie. Estratto il tappo, ne esamina con cura aspetto e profumi. “Noi al nostro fornitore il prezzo del sughero non glielo chiediamo neanche” ci spiega Florio porgendomene uno “Ci interessa solo che sia il migliore in assoluto. Del resto, parliamo di vini che possono tranquillamente tirare avanti cinquant’anni e oltre. I profumi di orzo tostato e di affumicato sono sinonimi di buona conservazione”. Mi basta avvicinarlo al naso per cadere in un effetto madeleine. La mia mente torna a quattro anni fa, seduto proprio in quel salotto, con Florio al mio fianco intento a spiegarmi la regola delle tre P: “tre anni perché sia Pronto, dieci perché sia Preciso e cinquanta per la Perfezione”.
Mentre si assaggia non ci sono tempi o ritmi prestabiliti, ognuno compie il suo percorso personale tra i calici, ritornando su ciascuno più e più volte a stupirsi della velocità con cui cambiano, evolvono, si trasformano. “A volte lascio la bottiglia aperta anche per dieci giorni e il vino continua a virare su profumi sempre nuovi, senza mai perdere vitalità”. Florio non spiega, non conduce la degustazione, ma vi partecipa attivamente, anche lui pronto a stupirsi e ad emozionarsi davanti al bicchiere. Se da un lato i vini sono protagonisti assoluti, dall’altro si mettono al servizio della convivialità e continuiamo a muoverci su questa sottile linea di confine tra momenti di completa immersione e intimità col vino ed altri di condivisione, scambio reciproco e confronto. E non sempre ci si trova tutti d’accordo, ma è anche questo il bello perché come ricorda Silvia il gusto è materia di negoziazione “tra percezione, linguaggio e capacità di associarli”. Poi arrivano i pici nei piatti e allora i vini diventano anche compagni della tavola.




Puntuale come sempre, è tempo della domanda di rito e chiedo a Florio se ha ancora qualche ricordo del primo incontro con le Triple “A”. Florio inizialmente vacilla “sai, è che ormai quello che mi sembra sia successo cinque anni fa scopro che risale a quindici anni prima, e quando penso ne siano passati quindici in realtà son cinquanta”. Poi però comincia a riaffiorargli alla memoria una scena di nonna Fortunata, la moglie di Manfredi, che con un boccale di vino in mano guardava ferma imperterrita Luca. “Potrei ricordare male, ma mi pare che Luca rimase impressionato da Fortunata che alla sua età ancora lavorava nelle vigne e che parlava con ogni singola pianta. E noi invece rimanemmo contenti di aver finalmente trovato un commerciante che parlava la stessa lingua di noi vignaioli”.
Sull’onda dei ricordi gli occhi di Silvia e Gioia si fanno lucidi e tornano a pensare ai nonni e alla mamma che oggi non ci sono più: a Manfredi, a Fortunata e a Rosella, protagonisti della storia di questo fazzoletto di terra che hanno amato, rispettato, vissuto, custodito e accompagnato. Anche Florio si lascia trasportare dal momento e racconta con dovizia di particolari, complice l’emozione, del suo primissimo incontro con Rosella, quando erano ancora bambini “ero con un mio amico a giocare in un pagliaio finché spunta questa bambina ben più piccola di noi con due trecce biondissime che ci rimprovera dicendo -questo non si fa perché è pericoloso-. Al che noi smettemmo, ma subito pensai -chissà chi se la sposa-. Ironia della sorte a sposarmela fui proprio io, quando avevo 27 anni e lei 23. Ma sapete una cosa? Lo rifarei subito”! Silvia e Gioia lo guardano commosse e lui rivolge alle figlie un sorriso che non si preoccupa di nascondere un velo di malinconia. Oltre alla dolcezza di un padre in quello sguardo intravedo la comprensione che presto sarà il momento di lasciare che siano Gioia e Silvia a scrivere nuove pagine di questa storia e la consapevolezza che i suoi insegnamenti, come lo sono stati quelli di Manfredi per lui, sono la sola vera chiave d’accesso al Paradiso.
