Quali sono i rischi e le incognite di essere tra i primi a scommettere sul naturale in un territorio fortemente industrializzato? Per scoprirlo siamo andati a trovare Alice e Olivier De Moor.
Al numero 17 di Rue de Ferrand, a Courgis, un grande edificio coperto di edera rossa presta il fianco a un cancello celeste. Poco più avanti, dall’altro lato della strada, una piccola porta bianca nasconde l’accesso alla cantina sotterranea dei De Moor.



DA BEL-AIR A ROSETTE: DUE PASSI TRA I FILARI DI ALICE E OLIVIER
Quello del vignaiolo è un lavoro fatto di scelte. Ce ne sono di due tipi: le scelte ordinarie, quelle da prendere quotidianamente in vigna e in cantina, e le scelte di fondamento, che invece hanno a che fare con gli ideali e la filosofia che ispirano e indirizzano il lavoro agricolo e produttivo. Sono quest’ultime a guidare le prime e a dare identità a un’azienda vitivinicola.
Nel caso dei De Moor, la scelta di fondamento è quella dell’agricoltura naturale. Ma se questo vale indistintamente per tutti i produttori Triple “A”, ciò che distingue Alice e Olivier è aver intrapreso questo percorso da vere e proprie mosche bianche, in un territorio dove sarebbe stato molto più semplice e sicuro continuare sulla strada già battuta, quella della chimica di sintesi in vigna e dell’enologia moderna in cantina. Andarli a trovare a quindici anni di distanza ci darà la possibilità di raccogliere la testimonianza di cosa significa nuotare controcorrente nel breve e nel lungo periodo.
Quando imbocchiamo Rue de Ferrand, in lontananza dal cancello celeste si fanno avanti le sagome alte e filiformi di Olivier e Alice. Lei a braccia incrociate si stringe in una sciarpa azzurra e lui ci saluta alzando la mano con un sorriso che mette in mostra le sue gote rosse. “Bienvenue à Courgis” ci accolgono all’unisono. Il sole di novembre non promette ancora tante ore di luce e così Olivier ci avverte che se vogliamo fare un giro tra le vigne il momento giusto è questo. Rimontiamo in auto e ci mettiamo in marcia.

La prima tappa è il vigneto di Bel-Air, dove le viti di chardonnay superano i trent’anni di età. I filari sembrano dipinti dalle prime affascinanti tinte autunnali, a cui sia le parole che le fotografie faticano a rendere giustizia. “Qui il sottosuolo è composto da rocce sedimentarie” comincia Olivier “prevalentemente marne grigie che risalgono al Kimmeridgien, l’epoca più recente del Giurassico, che si alternano a grandi banchi di calcare bianco”. “L’origine marina dei sedimenti” gli fa eco Alice “è garantita dalla presenza di tantissime Oyster virgula, fossili di ostriche tipiche di questi territori. La combinazione di tutti questi elementi si riflette sullo chardonnay in termini di eleganza, purezza e mineralità”.

“Molto lo si deve anche alle micorrize” puntualizza Olivier “si tratta di funghi che stabiliscono relazioni simbiotiche con le radici delle viti comportando, oltre a un aumento della biodiversità microbica del suolo, benefici alle piante in termini di assorbimento di nutrienti”.
Poi si china per mostrarci, tra i caillou bianchi caratteristici di Bel-Air, la ricchezza di sostanza organica sulla superficie del suolo. “Tra i filari seminiamo erba medica, leguminose e graminacee. Attraverso il sovescio assicuriamo al suolo una buona capacità di traspirazione, riducendo la necessità di lavorazioni superficiali”.