Cotar, l'acidità del Carso e la gentilezza selvatica

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Cotar, l'acidità del Carso e la gentilezza selvatica

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Fino a che punto la natura di un territorio e il carattere dei suoi vini si riflettono nell’indole di un produttore? Per trovare una risposta siamo andati nel Carso sloveno da Branko e Vasja Cotar.

Costeggiando il Golfo di Trieste in direzione della città, una ripida strada provinciale all’altezza di Aurisina conduce dapprima a valicare il confine con la Slovenia, in seguito ad attraversare il piccolo borgo di Gorjansko, fino ad incontrare una piccola casa in pietra con porte e finestre azzurre. Vi trovate di fronte alla cantina della famiglia Cotar.

vina cotar

TERRA DI ROCCIA E DI DOLINE

Il primo incontro con i vini di Cotar, qualunque siano i vostri precedenti con il mondo del vino, è destinato a lasciare il segno. I grandi orange wine carsolini, i rossi che dopo anni di affinamento ancora conservano acidità taglienti, le bollicine carnose e materiche. Se non siete abituati al genere difficilmente sarà amore a prima vista, eppure questi vini sono capaci, come pochi altri, di instillare nell’anima di chi li incontra una piccola fiammella di curiosità. Da lì in poi è solo questione di tempo perché divampi il fuoco della passione. E allora il Carso diventerà tappa ambita per chi viaggia alla ricerca del sapore, e la cantina di Branko e Vasja Cotar una sosta obbligata lungo il tragitto.

Sorpassando il confine il Carso triestino diventa Kras e la lingua dall’italiano si fa sloveno. A garantire continuità allo sguardo è il paesaggio, sia quello emerso dei piccoli borghi rurali, dei campi coltivati e dei vigneti a bordo strada che quello sotterraneo, fatto di roccia calcarea e terra rossa. Ad accoglierci davanti alla cantina c’è solo il piccolo Don, un bastardino che ci starà dietro per tutta la giornata.

Dal cancello poco dopo fa capolino Branko, ha il sorriso gentile, i capelli lunghi legati e un grande paio di baffi bianchi, il tempo di salutarsi e subito ci fa cenno di seguirlo. A duecento metri e poco più si trova il vigneto più vicino, un ettaro e due coltivato a vitovska, al fianco del quale una fresasassi sta lavorando alla preparazione del terreno per un nuovo impianto, sminuzzando dietro di sé pietre e rocce. “Questa macchina macina tutto ciò che trova fino a trenta centimetri di profondità” spiega Branko “Un tempo per rendere questi terreni duri e rocciosi coltivabili si trasportava la terra rossa tipica delle doline, le famose depressioni carsiche. Solo qui da Cotar negli ultimi trent’anni abbiamo riportato l’equivalente di dodicimila camion di terra, oggi invece non si può più fare e quindi è necessario far venire la fresasassi”.

Dalla strada delimitata dal vigneto di vitovska a sinistra e dal campo in preparazione a destra Vasja, il figlio di Branko, fa il suo ingresso trionfale a bordo di un trattore, un cenno di saluto con la mano e subito sterza a ricalcare il percorso già battuto dalla fresasassi livellando il terreno. “Quando pianterete le barbatelle?” chiedo a Branko. “Non prima di due anni” mi risponde “nel frattempo ci metteremo rape per far sviluppare humus e rendere più fertile la terra”.

Mentre ci incamminiamo nuovamente verso la cantina Branko riceve una telefonata. Nonostante lo sloveno, il tono della voce che si fa improvvisamente brusco e serioso non fa presagire nulla di buono. Branko riaggancia e sentenzia “Catastrofe!”. La fresasassi ha accidentalmente tranciato i cavi interrati della fibra ottica che garantiscono la connessione a internet a tutta la zona.

Lungo il ritorno Branko comincia a raccontare la storia di Cotar interrompendosi di tanto in tanto per raccogliere, con l’istinto da custode del territorio, i rifiuti che incontra a bordo strada: una vecchia lattina, una bottiglietta di plastica accartocciata e poi ancora un’altra lattina di birra. “Qui siamo a duecento metri sul livello dal mare, che si trova a cinque chilometri in linea d’aria” dice indicando l’orizzonte dal quale siamo venuti “Da lì soffia il Mornik, un vento caldo, che si incontra con la Bora proveniente dalle montagne alle nostre spalle. Questo oltre a garantire costante ventilazione e la giusta umidità, permette anche sbalzi termici positivi per le piante e per la maturazione dei grappoli. Tutto è cominciato con cinquecento viti e l’obiettivo di produrre il vino per il nostro ristorante, poi la cosa ci è sfuggita di mano e oggi abbiamo otto ettari e mezzo suddivisi su diciotto appezzamenti. Abbiamo deciso che una volta arrivati a dieci ci fermeremo”.

L'IDENTITÀ DEL CARSO

Varcare la piccola porticina blu in legno della casa dà quasi la sensazione di introdursi in un mondo fantastico parallelo, e pochi passi dopo scopriamo che l’immaginazione non è così distante dalla realtà. Una piccola scala in pietra scende fino all’entrata di una cantina interamente scavata nella roccia che si estende su più piani. Perdere l’orientamento rispetto all’ambiente esterno è un attimo. Volte di mattoni rossi conducono in ordine sparso all’archivio storico, alla sala di maturazione dei vini in bottiglia e alla camera di stagionatura dei salami, fino ad arrivare a un salone che ospita barrique e botti grandi disposte su più file. Se lo non si notasse semplicemente osservandole, ce ne si accorgerebbe assaggiando i vini, ma Branko ci tiene a ribadirlo “qua di legno nuovo non ce n’è neanche l’ombra. Le botti piccole sono di rovere di Slavonia, mentre le grandi provengono da rovere locale o di Allier. Il rovere sloveno è più duro e più poroso rispetto a quello di Slavonia, per questo lo impieghiamo solo nelle botti di maggior dimensione”. Più avanti sopra a dei bancali troneggiano diverse damigiane: sono le sperimentazioni di Vasja, dopo il passaggio di testimone del padre, è lui ad occuparsi interamente delle vinificazioni.

A un primo sguardo la pietra viva e l’aria antica che si respira potrebbero far pensare a una cantina costruita secoli fa, ma la struttura, ci svela Branko, è stata realizzata e ampliata nel corso degli anni a iniziare da metà anni ‘70 e terminata nel 2002. A stupirci è l’efficienza logistica: per evitare l’uso delle pompe, le uve, dopo la pigiatura, vengono accompagnate dal punto di raccolta al pian terreno alle botti di fermentazione per caduta, sfruttando la forza di gravità. A un montacarichi è invece affidato il compito di riportare le botti in superficie, dove si trovano le poche vasche d’acciaio necessarie per assemblare e far integrare le varie masse prima dell’imbottigliamento.


Inizialmente non avrei mai pensato di diventare un vignaiolo racconta Branko mentre risaliamo le scale “io e mia moglie Branka abbiamo avuto un passato nella ristorazione, rispettivamente in sala e in cucina, e nel ‘74 di ritorno dall’Istria abbiamo aperto qui il nostro primo ristorante. Nel Carso in passato ogni famiglia aveva almeno un paio di filari di vigna nell’orto quindi, anche se sono nipote di agricoltori solo per metà, a dieci anni già sapevo fare il vino. Dal vino sfuso per il ristorante siamo passati ai primi imbottigliamenti e pian piano mi sono ritrovato ad essere sempre meno sommelier e più produttore”.

Branko ci invita a sederci al grande tavolo in legno della sala degustazione, mentre sul banco in marmo della cucina affetta i salumi di produzione della nonna di Andrea, la moglie di Vasja, e un formaggio a latte crudo di montagna; poi mette in tavola una forma di pane preparato da Branka per il nostro arrivo e ci informa ridendo “Questo pane non lo taglio, lo spezziamo con le mani, facciamo come Dio”.

Nei calici scorrono nell’ordine Vitovska, Malvazija istriana, Sauvignon e Gorjansko, un blend delle tre varietà prodotto in pochissimi esemplari “Per noi carsolini” ci spiega “le macerazioni sui bianchi raramente durano più di una settimana, infatti gran parte del profilo tannico “vegetale” è dovuto all’uso dei raspi. Facciamo il vino come lo facevamo negli anni ‘80 e l’impronta del territorio è sempre protagonista. La terra rossa conferisce al un'acidità “ferrosa” identitaria, mentre il calcare garantisce la giusta componente salina”. Il risultato sono vini di grande longevità e materia. Branko ce ne dà la prova con un sauvignon del 2007 prima mostrandoci il deposito sul fondo “il sedimento è garanzia di vitalità, di un vino integro” poi aprendolo con estrema delicatezza, versandosene un bicchiere, portandolo alle labbra fino a sussurrare “Non è buono. È buonissimo! Fidatevi di me, il tempo fa tutto e più vecchio è meglio è. Il telefono di Branko squilla di nuovo. Questa volta nessuna catastrofe anzi, Branka si è messa ai fornelli per noi ed è pronto il pranzo.

LA DOPPIA ANIMA DEI VINI DI COTAR

Tempo di finire il calice davanti a casa e Branko è già di ritorno con un cestino di vimini in mano e dentro una pentola di minestra bollente. I timidi raggi del sole di febbraio ci convincono a pranzare all’aria aperta e davanti al piatto caldo Branko decide che è tempo di passare al Terrano “Col tempo ho imparato che quando si va a vendere il Terrano” ci confida “stare a parlare con il sommelier è inutile. Bisogna andare dritti in cucina dallo chef e sfidarlo a fare un piatto su misura. L'acidità effetto-lama lo rende un vino gastronomicamente non facile, ma al tempo stesso molto versatile, leggero, con un basso grado alcolico e un alto potere sgrassante”.

Il riscontro come al solito lo si trova nel calice, sia nella versione in purezza del 2018, tutta orientata sulla freschezza, che in assemblaggio con cabernet sauvignon e merlot nel Terra Rossa 1999. Con più di otto anni di affinamento in botte e oltre dieci in bottiglia, il vino non solo è di un’integrità spaziale, ma come ai tratti rustico selvatici contrappone grazia e finezza, ai lati di maturità ancora associa un’acidità senza precedenti. Evoluzione e freschezza in un connubio perfetto al servizio della beva.

Nel frattempo ci ha raggiunto anche Vasja, sarà lui ad accompagnarci nei vigneti finché la luce ancora concede il tempo di fare qualche scatto. Saliamo in macchina e il piccolo Don ci sfreccia davanti, azzeccando senza esitazione la strada da imboccare ad ogni bivio. Anche se il suo fragile italiano non rende facile la conversazione, Vasja ci racconta di come il vino abbia fatto parte della sua vita sin da bambino, di quanto sia stato naturale per lui il passaggio di testimone da parte di Branko, di come ancora oggi proprio il padre rappresenti per lui fonte d’ispirazione e sostegno. Facciamo qualche passo tra le viti più vecchie di malvasia istriana, Vasja ci mostra la terra smossa, segno del passaggio dei cinghiali, finché dal fondo del filare ci viene incontro con passo d’assoluta eleganza un capriolo. Don impazzisce e gli corre incontro abbaiando. Non ha alcuna possibilità di competere, in meno di un istante il capriolo già è sparito nel bosco. Don torna qualche minuto dopo esausto e con la lingua a penzoloni, ci rimettiamo in auto verso al cantina e offriamo un passaggio anche lui

“Vi do del vino da portare a casa, quale vi è piaciuto di più?” chiede Branko sulla porta. Nella gara della soggettività ha la meglio la Vitovska sulla Malvasia per due a uno. Poco dopo è di ritorno dalla cantina con tre cartoni di vino in mano. Proviamo a dirgli che una bottiglia a testa era più sufficiente. Branko si ferma, si gira e ci guarda con l’espressione perplessa poi la chiude con un “io per meno di un cartone non mi alzo neanche”.

Branko e Vasja con gli sguardi dolci e il fare un po’ burbero accentuato dalla parlata italo-slovena ci riaccompagnano fino alla macchina ed è in quel momento che rivedo la stessa “gentilezza selvatica" che si ritrova nei loro vini.

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