Come si è diffuso nel nostro paese l’uso dell’anfora come contenitore per la vinificazione e l’affinamento? Per scoprire gli esordi di questo materiale nella recente storia del vino italiano siamo andati a trovare Alessandro Sgaravatti, vignaiolo del Castello di Lispida.
A sud ovest della città di Padova, la pianura veneta lascia posto a rilievi collinari di origine vulcanica che prendono il nome di Colli Euganei. Costeggiando il Parco Regionale in direzione Monselice lungo il corso di uno degli affluenti del Brenta, troverete le indicazioni per raggiungere il Castello di Lispida, casa e cantina di Alessandro Sgaravatti, pioniere dell’uso dell’anfora in Italia.
LA SEDE DI UNA RIVOLUZIONE SILENZIOSA
Quando nascevano le Triple “A” il movimento dei vini naturali in Italia stava ancora muovendo i suoi primi passi. Del resto non è un caso se sfogliando il nostro catalogo è frequente imbattersi in vignaioli che hanno scritto pagine importanti della storia del vino di questi ultimi vent’anni. Volendo però intraprendere un viaggio alla scoperta degli albori e dell’evoluzione del movimento in Italia non si potrebbe ché cominciare da Oslavia, sulla linea di confine tra Italia e Slovenia, dove Josko Gravner insieme a un drappello di produttori diede il via a un lavoro di ricerca e sperimentazione destinato a cambiare le sorti del mondo del vino. E tra loro c’era anche Alessandro Sgaravatti, vignaiolo del Castello di Lispida.
Quando svoltiamo verso Monselice sappiamo quindi di stare per varcare le porte di uno dei luoghi dove è stata forgiata l’identità dei primi vini naturali. Lungo lo sterrato che conduce ai cancelli si dispiegano i primi filari a destra e un campo in fiore di asparagi a sinistra. Al fondo una cinta di mura antiche delimitano i confini del Castello di Lispida nella sua imponenza. Ad aspettarci sul cancello troviamo Alessandro “Ben arrivati a Lispida” esordisce “vi stavo aspettando”.
Alessandro non è tipo da stare sotto i riflettori, non veste i panni del vignaiolo superstar e difficilmente vi potrà capitare di incontrarlo a fiere o degustazioni. Anche per questo i suoi vini non sono tra i primi che si incrociano quando si comincia a frequentare la scena del naturale e non sempre il nome di Castello di Lispida viene ricordato tra le sedi di quella rivoluzione silenziosa che ha profondamente trasformato il mondo del vino.
“La mia storia a Lispida” ci racconta Alessandro mentre ci incamminiamo verso i vigneti “comincia nel 1986, quando ero uno studente universitario di medicina. Mi sono innamorato del Castello, mi ci sono trasferito e ho cominciato un’opera di ristrutturazione che continua ancora oggi e che, ormai mi sono arreso all’idea, forse non finirà mai”. In realtà che Alessandro prendesse in mano le redini del Castello era destino. "La proprietà fu acquistata dalla famiglia paterna negli anni ‘20 e poi venduto negli anni ‘60. Ironia della sorte a comprarla fu mio nonno materno: il progetto iniziale consisteva nella realizzazione di campi da golf. I terreni però si rivelarono poco adatti per l’elevata presenza di sassi e così il Castello cominciò a vivere un periodo di abbandono”.
L'opera di ristrutturazione di cui si farà carico Alessandro non riguarda solo gli edifici del Castello, ma coinvolgono l’intera tenuta, proprio a cominciare dai muretti a secco che storicamente terrazzavano la collina. “L’idea era di riportare in auge la tradizione vitivinicola del luogo. Il Castello infatti fu edificato dalla famiglia Corinaldi nella seconda metà dell’Ottocento sui resti di un antico monastero dando vita a una vera e propria tenuta agricola di centottanta ettari che impiegava più di seicento persone. Ci si concentrò su una produzione su larga scala che raggiungeva i 25.000 ettolitri di vino sfuso, che poi viaggiava su rotaie che arrivavano fin qui”. E così il Castello di Lispida ritorna, anche se in dimensioni ben ridotte, alla sua forma originale, trasformando di fatto Alessandro in un vignaiolo.
LA CRICCA DI OSLAVIA
Se chiedete ad Alessandro chi sia il suo maestro in materia di vino non avrà a esitazione a farvi il nome di Josko Gravner. “Ho conosciuto Josko nel ‘92. Nel mondo del vino andava delineandosi una nuova tendenza, un progressivo abbandono di tecniche agricole e di cantina simil industriali e una volontà di sperimentare e ripercorrere alcune vie del passato per tornare a dare vita a un vino che portasse con sé l’identità di un territorio”. Così Alessandro entra a fare parte di quella che chiama “la cricca di Oslavia”: una primitiva forma di associazionismo basata sull’amicizia e su degli intenti comuni formata da sei o sette produttori oltre Josko, tra cui Edi Kante, i fratelli Bensa e Angiolino Maule.
“I primi passi” continua il suo racconto Alessandro “si concentrarono sull’abbandono dei processi di filtrazione e dei contenitori di acciaio per la fermentazione, sostituiti in primo luogo dalle barrique e poi da tini di legno, fino all’esordio della terracotta. Eravamo affascinati dall’idea di riprendere con forza sperimentazioni ispirate al passato e di ritornare a una metodologia arcaica nata nel Caucaso, giunta fino a Roma e in auge fino al III secolo. Il primo tentativo lo fece proprio Josko nel ‘96 in seguito a un’annata disastrosa che gli aveva fatto raccogliere solo pochi quintali di ribolla. Udo Hirsch, un suo amico antropologo che stava in Anatolia gli procurò una piccola anfora che interrammo a Hum, una proprietà di Josko in Slovenia”.
“I primi risultati” ci confessa Alessandro “si rivelarono tutt’altro che soddisfacenti, ma ci servirono per comprendere meglio la natura di questo materiale. Le fonti che avevamo trovato erano poche e riguardavano perlopiù informazioni sui metodi di conservazione piuttosto che di produzione. La mia prima sperimentazione risale all’anno successivo con quattro ettolitri di merlot. Fu un disastro: era necessario prendere le misure della relazione tra le uve di un territorio e questo nuovo antico materiale, specialmente per quanto riguardava i tempi di macerazione.
Poi nel 2003 presentai a Vini Veri un 2001 che si rivelò strepitoso. Non so se fu fortuna o il risultato di una strana alchimia, ma così cominciò una storia che prosegue ancora oggi”.
Nel tempo infatti Alessandro ha intessuto un vero e proprio legame con la terracotta che è diventato il materiale protagonista della cantina. “Le anfore consentono lunghe macerazioni a temperature naturalmente molto basse. Quando termina la fermentazione alcolica le bucce precipitano progressivamente e molto lentamente verso il fondo del contenitore effettuando una sorta di filtrazione naturale del vino. Io ho sviluppato la mia teoria della svinatura all’equinozio di primavera: dopo 6 mesi di macerazione le bucce sono completamente esauste e hanno rilasciato tutto ciò che avevano da dare all’interno del vino”.
Mentre Alessandro ci spiega nel dettaglio la genesi dei suoli dei Colli Euganei, formati da rocce sedimentarie di origine marina e rocce vulcaniche, ci indica i filari di sangiovese. “Domanda da profano” lo interrompo “cosa ci fa il sangiovese in Veneto?” Alessandro ancora una volta ci conferma di essere “enoicamente cresciuto” tra veri e propri mostri sacri del vino “Nel ‘94 ho incontrato Gianfranco Soldera, un’altra figura che ha influenzato il mio percorso. Soldera non solo aveva una profonda conoscenza tecnica, ma portava con sé un bagaglio esperienziale dal valore inestimabile. Quando gli dissi che coltivavo merlot e carbenet, mi rispose secco di tagliarli. Così nel ‘96, resomi anche conto delle differenze climatiche della mia zona rispetto al resto del Veneto, piantai un vigneto sperimentale con lo scopo di vedere che stadio di maturazione raggiungevano diverse varietà rosse. Ho piantato pinot nero, nebbiolo e anche sangiovese, impiegando appunto i cloni di Case Basse. Proprio sul sangiovese l’esperimento ottenne i migliori risultati facendoci scommettere su questa varietà, che oggi coltiviamo insieme a merlot, friulano e ribolla nei nostri quattro ettari e mezzo”.
UNA CANTINA FUORI DAL COMUNE
Scendere le scale della cantina interrata al di sotto del Castello è come fare un tuffo nel passato. Gli oltre duemila metri quadrati di superficie restituiscono un’idea ben precisa dei volumi di produzione della cantina durante la seconda metà dell’800, come testimoniano anche antiche vasche di cemento grandi come intere stanze. “Nonostante la produzione indirizzata alla quantità, piccole partite di vino venivano imbottigliate” racconta Alessandro “Ho trovato bottiglie datate 1867 e ho bevuto con Josko un cabernet degli anni ‘10 che ancora perfettamente in forma. Poi producevano un riesling chiamato Terralba da cui ho ripreso il nome per il mio bianco”.
La prime stanze sono state trasformate in una sorta di museo/archivio storico realizzato negli anni da Alessandro che ha ritrovato e raccolto tutta una serie di attrezzi da lavoro di cui molti antecedenti alla prima guerra mondiale: dai cavatappi, alle spine da botte, dalle forbici da potatura fino ai mezzi per dare il verderame. In una teca Alessandro conserva anche un’anfora antichissima “questa è una classica anfora da trasporto a punta” spiega Alessandro “Venivano impiegate per il trasporto del vino in mare: sul fondo delle barche si depositava uno strato di sabbia così che le anfore potessero essere infilate e restare dritte durante il viaggio”
Guidati da Alessandro ci spostiamo lungo i corridoi bui fino ad arrivare finalmente nella sala delle anfore interrate. “Quando ho detto a mia madre che avrei dovuto fare dei buchi in cantina per i nuovi contenitori, mia madre mi ha risposto che li avrei potuti fare. L’importante era che non li facessi in banca” ci racconta in una risata. Ognuna delle sei anfore è tappata con un pannello di plexiglass che ne lascia intravedere l’interno “l’importante è che non restino mai scolme” ci spiega “quindi ho fatto realizzare dei tappi apposta in modo da rabboccarle quando necessario”.
Attraversiamo ancora la sala dei tonneaux, dove affinano i vini non prodotti in anfora, fino ad arrivare alla sala finale, completamente trasformata in un winebar.
“Dal 2000 abbiamo trasformato Lispida anche in una struttura ricettiva con degli appartamenti” continua Alessandro “Abbiamo piscine riscaldate, incluse due hot tubs all’aperto per il relax in acqua calda, il wine bar è pensato sia per i nostri ospiti sia per chi passa da qui solo per un bicchiere”.
Ai bordi della stanza troneggiano altre due grandi anfore “anche queste ce le ha recuperate Udo ma siccome erano resinate all’interno l’impatto del contenitore sul gusto del vino non mi ha convinto. E così sono diventate anfore da arredamento”.
Dopo aver salutato Alessandro, ripercorrendo lo sterrato in senso opposto, la sensazione non è quella di lasciarsi alle spalle il semplice ritratto di una cantina e del suo vignaiolo, ma la scoperta di uno dei tasselli fondamentali della cronistoria del movimento naturale e della genesi del vino in anfora in Italia. Proprio perché lontano dal centro della scena dei vignaioli che si fanno volto e voce di un movimento, la testimonianza di Alessandro Sgaravatti si fa ancora più importante per ripercorrere il cammino dei pionieri. E forse, a maggior ragione perché difficilmente li troverete scorrendo tra i banchi di uno dei prossimi saloni del vino, i vini del Castello di Lispida conviene andarseli a cercare.