Come l'espressione e i metodi di produzione di un vino possono mutare nel tempo? Per scoprirlo siamo andati a trovare Alessandra e Gianluigi Bera, fratelli vignaioli di Canelli e grandi interpreti del Moscato d’Asti.
Tra le città di Asti e Acqui Terme si estende un territorio che prende il nome di Astesana, zona di confine tra le Langhe e il Monferrato. Imboccando la SP6 da Canelli e risalendo verso nord, perdendosi tra le stradine che attraversano le dolci colline vitate, potreste trovare un grande caseggiato che costeggia la strada e un cartello che porta il nome di “Bera”. Vi trovate di fronte alla cantina che dà vita a uno dei più spettacolari Moscato dell’intero panorama vitivinicolo.
DAL MOSCATO DI UNA VOLTA…
Della mia prima visita dai Bera ho tre ricordi che mi sono rimasti impressi nella memoria: l’ospitalità calda e accogliente che mi fece sentire quasi in famiglia, la bagna càuda da brividi di Alessandra e una verticale che stravolse completamente la mia visione del Moscato d’Asti. Da buon milanese per me il Moscato ha sempre rappresentato il vino da panettone, quella bollicina dolciastra e appiccicosa onnipresente in ogni tavolata natalizia. Se da bambino era l’unica bottiglia che mi era permesso assaggiare, non appena mi sono innamorato del vino ho cominciato quasi a odiarlo, trovando stucchevole già dal secondo sorso ogni etichetta che mi si parava davanti. Poi quel giorno di tre anni fa cambiò tutto: scoprii l’esistenza di un Moscato diverso da tutti gli altri, dalla dolcezza non collosa, dalla beva spiazzante e, cosa che mi rese ancora più incredulo, capace di sfidare il tempo. Da quel giorno il Moscato d’Asti è tornato sulla mia tavola, non solo a Natale, ma anche nelle mattine estive come aperitivo e in tutte le occasioni da vino dolce.
Quando chiamo Alessandra al telefono per dirle che saremmo andati a trovarla di nuovo, conoscendo la sua profonda passione e abilità in cucina, la metto in guardia: “Attenta, ti dovrai giocare il primato di miglior cuoca delle Triple “A” con avversari degni di nota”. Alessandra mi dice che ci aspetta e che non teme confronti.
Pochi giorni dopo ci mettiamo in viaggio da Genova, direzione Canelli, frazione Serramasio. Quando entriamo nel cortile di casa Bera, ad accoglierci troviamo tutta l’esuberanza di Archie, un cucciolo di pastore australiano arrivato in famiglia da pochi anni. Poco dopo ci raggiunge Alessandra a darci il benvenuto con il suo sorriso contagioso e ci invita a salire in casa.
Varcata la porta, subito ci avvolge una scia di profumi provenienti dalla cucina, dove conosciamo Costanza e Luca, giovane dipendente lei e woofer tedesco di passaggio lui, intenti nella preparazione di un budino di mango. “Caffè?” propone Alessandra, mentre armeggia tra pentole e padelle davanti ai fuochi. E caffè sia, seduti intorno al tavolo da pranzo in legno alla luce della grande vetrata che si affaccia sul sorì (dal dialetto piemontese, vigneto esposto a sud).
Fa capolino dalla porta anche Vittorio, padre di Alessandra e Gianluigi, di cui l’azienda ancora porta il nome, dandomi l’occasione di chiedere ad Alessandra di raccontarmi la sua storia. “Mio padre è nato qui nel ’31 e dopo essersi spostato e trasferito a Torino, ritornerà a Canelli nel ’63. Mia madre, poverina, aveva il terrore di vivere in campagna. Allora qua l’acqua andava ancora tirata su dal pozzo. Mio padre però non aveva nessuna intenzione di fare l’impiegato, la campagna è sempre stato il suo sogno, sebbene poi si sia rivelato un contadino anomalo, o meglio, un meccanico mancato vista la sua passione per i motori.”
Se fino agli anni ’60 però le aziende agricole dell’Astesana erano organismi polifunzionali che puntavano all’autosufficienza, l’avvento della chimica in agricoltura comportò un’inversione di marcia nel decennio successivo, direzione monocoltura. “Mio padre appena arrivato, provò ad utilizzare un paio di volte i diserbanti consigliati dai consorzi agrari e rischiò di intossicarsi seriamente. In quel momento si chiese perché se il nonno aveva sempre lavorato in un certo modo, non potesse continuare su quella strada anche lui. Quella fu l'unica volta in cui i nostri vigneti videro la chimica.”
“A quel tempo già si puntava tutto sul Moscato?” chiedo ad Alessandra. “Sicuramente era la maggior fonte di guadagno, ma non era il vino per come lo si conosce oggi” replica lei. “Le autoclavi infatti si diffusero a macchia d’olio solo negli anni ’80. Io e Gianluigi conserviamo una memoria del Moscato di una volta, un ricordo fatto di profumi, colori e sapori di quando eravamo bambini.”
Per bloccare la fermentazione del moscato ci si avvaleva sia di una primordiale filtrazione attraverso dei sacchi di juta, che venivano riempiti, fatti sgrondare e lavati a mano dalle donne della famiglia; sia delle temperature rigide degli inverni, motivo per il quale in zona non sono mai esistite cantine sotterranee, ma piuttosto locali ben arieggiati incorporati nel lato nord delle abitazioni.
“Oltre alla fermentazione” continua Alessandra “anche la materia prima di partenza era molto diversa. Si cercava un moscato di grande densità, doveva essere molto maturo e veniva raccolto a inizio ottobre, quando oggi si vendemmia molto più in anticipo. Poi con l’appassimento di una settimana si otteneva ulteriore concentrazione degli aromi e degli zuccheri. Un tempo, come noi facciamo ancora adesso, si ricercava un moscato dal grado potenziale molto alto, a differenza di quanto viene fatto comunemente oggi. Un grado potenziale più alto di partenza garantisce un maggior controllo della fermentazione riuscendo così a mantenere una buona dose di zuccheri residui che lo rendono denso e ricco.” Questo, ci spiega Alessandra, fa capire anche perché il questo vino sia nato proprio a Canelli: le altre zone in cui oggi si produce il Moscato d’Asti non riuscivano a restituire alle uve quelle gradazioni e concentrazioni e le fermentazioni avrebbero portato a secco tutti i vini.
… AL MOSCATO DI OGGI
Verso mezzogiorno ci raggiunge anche Gianluigi, mi versa un calice di Moscato e scendiamo sotto il porticato della casa a goderci i timidi raggi del sole di ottobre “di che parlavate?” “Del Moscato di una volta” rispondo. “Ah sì, la nostra idea è quella di provare a fare un Moscato ancestrale, come si faceva a quei tempi, ma la cosa creerà un problema di denominazione e saremo costretti a chiamarlo mosto parzialmente fermentato. E pensare che quello sarebbe il vero Moscato tradizionale... il boom degli anni ’80 e la tecnologia invece hanno finito per snaturare la sua vera essenza facendo fiorire tutti i produttori convenzionali. Pensa che oggi nella DOCG, su settemila cantine che vinificano, quelle biologiche si contano sulle dita di una mano.”
“Nelle autoclavi invece come si blocca la fermentazione?” chiedo cercando reminiscenze dei corsi di sommelier. “I Moscato convenzionali sono filtrati con filtri a 0,4 micron, poi si chiarificano con bentonite, eliminando materia e sostanze colloidali in sospensione, che contribuiscono a tattilità, concentrazione e grassezza del vino. Per noi invece è proprio questa l’anima del Moscato, sono queste sostanze che riescono a dargli longevità ed equilibrio. Usiamo dei cartoni sterilizzanti che dovrebbero trattenere solo i lieviti, anche se a volte, come ci è successo con una partita del 2012, capita che parta una rifermentazione indesiderata in bottiglia”.
Chiedo a Gianluigi se ci fa fare un giro dell’azienda. Cominciamo dalla nuova cantina appena costruita, un edificio separato dalla casa e contornato da una rete metallica lungo le pareti esterne. Prima ancora che io apra bocca, Gianluigi mi anticipa: “faremo crescere del gelsomino sull’esterno per salvaguardare il paesaggio”. Poi scolliniamo tra i filari di moscato, mettendoci alla ricerca di qualche grappolo dimenticato dalla vendemmia che in bocca si rivela un’esplosione di zucchero e aromi. Nel frattempo Gianluigi mi racconta la sua storia: “La mia prima vendemmia è stata nel 1981, sotto il controllo di Vittorio, che però presto mi ha lasciato in mano l’intera “gestione materiale” della cantina. A quel tempo si faceva un po’ di rosso che si vendeva ai privati in damigiana e tanto moscato, una parte imbottigliato e il resto venduto sfuso agli imbottigliatori, come Martini e Rossi, a cui abbiamo venduto il moscato fino alla fine degli anni ’80.”
“All’inizio ero combattuto, a scuola mi avevano insegnato che le cose dovevano essere fatte in un certo modo, e mi sono scontrato con la realtà. Vittorio non aveva studiato come fare il vino, il suo era un processo artigianale basato sull’esperienza diretta, ma i vini erano tecnicamente ineccepibili. Ricordo che durante la scuola facemmo un viaggio in Slovenia, quando vedemmo i primi macerati la cosa ci provocò ilarità. Ma lì si era sempre fatto così e il tempo ha pian piano dimostrato che avevano ragione loro. Oggi nessuno si stupisce più di un vino macerato.”
“Secondo te c’è una ciclicità nei gusti? Oggi è tornata di moda la macerazione, domani torneranno i barricati?” gli chiedo. Gianluigi ci pensa un attimo, poi conclude “chi lo sa… Fino a quarant’anni fa il Barolo non veniva considerato e tutti volevano il dolcetto. Secondo me non abbiamo una memoria storica sufficiente per dirlo, ma ogni cambiamento non porta mai alla situazione precedente. Magari ritornerà in voga la barrique, ma sicuramente non il vino del falegname – per dirlo alla Veronelli.” Una voce ci chiama, il pranzo è pronto.
STORIA DI UN’UVA E DI DUE FRATELLI VIGNAIOLI
Alessandra deve avermi preso alla lettera. La tavolata è pantagruelica: al flan di zucca con fonduta di formaggio, segue polenta con burro, gorgonzola e bagna del diavolo. L’unico che pare non stupirsi è Vittorio che, mentre fatico a finire la mia porzione, si fa servire per il suo terzo piatto di polenta. Nel frattempo, a capotavola, Alessandra apre bottiglie una dietro l’altra, dalla nuova annata di Arcese, al neonato Ronco Rosa, per poi passare al Bianchdusèt (la nuova versione del vin jaune piemontese Bianchdudui) e chiudere da dove avevamo cominciato, col Moscato nelle annate 2019 e 2012. Dopo 8 anni il vino è ancora stupendamente in forma: se da un lato magari la bolla ha ceduto qualcosa, dall’altro la complessità e l’evoluzione colpiscono nel profondo; e continua a uscire il marchio di fabbrica del Moscato Bera: freschezza e beva infinita, nonostante i 150 grammi di zucchero residuo.
I calici conciliano le chiacchere e Gianluigi mi racconta del viaggio più bello della sua vita, un vero e proprio pellegrinaggio sull’isola di Samos, dove è nato il moscato bianco e che oggi viene per la maggior parte fortificato anche se ancora se ne trovano versioni secche e versioni passite, tanto rare che vengono servite in dei ditali “è un vino rustico, ma emozionante, è stato indimenticabile perché ho ritrovato il mio moscato”. Conosco la passione di Gianluigi per la storia e non appena gli chiedo come il moscato sia arrivato fino a Canelli, non se lo fa ripetere due volte. “Trasportare il vino da Samos durante il medioevo era costosissimo, ma la nascita della borghesia aumentò la domanda, spostando la produzione verso Occidente, arrivando prima in Sicilia, poi in Sardegna, in Corsica e infine al centro nord. La piccola glaciazione del 1500 metterà a repentaglio la produzione, ma da dopo il ‘600 le tecniche colturali si affinano e ricompare il moscato, restringendo la sua zona d'elezione a Canelli, dove è riuscito a trovare il clima caldo e asciutto di cui ha bisogno”.
Con Alessandra invece scambio due chiacchere sul mercato del Moscato nel mondo naturale e ne approfitto per farmi raccontare anche come è diventata vignaiola. “Dopo l’università di scienze politiche, ho sentito il bisogno di evadere e guardarmi attorno. Ho lavorato per un po’ a Bruxelles, Gianluigi già lavorava in cantina dagli anni ’80, io invece che sono la più piccola di 4 fratelli, sono tornata nel ’94. Era un periodo diverso, il mondo del vino era in movimento e si cominciava a lavorare con l’estero, anche perché di colpo gli italiani cominciarono a comprare meno e sono riuscita a trovare la mia dimensione in azienda. Il ’98 fu l’anno dell’incontro con Marcel Lapierre, Jean Foillard e gli altri produttori del Beaujolais che hanno dato vita al movimento del vino naturale. Li portò in cantina da noi un signore di Canelli, amico di Claude Chanudet di Chateau Cambon, e scattò subito la scintilla. Sentimmo parlare di vino naturale per la prima volta e fu un momento di presa di coscienza del tipo di lavoro che stavamo portando avanti. Nacque un grande legame con la Francia, cominciammo a vendere a Parigi e nel 2001, alla seconda edizione de La Dive Bouteille conobbi Dressner che cominciò a importare i nostri vini a New York. Eravamo gli unici italiani, l’anno dopo gli feci incontrare Stefano Bellotti, Nadia Verrua, Angiolino Maule e altri vignaioli con cui lavora tuttora. Mentre guadagnavamo campo e visibilità in Europa e nel Mondo, in Italia eravamo visti male, messi ai margini da guide e critica. I nostri erano vini diversi, considerati vini del contadino. Commercialmente fu un periodo molto difficile, poi nel 2006, quando vendevamo zero bottiglie in Italia, abbiamo conosciuto le Triple “A”. E da qui la storia la conosci bene…”
La luce che filtra dalle vetrate comincia a tingersi di arancione. Il vino ci ha portato fino a tardo pomeriggio, ringraziamo Alessandra, Gianluigi e Vittorio e ripartiamo verso Genova. Dopo qualche minuto mi arriva un messaggio di Alessandra: “Allora?” Sorrido e rispondo: “Sei ufficialmente la miglior cuoca delle Triple “A”!”