Interno notte. Al ristorante con la famiglia. Vostra madre, che adora tenere tutto sotto controllo, si è appropriata della carta dei vini. Come una professoressa scorre il dito tra le varie bottiglie, soffermandosi qua e là su qualche nome che la intriga. Sapete cosa sta per succedere. A un certo punto vostra madre si schiarisce la voce: - questa dicitura qui – e gira la carta verso di voi indicando la scritta in grassetto “prodotto da fermentazione spontanea” – cosa significa? – Gli altri affondano la testa del menù, vi resta il compito, nel tempo di un minuto, di soddisfare la sua curiosità e convincerla che non si tratta di una fregatura.
Cominciamo dalla fermentazione, lasciando da parte gli aggettivi, almeno per un momento. Anzi uno in realtà è proprio necessario, perché di tipologie di fermentazione ne esistono un assai, ma a interessarci per il momento è una sola: quella alcolica. In pratica si tratta di un processo durante il quale gli zuccheri dell’uva vengono trasformati in alcol etilico e anidride carbonica dal metabolismo dei lieviti, dei funghi unicellulari che prendono il nome di Saccharomyces cerevisiae, gli stessi che vengono impiegati per fare il pane e la birra per intenderci.
Ecco, proprio i lieviti sono gli artefici dell’incredibile incantesimo che si compie durante la fermentazione: la trasmutazione dell’uva in vino, ossia la trasformazione di una materia prima fresca facilmente deperibile in una bevanda capace invece di sfidare il tempo. È questo che rende così speciale il vino: ogni bottiglia rappresenta la memoria storica dei frutti di un vigneto, di un’annata, dei gesti di un vignaiolo, di un territorio.
Ma non è finita qui! I lieviti ricoprono un ruolo talmente importante, che la loro influenza continua perfino una volta terminato il loro ciclo vitale. I lieviti esausti infatti precipitano all’interno del contenitore, andando a costituire le cosiddette fecce fini, e i processi di autolisi che coinvolgono le loro pareti cellulari liberano molecole che giocheranno a loro volta un ruolo fondamentale nella definizione del ventaglio aromatico finale di un vino.
“È come quando ci dicono che ci sono altre dimensioni tutte intorno a noi ma non abbiamo la capacità di percepirle” direbbe Frances Ha. Proprio così, risponderemmo noi. Anzi, forse anche se sono invisibili a occhio nudo, i lieviti appartengono a quella dimensione che riusciamo a percepire attraverso il calice, tanto sono in grado di influenzare il carattere e l’identità di un vino.
Ma un lievito vale l’altro? Negativo. Non a caso la distinzione tra lieviti indigeni e selezionati è uno dei punti fondamentali di ogni manifesto o associazione di produttori di vino naturale. I primi sono quelli naturalmente presenti sulle bucce delle uve, cambiano da vigneto a vigneto, ospiti di un habitat microbico unico e irripetibile, e portano con sé la firma più autentica di un territorio. Al contrario, i lieviti selezionati, che vanno per la maggiore nell’enologia moderna, sono lieviti riprodotti in laboratorio, appunto selezionati, a seconda della loro resistenza all’etanolo, all’anidride solforosa e della capacità di portare a termine le fermentazioni o di apportare al vino determinate caratteristiche sensoriali. E proprio da qui, da questa capacità dei lieviti selezionati di “far sapere, a prescindere dalla provenienza, un Sauvignon di Sauvignon o un Cabernet di Cabernet”, nasce il fenomeno che è stato definito omologazione del gusto.
Ecco, chi si oppone all’impiego dei lieviti selezionati, deve appellarsi a quelli indigeni e dunque a una fermentazione spontanea, come del resto è stato fatto il vino per migliaia di anni. Come capita spesso però, la via più nobile difficilmente è la strada più semplice da percorrere. Così, se i lieviti selezionati garantiscono una certa stabilità e velocità di fermentazione, specialmente in partenza, avere a che fare con i lieviti indigeni è tutt’altro che facile e richiede una cura e un savoir-faire di gestione propri solo degli artigiani con più esperienza.
Scegliere una fermentazione spontanea implica il voler rispettare il potenziale intrinseco di tutte le componenti che la natura ci offre per fare il vino, primi tra tutti proprio i lieviti, l'impronta digitale del luogo. Ogni cantina, quindi, esprime le più uniche caratteristiche di un frutto, di un’annata e di un territorio attraverso una popolazione microbica varia e differente di anno in anno. Lasciare che i lieviti naturali compiano la loro “magica trasmutazione” è il primo passo affinché il vino possa essere la migliore espressione del proprio terroir d’appartenenza.