PRIMA DELLE TRIPLE "A": I VINI DEL NUOVO MONDO
La mia storia nel mondo del vino inizia quando ero ancora piccolo e pigiavo uva con i piedi. Mio nonno, agricoltore nel basso Piemonte, aveva una fattoria e dei vigneti, e mio padre lavorava alla Spirit, che all’epoca era la più grande società di importazione alcolici italiana e si occupava, tra gli altri, anche dei grandi vini francesi. In questo periodo, cioè prima degli anni Sessanta, tutti i vini erano naturali, e dunque nessuno poteva identificare un vino come “naturale”: esisteva soltanto quello, si chiamava vino e basta.
Quando nel 1983 acquisii la Velier, l’azienda importava già alcuni vini francesi, della Borgogna e di Bordeaux. Ero quindi impegnato a sviluppare anche l’area dei vini quando mi imbattei in quelli di altri continenti, quasi per combinazione. Il caso volle che un nipote di un nostro agente, tornando da un viaggio in Cile, mi portasse una bottiglia di Santa Rita. Assaggiando questo vino cileno, di cui all’epoca in Italia nessuno sapeva nulla, mi si aprì un mondo. Come tutti qui da noi in quegli anni, non sapevo quasi neanche che in Cile si facesse il vino, eppure degustandolo mi resi conto che poteva tranquillamente essere considerato alla pari dei Cabernet-Sauvignon europei. E aveva anche un’altra caratteristica importante, ovvero un prezzo decisamente più ridotto.
Cominciai così ad avere la curiosità di andare a vedere quali altri paesi extraeuropei producevano vino, e di quale livello, di quale qualità. I principi a cui mi attenevo nella ricerca erano semplici: cercavo vini che fossero qualitativamente a livello di quelli italiani e francesi, ma a un prezzo più basso rispetto a questi ultimi.
All’epoca, non essendoci ancora internet che potesse portarmi a individuare facilmente le cantine in giro per il mondo, usavo “The Wine Advocate” di Robert Parker come strumento di ricerca. Quando trovavo vini a cui veniva assegnato un voto alto, contattavo il produttore e mi facevo mandare dei campioni. Così, dal 1988 al 1992 creai questa gamma, che chiamai Vini del Nuovo mondo, tra i quali c’erano: il Ridge, il Bacio Divino, il Marryvale, il Landmark e il Caymus dalla California; il KWV, il Rust en Vrede, il Kanonkop e l’Hamilton Russel dal Sud Africa; il Wynn’s, il Fox Creek, il De Bortoli, il Leeuwin e il Mount Langi Ghiran dall’Australia; lo Shingle Peak e il Kumeu River dalla Nuova Zelanda; il Bodega Norton, l’Alta Vista e l’Altos De Medrano dall’Argentina; il Santa Rita dal Cile.
Si trattava di una novità assolta e i vini iniziarono presto a essere valorizzati. Lo stesso Gino Veronelli, il personaggio italiano più importante nel mondo del vino, se ne interessò presto. Il nostro catalogo dei vini del Nuovo Mondo venne usato da alcune scuole per sommelier e anche Slow Food inserì i nostri vini nei suoi Giochi del Piacere, dove in più di un caso vinsero le competizioni. Anche se in termini di vendite non facevamo risultati straordinari, avevamo creato una grande attenzione intorno ai prodotti. Diffondevamo la conoscenza di nuovi vini provenienti da nuovi territori. Quasi a sorpresa, scoprii che perfino i produttori italiani si interessavano molto al nostro catalogo.
Cominciai quindi a fare degustazioni in tutta Italia, dove portavo un vino cileno, uno neozelandese, uno sudafricano, uno californiano, uno australiano, facendoli degustare alla cieca accanto a un Sassicaia o a un grande château francese. E da queste degustazioni spesso veniva fuori che a vincere erano proprio i vini del Nuovo Mondo.
SOTTO LE BOMBE DI BEIRUT: IL SEME DELLE TRIPLE "A"
La storia delle Triple A inizia in un certo senso già qui, prima ancora che io stesso potessi saperlo. E precisamente inizia con la scoperta dello Chateau Musar di Serge Hochar. Quando era nato “Decanter”, il primo Man of the Year della rivista era stato Serge. Chiaramente in Italia nessuno aveva ancora conosciuto il suo straordinario vino libanese e, in assenza del web, era difficile poterlo conoscere. Mentre io, essendo a caccia di vini di altri continenti, contattai Serge Hochar telefonicamente, proponendogli di incontrarci. L’intenzione era quella di andare a scoprire lo Chateau Musar direttamente in Libano, ma in quegli anni la cosa non era affatto semplice. Il Libano era nelle fasi finali e più cruente della guerra iniziata quindici anni prima, Beirut era sotto i bombardamenti e ottenere un visto per andarci era quasi impossibile.
Serge Hochar riuscì tuttavia a farci avere un visto dal consolato libanese presso la Santa Sede, e così io decisi di partire insieme a Francesco Arrigoni, che era stato delfino di Veronelli e collaboratore del neonato Gambero Rosso, la guida cha all’epoca usciva come allegato a “l’Unità”.
Andammo a Roma a prendere il nostro visto alla Santa Sede e poi in volo arrivammo a Cipro, da dove prendemmo la nave che ci portava a Jounieh, il porto a nord di Beirut. È un viaggio carico di tensione, il Libano è sulle prime pagine di tutti i giornali ed è la prima volta che io vado in un paese in guerra.
Arriviamo a Jounieh alla mattina, all’alba, dove c’è un’auto che ci aspetta e ci porta a Beirut. Qui Serge Hochar ci porta in un ristorantino con un piccolo terrazzo, dove facciamo colazione guardando la città. Serge mi spiega che al mattino lui si prende sempre 15 minuti per una colazione tranquilla e meditativa, in cui pensa a tutte le cose che deve fare nella giornata. Da quella terrazza guardo Beirut e in quel momento mi domando dove sia la guerra. Quindi partiamo ed arriviamo a Ghazir, dove c’è Château Musar. Le cantine sono cinque o sei piani sottoterra, il vino riposa quattro o cinque anni in bottiglia, per uscire otto anni dopo la vendemmia. Le cantine sono uno spettacolo, piene di bottiglie, polvere, ragnatele.
All’improvviso, mentre siamo ancora nelle cantine, sentiamo un gran frastuono. Decine di persone si precipitano giù dalle scale e ci raggiungono ansimando, spaventati e trafelati. Quando usciremo dalla cantina, troveremo tutto distrutto dalle bombe. L’ufficio di Hochar era sventrato e l’intera città devastata.
La degustazione lascia me e Arrigoni allibiti. Per noi, che abbiamo una formazione legata alla ricerca dei diversi sentori, il modo che ha Serge Hochar di parlare del vino è una scoperta. Parla per esempio dell’annata ’77 come di un vino simile a una donna, estremamente morbido ma nel profondo energico e deciso, ci invita a degustarlo facendolo passare tra i denti per far esplodere i tannini. Ed è un vino eccezionale, straordinario e del tutto al livello dei grandi châteaux francesi. Al ritorno, Arrigoni scriverà cinque pagine su Gambero Rosso per parlarne. E da lì se ne inizia a parlare.
Lo Chateau Musar è un vino naturale, che Hochar produce seguendo tutti i principi che saranno alla base del protocollo Triple A. Ma all’epoca non potevo saperlo nemmeno io. In questo periodo non c’era ancora cognizione del fatto che un vino potesse essere tanto buono perché creato con l’uso dei lieviti naturali e senza intervento della chimica in agricoltura. Non c’era una percezione della differenza. Château Musar era per tutti semplicemente un grande vino.
Da lì, Serge Hochar sarebbe diventato il mio secondo maestro in materia di vino, dopo Giorgio Grai, figura per me quasi paterna con la quale avevo discusso a lungo alla nascita dei miei progetti. E quell’incontro con Serge Hochar e con il suo Chateau Musar era destinato a diventare il seme delle Triple A, anche se allora non potevo ancora saperlo.