Dalla celebrazione e difesa del “Made in Italy” all’autodistruzione della parte del vigneto più vecchio di Cannubi, il più grande patrimonio storico, vinicolo e genetico d’Italia, il vero Grand Cru di Barolo.

Fino a gennaio, se foste andati a mangiare sulla terrazza della Locanda Brezza, sotto di voi avreste potuto vedere il gioiello più raro di tutta la Langa, la vera e propria Romanée-Conti d’Italia, milleseicento metri quadri di vigneto, popolato da piante di oltre 80 anni, in frazione Muscatel di Cannubi, il Grand Cru di Barolo. Se ci andaste oggi, vedreste un terreno nudo, in corso di scasso, pronto a essere reimpiantato con barbatelle da selezione clonale.
La vigna, di proprietà del comune, era in comodato d’uso a Giulio dal 2003, che la conduceva, anzi se ne faceva custode, forse non c’è neanche bisogno di specificarlo, con profondo rispetto del suolo e con la consapevolezza del valore inestimabile di quel fazzoletto di terra. Un tacito accordo che andava rinnovandosi di anno in anno, al cadere di San Martino, l’11 di novembre, che coincide con la fine della stagione.


Quest’anno invece Giulio riceve una telefonata a gennaio, quando già aveva potato le viti e reimpiantato dei pali, e gli viene comunicato che deve lasciare la vigna, che produce poco, che è tenuta male, che non è bello che in un posto turistico come quello, ci sia un vigneto scapigliato, dove cresce ancora l’erba. Andate a Barolo e guardatevi intorno, vedrete filari pettinati che giacciono su un paesaggio tragicamente desertico. Da una parte la vita, dall’altra la morte.
“Io ho sempre puntato sulla qualità” ci racconta Giulio in video chiamata, “una pianta di 80 anni produce poco, ma concentra nel frutto materia e profondità”, per non parlare del valore che avrebbe in vista in termini riproduttivi attraverso una selezione massale. Pochi giorni dopo, le ruspe avevano già espiantato tutte le viti.
E pensare che Barolo, insieme a Montalcino, è il territorio più blasonato d’Italia, che si dovrebbe fare portavoce della qualità in campo vitivinicolo, una qualità di cui ci si riempie in continuazione la bocca, salvo poi, alla resa dei conti, ritornare a una mentalità ottusa e retrograda, che mette la quantità al primo posto e il business prima della salvaguardia del patrimonio.
Viene quindi da chiedersi quale sia il ruolo delle nostre istituzioni, le stesse che sbandierano a gran voce il valore del “made in Italy”, salvo poi non riconoscere il valore inestimabile di un vigneto come quello, in termini di biodiversità genetica, di memoria storica, di patrimonio della viticoltura, che avrebbe meritato di diventare meta di pellegrinaggio. Ancora una volta dovremmo prendere esempio dalla Francia, dove mai e poi mai si sognerebbero di fare una cosa del genere, dove anche solo pensare di espiantare le vigne vecchie di un pezzo di terra unico e inimitabile è considerata pura follia.
“Dallo sconforto mi sono bevuto un Barolo Cannubi, uno degli ultimi” ci dice Giulio mostrando la bottiglia vuota e senz’etichetta alla telecamera. Del resto da meno di mezz’ettaro Giulio ricavava sì e no un migliaio di bottiglie. Ci salutiamo con la promessa di berne una insieme, non appena la situazione si sarà calmata. Ora non resta altro che aspettare l’uscita delle quattro annate ancora in cantina, dalla 2016 alla 2019, oggi più rare che mai, le ultime “Romanée-Conti” italiane di sempre.