Giorgio Clai e la ricerca della libertà

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Giorgio Clai e la ricerca della libertà

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Nato contadino e prestato alla ristorazione per più di quarant’anni, Giorgio Clai ha pian piano realizzato il suo sogno tornando nella sua terra natale, l’Istria Bianca, per vestire i panni del vignaiolo e dare nuova voce a questo territorio.

Meno di cinquanta chilometri e due confini nazionali dividono Trieste da Krasica, i due luoghi simbolo della storia di Giorgio Clai. Una strada che negli anni ha percorso innumerevoli volte per dare continuità a una piccola parcella vitata della madre, attraverso la quale conosce e scopre una sensazione di ritrovata libertà. Così è nel 2001 che, sulle marne argilloso arenarie dell’Istria Bianca, dove i venti montani provenienti dall’Ucka incontrano le correnti marine che risalgono il fiume Quieto, Giorgio compie la sua trasformazione definitiva da ristoratore a vignaiolo, ripercorrendo al contrario il sentiero che l’aveva portato a lasciare la Croazia durante l’infanzia. E grazie a quella libertà di cui si nutrono la sua passione e il suo entusiasmo, Giorgio delinea il suo percorso, che non consiste in un ritorno al passato, ma al contrario in una scommessa sul perpetuarsi dell’unica vera storia del vino. 

Sei nato in una famiglia di contadini, hai lavorato per tantissimi anni nella ristorazione e poi sei tornato a fare il vino. Ci racconti la tua storia?

Io sono nato qui a Krasica, in Istria. Però quando avevo sette anni i miei genitori si sono trasferiti e sono andati a vivere in Italia e ovviamente sono andato con loro. Per cui io di fatto sono cresciuto in Italia, a Trieste, e lì ho vissuto fino a quarant’anni abbondanti occupandomi di ristorazione. A Krasica però mi era rimasto un piccolo pezzo di vigna di mia mamma, seicento piante al massimo, con la quale mi dilettavo a fare vino: era il mio hobby. Nei miei giorni liberi sarei potuto andare in barca, a cavallo, a fare chissà cosa, invece preferivo venire su e giù da Trieste per lavorare in vigna e fare il vino. Poi ho deciso di intraprendere questo progetto trasformando il mio hobby in una professione. Alla fine se guardiamo un po’ alla mia storia ho fatto più anni vino per divertimento che per lavoro.

Anche se il vino lo sapevi già fare, quanto è stato difficile questo passaggio?

Sinceramente non saprei quantificare perché quando vuoi fortemente una cosa magari certi sforzi che fai non li percepisci come tali. Per me non è stato difficile, avevo scelto di occuparmi di vino e volevo fortemente questa cosa. Sicuramente abbiamo fatto tanti sacrifici e abbiamo avuto dei momenti duri, ma quelli esistono in ogni lavoro e in ogni campo, no? Quando hai la fortuna di occuparti delle cose che ami veramente diventa tutto, tra virgolette, più facile. In varie interviste mi è capitato di paragonarmi a un tennista perché vivo della mia passione, di quello che mi piaceva e mi piace fare. Avete mai sentito un tennista lamentarsi dei sacrifici che ha fatto per diventarlo? Ecco, io sono come un tennista. Per questo, anche se probabilmente guadagno di meno, mi considero una persona molto serena e molto fortunata.

Quindi è più divertente fare il vino che fare il ristoratore?

Si ho fatto bene, anche se mi piaceva fare anche quel lavoro. Mi piace molto il contatto con le persone. Ma sai la vigna ti dà libertà. Quando hai un ristorante sei costretto giocoforza ad avere degli orari rigidi: l’ospite viene a trovarti a una cert’ora e tu devi farti trovare pronto. Qui invece entrano in gioco i cicli della vite e delle stagioni. Avendo a che fare con le vigne e con il vino sei in un altro mondo, sei molto più libero. Certo, anche qui ogni cosa ha il suo tempo. Ma se una cosa la fai domani invece che oggi non succede nulla, vendemmia a parte. La cosa più importante è la libertà, dopo vent’anni di ristorazione, di routine, di orari, di aperture e di chiusure mi sono ritrovato improvvisamente libero. Chi ha lavorato nei ristoranti sa cosa significa. Forse era proprio questo ad affascinarmi così tanto: dopo vent’anni ho assaporato la libertà.

Diventa anche una questione di qualità della vita, no?

Soprattutto di qualità della vita! Almeno per quanto mi riguarda, io ho delle figlie che non hanno seguito questo lavoro perché magari avevano altre priorità. Siamo tutti diversi. Io ai tempi ero un po’ insofferente, ma probabilmente lo dico adesso che sono vecchio. La vita l’ho fatta e adesso ce la giochiamo, no?

Quando hai cominciato a fare vino avevi già un approccio naturale all’agricoltura e alla vinificazione? Insomma, eri TripleAista già dal principio?

Era l’unico modo che conoscevo per fare il vino. Del resto nella mia famiglia si è sempre fatto vino, almeno fino al 1963, quando i miei si sono trasferiti. Quando sono tornato in pianta stabile era il 2002. Questo salto generazionale coincide proprio con gli anni dell’avvento e della diffusione della chimica. Gli impulsi, gli input e i consigli che ho ricevuto da mio padre erano tutti figli di un periodo in cui tutti i vini erano naturali. Non potevo fare del vino tecnologico: non avrei saputo neanche da parte iniziare. E non c’è stato un momento in cui ti ha in qualche modo attirato questo nuovo mondo del vino che prometteva rese stabili, risultati sicuri e molta meno fatica? Quando sono tornato ero molto interessato, specialmente perché mi ero già messo in testa che fare vino sarebbe diventato il mio lavoro. Ho fatto qualche prova, ma alla fine non mi piaceva il mio vino. Non avrei mai avuto la forza di spingere, promuovere e commercializzare un prodotto che non ero capace di apprezzare. Quindi dopo queste sperimentazioni non ho avuto più alcun dubbio. È stata dura perché all’epoca il mercato non era pronto a questi vini, soprattutto in Croazia. E quindi per diversi anni abbiamo esportato fino all’80% della produzione.

Quindi anche in Istria dagli anni ’60 comincia un’industrializzazione e un uso indiscriminato della chimica in campo agricolo?

Eh sì, anzi qui volendo sotto certi aspetti è stato un fenomeno enfatizzato. C’erano le cooperative e l’imprenditoria privata era disincentivata, quasi boicottata, dal sistema socialistico. E le grandi compagnie che si sono formate ovviamente non potevano che lavorare in quel modo. Quando sono arrivato in Istria, mi sarei aspettato di trovare qualche collega, con un certo tipo di retaggio dietro, qualcuno che avrebbe spinto un po’ dalla nostra parte. E invece devo dire che a oggi non ho ancora grandi riscontri, se non per qualche giovane che sta cominciando ad avvicinarsi. Io sono un fervente credente nell’ecologia e mi piacerebbe pensare a un mondo sempre più pulito Abbiamo un clima che ce le permette e siccome amo la mia terra, io voglio sognare in grande: un’Istria totalmente biologica. Perché no? Io ho sempre dato una mano a chi me l’ha chiesto, ho condiviso i miei pensieri e le mie esperienze e continuerò a farlo, ma solo a chi mi promette di occuparsi di vino naturale.

A te piace il termine “vino naturale”? Che ne pensi?

Non ho mai amato le etichette. È un’espressione che uso, ma preferirei che si parlasse soltanto di vino. Alla fine sui dizionari si legge, a grandi linee, che il vino è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di uve o mosti. Da nessuna parte si fa riferimento all’ausilio di enzimi, lieviti, batteri malolattici e tutte gli altri additivi e coadiuvanti concessi. Ma il vero vino è un’altra cosa. Qui da noi, si ricordano i bei momenti e si apre una bella bottiglia, abbiamo un’ospite e si apre una bella bottiglia, andiamo a trovare qualcuno e portiamo una bella bottiglia. Il vino non è soltanto una bevanda alcolica, il vino è prima di tutto tradizione, cultura, rituale. Ecco, io credo che questi valori si esprimano al massimo nei vini fatti come li facciamo noi, i nostri colleghi delle Triple “A” e tanti altri piccoli produttori. Sarebbe il vino tecnologico ad aver bisogno di un’etichetta per distinguersi dagli altri, non il contrario. Del resto, la storia del vino siamo noi.

Tu fai parte della vecchia guardia delle Triple “A”. Hai qualche ricordo del primo incontro?

Credo che il primissimo approccio sia avvenuto a una manifestazione di Vini Veri o comunque a una fiera di settore. Poi penso che Luca abbia assaggiato una bottiglia non so dove e mi ha subito detto che per lui il mio era un vino Triple “A”, che voleva venire a trovarmi per conoscermi. E così ha fatto. Venne qui con Lorenzo Rosai, l’agente di commercio di Trieste, che era andato a prenderlo in aeroporto. Quando sono arrivati ci siamo salutati e come da tradizione istriana li ho invitati in casa a bere e mangiare qualcosa. Luca invece mi ha detto che la prima cosa che voleva fare era andare in vigna. È bastato questo a conquistarmi. E poi mi ricordo che non avevo mai visto le mie vigne così prima di allora. Era maggio e la terra era diventata un tappeto biancorosso di papaveri e margherite. Si inginocchiò e si fece scattare una foto che deve ancora conservare da qualche parte. Oggi quando ci incontriamo lui mi dice sempre che deve tornare a farsi una foto. Io non gliel’ho mai detto perché non lo voglio disilludere, ma una distesa di papaveri e margherite come quel giorno io non l’ho mai più vista. Poi abbiamo assaggiato i vini che gli sono piaciuti e siamo partiti. Ecco, è cominciata così e siamo rimasti sempre insieme.

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