Bodega Chacra, dove l'impossibile non esiste

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Bodega Chacra, dove l'impossibile non esiste

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Genesi ed evoluzione di Bodega Chacra: Pietro Incisa della Rocchetta racconta come un calice di Pinot Nero l’ha portato fino in Patagonia, alla ricerca del luogo dove dare vita al suo progetto visionario.

-Solo se prendi la traiettoria giusta e se hai le gomme ben calibrate puoi permetterti di andare a 300 chilometri all’ora in curva-

Cominciamo dal principio. Qual è la tua storia prima di Bodega Chacra?

"Il mio percorso è sempre stato inevitabilmente legato al mondo del vino, ma più per dovere che per piacere. Dopo aver concluso gli studi universitari negli Stati Uniti, mio zio Nicolò, presidente di Tenuta San Guido, mi chiese se potessi farmi carico di due cantine della famiglia situate in Umbria. Io ero ancora alla ricerca della mia strada, ma accettai l’incarico e me ne occupai finché le due aziende furono ristrutturate a dovere. Dopodiché sono tornato a New York, ho frequentato un master e poi, sempre su richiesta di mio zio, ho cominciato a fare rappresentanza per Tenuta San Guido sul mercato americano. In ogni caso avevo già capito di avere un carattere più imprenditoriale e di essere innamorato della natura con la quale pativo la mancanza di contatto".

E poi è successo che un bicchiere di vino ti ha trascinato fino in Patagonia...

"Esatto, ero con mia cugina Noemi che era proprietaria di Argiano a Montalcino e aveva cominciato un suo progetto in Argentina. Dopo un evento di Wine Spectator, ci siamo trovati a cena con diversi produttori e critici e mi hanno servito alla cieca questo vino che ho riconosciuto come un grande Pinot Nero della Borgogna. Sul varietale avevo ragione, sulla zona ero dodicimila chilometri fuori strada: veniva proprio dalla Patagonia. Non sono riuscito a togliermi quel sapore dal palato, è stato il mio ultimo pensiero di quella sera e il primo della mattina successiva.

Così ho preso e sono partito. Non sapevo bene cosa aspettarmi, immaginavo di ritrovarmi in un contesto simile alla Borgogna o al Piemonte, invece mentre atterro con l’aereo mi rendo conto di ritrovarmi in un’area desertica, in una zona battuta da un vento fortissimo e con delle escursioni termiche tra giorno e notte di oltre trenta gradi, in un luogo che dal punto di vista climatico, microbiologico ed energetico era completamente diverso da tutto ciò a cui ero abituato. In questa vallata formata dal Rio Negro che nel tempo da 37 chilometri di larghezza si è ristretto fino a poche centinaia di metri, una terra completamente incontaminata restituiva un’uva buonissima. Mi trovato di fronte a un patrimonio genetico enorme, vigneti a piede franco e terreni che non avevano mai visto la chimica: avevo trovato il posto perfetto per stare lontano da tutto e da tutti".

Con che idea sei partito e quali difficoltà hai incontrato?

"Beh innanzitutto c’era da compare la terra. Di certo i prezzi non erano quelli inaccessibili della Borgogna, incontrai il proprietario che era un italiano. Lo chiamavano il Pirri, stava seduto sotto un fico e parlava esclusivamente friulano. La prima cosa che mi ha detto è che la terra non me l’avrebbe mai venduta. Poco male, non avevo una lira, quindi gli ho proposto di affittarmela e così ho preso in gestione il vigneto da cui oggi nasce il Trenta y Dos.

Restava il problema di trovare i soldi. Un giorno ero ad Aspen e il sommelier di un ristorante mi chiede di salutare un cliente di un altro tavolo che stava bevendo un vino della mia famiglia. Lo incontro, mi ci fermo a chiacchierare e mi invita a cena il giorno dopo. Così parlando gli racconto del mio progetto in Patagonia, non so quando avesse capito, fatto sta che mi chiede di poter essere mio socio. Così, dopo una prima vinificazione ospitata in cantina da Noemi e una produzione di milletrecento bottiglie, nel 2004 prende ufficialmente vita Bodega Chacra.

Il primo passo è stata un’analisi della composizione e della mineralità dei suoli per avere una mappatura completa dei terreni, dopodiché abbiamo cominciato il percorso di conversione biologica e biodinamica anche se in realtà non c’era niente un bel niente da convertire visto che era una zona completamente incontaminata".

Un passo importante per Bodega Chacra è stata anche la nascita del Sin Azufre. Ci racconti la sua genesi?

"Tutto è cominciato con una caduta da una vasca. Era il 2013 e ho dovuto passare cinque mesi in sedia a rotelle. Mi ricordo che attraversavo i vigneti e, saranno stati gli antidolorifici, ma vedevo una sorta di matrix, sentivo una vibrazione incredibile di vita, sentivo di essere in simbiosi con la natura. In quel momento mi sono reso conto che anche se in maniera minima quando gli uvaggi arrivavano in cantina cominciava un intervento volto a prevenire delle eventualità che non era detto si sarebbero verificate. Insomma, se io esco di casa che fa freddo mica mi prendo un antibiotico. Così ho deciso che era arrivato il momento di smettere di guardare la partita dagli stand e di scendere in campo.

La primissima sperimentazione si basava sul non fare assolutamente nulla. Di norma ogni mattina la prima cosa che facevamo era guardare le analisi dei vini per poi decidere cosa fare. Eravamo abituati a reagire a un foglio analitico secondo una disciplina totalmente incompleta che chiamiamo scienza. Ho voluto prendere il rischio di fare al contrario e di partire dall’evidenza empirica. Io del resto non sono enologo. Ho delle idee che cerco di portare avanti, ma allo stesso tempo mi circondo di tecnici che a volte ascolto e a volte no, è il privilegio di essere i proprietari.

Così dopo un’attentissima selezione delle uve, nel 2014 faccio il mio primo vino frutto solo dell’ascolto dei miei sensi. Ricondiziono tre barrique trasformandole in vasche di fermentazione e le porto in un locale separato della cantina in modo che non avessero nessun contatto con le altre vasche. Da lì in poi non faccio altro che andare una volta al giorno ad assaggiarlo, a mezzogiorno quando i nostri sensi sono al top, accompagnato da una mia amica perché volevo che il vino sentisse anche una presenza femminile. Così nasce la prima barrique di questo nuovo esperimento senza nome e, onde evitare che il cantiniere per sbaglio lavori il vino come tutti gli altri, scrivo dappertutto a grandi lettere “Sin Azufre”. Da lì è rimasto il nome.

La cosa che più mi ha dato soddisfazione è stato quando in degustazione alla cieca è risultato secondo tutti il vino più fresco nonostante dalle analisi fosse il più basso in acidità tra tutti i vini della batteria. L’approccio analitico aveva fallito dimostrando che il concetto di freschezza non era riducibile esclusivamente all’acidità. Non ho trovato un vocabolo alternativo e ho iniziato a chiamarla energia.

Alla fine il Sin Azufre ha influenzato tutta la produzione e oggi ha una cantina dedicata in modo che abbia nessuna interferenza".

Alla fine non sei andato a fare vino in Borgogna, ma la Borgogna ti ha raggiunto in Patagonia. È vero che vinifichi lo chardonnay insieme a Jean-Marc Roulot?

"Per me lui è sempre stato un mito. I suoi Meursault sono tra i vini più buoni che io abbia mai assaggiato e quando mi ha chiesto di venire a fare lo chardonnay da me in Patagonia io non gli ho risposto quasi per vergogna. Tre anni dopo una notte in hotel dopo un evento incontro Pedro Parra, uno tra i più grandi esperti di terroir al mondo. Mi ha chiesto se fossi io l’idiota che non voleva che Jean-Marc Roulot lo aiutasse a fare lo chardonnay. È finita che quella notte stessa ho scritto a Jean-Marc che oggi è il mio socio per gli chardonnay di Bodega Chacra".

Come ti piace vedere Bodega Chacra?

"La fortuna di questo luogo è che le possibilità si incontrano con la preparazione. Al mio fianco ho una squadra che ci crede e si spinge ogni giorno più in là. Bodega Chacra è un’impresa a carattere artigianale che si fonda interamente sulla ricerca e la sperimentazione, reinvestiamo in azienda il 100% dei profitti. Noi siamo arrivati forti di alcune conoscenze dall’Europa, ma abbiamo dovuto usarle in relazione a un ecosistema diversissimo da ciò a cui eravamo abituati. Questa sinergia fa sì che a Chacra l’impossibile non esista... del resto sono pur sempre il nipote di quel pazzo che ha piantato cabernet nella Mecca del sangiovese".

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