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Agnès Henry e la genesi di una mourvèdre in anfora

Editoriale //

Agnès Henry e la genesi di una mourvèdre in anfora

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Da La Mancha alla Costa Azzurra, passando per il Trentino e dall’argilla onnipresente a Villarobledo come sul plateau di Cadière d’Azur all'incontro con Elisabetta Foradori: il racconto dell’En Sol e di cosa ha portato Agnés a occuparsi a tempo pieno del Domaine de la Tour du Bon, nella Provenza di Bandol.

“Quando mia mamma mi chiese se mi volessi occupare del Domaine, io risposi di sì e lì iniziò tutto”.

Seguire il proprio istinto oppure seguire un cammino tracciato o ancora entrambi? Trasformarsi e (è) trasformare: prendere e dare un’altra forma alle cose. Dalla città alla campagna, dai marciapiedi affollati di Parigi ai profumi e alla natura potente della macchia mediterranea. Dalla filiera del latte in Normandia, al soldo di un grande gruppo industriale, a imprenditrice agricola colta e sensibile. Agnès è un po’ tutto questo e passare del tempo con lei, nel bel maso provenzale tra la Cadière d’Azur e il circuito automobilistico di Le Castellet, è rivelatore.

Quando sei arrivata a La Tour du Bon?

"Era il 1990 io non sapevo nulla di vino. Avevo fatto gli studi nell’agroalimentare, ma il vino era una cosa a parte, trattato solo nei corsi di enologia. Assoldai, un po’ per caso un giovane ragazzo che mi sembrava avesse fiuto e intuizione. Era Thierry Puzelat. Rimase qui fino al ’94, poi fu il turno di Antoine Pouponneau, che nel 2006 è partito per la Corsica di Clos Canarelli, e ora c’è Julienne Pierre che ormai è qui da quindici anni.
Riprendere la Tour du Bon è stato per me come rituffarmi nei periodi di vacanza che hanno caratterizzato la mia giovinezza, quando trascorrevo qui tutte le estati, e riprendermi quella libertà dei sensi che in una grande città come Parigi ti manca. Da cemento, asfalto, rumore e frenesia sono passata a boschi, campagna, canto degli uccelli e calma… non so se rendo l’idea".

Come nasce il connubio tra il tuo Domaine e l’uva che caratterizza questa terra di vini? Ci dici qualcosa di più sulla mourvèdre?

"Alla Tour du Bon la situazione è molto interessante dal punto di vista geologico poiché poggia su un plateau calcareo che conferisce uno stile particolare ai nostri vini. Le radici della vite hanno poco suolo, si confrontano subito con lo zoccolo calcareo e riescono ad attraversarlo a fatica. Per questo la mouvèdre, che è una varietà molto verticale che aspira alla luce, qui si trova perfettamente a suo agio. Si tratta di un vitigno spagnolo, fortemente mediterraneo e molto sanguigno. Un’uva dal carattere deciso che contraddistingue la nostra cuvée San Feréol, nata proprio insieme a Thierry, e con il quale condivide il carattere un po’ macho e irruente".

Poi è arrivato anche l’En Sol, ci racconti la sua genesi?

"En Sol è una storia che risale al 2012, all’incontro con Elisabetta Foradori al salone Le Vin de mes Amis. Abbiamo fatto amicizia, ho bevuto i suoi vini e non so se sia stata lei o i suoi vini ma mi sono sentita in sintonia; una sorta di risonanza che ho riavvertito quando sono stata a visitare la sua cantina in Trentino e ho visto tutte quelle anfore… Si dice spesso che ognuno di noi ha una sostanza, un materiale con cui si sente bene. E per me, credo, sia la terra. È un contenitore che intriga, che viene da lontano e che ti ritrasporta nell’antichità. L’anfora è un regalo che Elisabetta mi ha fatto, forse senza rendersene conto. E penso che sia arrivato anche in un buon momento, perché dopo 25 anni di vinificazione il fatto di rimettersi in gioco e di riscoprire un vino è stata davvero una bella avventura. Le giare venivano dalla Spagna, dalla Mancha e andavano prima da lei e poi lei me le rinviava qui, alla Tour du Bon… un po’ rischioso. Infatti tremavo a ogni spedizione".

E dal punto di vista della vinificazione?

"Ho preso la mourvèdre più bella del Domaine e l’ho messa nelle anfore, che ho rifinito io stessa ultimandole pezzo a pezzo: chiusura, giunti, guarnizioni, colmatore… Anche questo è il bello dell’anfora: non è un pacchetto chiavi in mano. Juan Padilla, l’artigiano che le ha fabbricate, fa solo l’involucro, ma non il resto. Poi sei mesi di macerazione, che non è affatto la tradizione del luogo, e la prima annata è stata davvero sorprendente. Feci assaggiare il vino ai vignaioli colleghi della zona e nessuno riconobbe più la mourvèdre. Con En Sol abbiamo proprio abbandonato lo stile del vino in cui sono i tannini a dominare: qua non sono più loro a dettare legge. I Bandol classici infatti sono vini densi, massicci con il legno che gli dà il nerbo e la struttura in modo che possano resistere nel tempo. Tutti i vini che nascono in un’anfora invece condividono un certo flusso, non siano statici come quelli fatti in legno; al contrario sono dinamici, ti attraversano.  Grazie ad En Sol ho riconosciuto il vino naturale e compreso la ragione di non aggiungere nulla. Con l’anfora come contenitore tutto mi è diventato chiaro: rispetto al legno è una questione di protezione, di tempi lunghi di macerazione sulle bucce e più brevi di maturazione. Ad ogni modo è stata veramente una sfida, un passo verso l’ignoto: il primo anno non sapevo nemmeno se avrei ottenuto del vino".

Come descriveresti En Sol?

"Promessa, viaggio e verità, le tre parole del piccolo libretto che accompagna ogni bottiglia di En Sol. La promessa che Elisabetta mi fece dicendomi che un giorno avrei avuto delle anfore e che la mourvèdre sarebbe andata nella terracotta. Il viaggio ossia la trasformazione, sei mesi in cui tra l’uva, l’anfora e il vino qualcosa si instaura. E infine la verità, un’altra rispetto a ciò che si fa a Bandol. Grazie all’anfora En Sol è un vino diverso, altro, fiero, ribelle".

Risalendo le scale della cantina verso le stanze padronali a giorno del bel maso, mentre il sole, all’orizzonte, si corica sul pelo dell’acqua risuonano le note classiche di Didone & Enea di Herny Purcell, conferendo al tutto un’atmosfera magica, come la magia dell’anfora e della mourvèdre di Agnès.

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