Se ci mettessimo ad elencare in ordine alfabetico tutti gli ingredienti, additivi compresi, i coadiuvanti e le pratiche enologiche ammesse per legge nella produzione di vino, prima di arrivare alle “u” di uva impiegheremmo parecchio tempo. La prima volta che si assiste a questo spettacolo si rimane inorriditi, soprattutto se non si fa parte degli addetti ai lavori, un po’ per i nomi spaventosi, che a volte incutono più paura di quanto meriterebbero, un po’ perché la lista è davvero pressoché infinita, da far quasi venire voglia di diventare astemi. Fortunatamente mettersi in salvo da questa duplice disgrazia è possibile grazie ai vini naturali.
Fa sempre effetto rivedere il famoso manifesto dell’associazione francese Vin Sains (Sans Aucun Intrant Ni Sulfite) che mostra a livello visivo la quantità di prodotti e pratiche autorizzate mettendo a confronto vini convenzionali, biologici, biodinamici e naturali.
Come suggerisce il titolo del primo manifesto il vino dovrebbe essere succo d’uva fermentato e nulla più, fatta eccezione per l’aggiunta di anidride solforosa in piccole dosi quando necessario. Come del resto è sempre stato, quantomeno fino a sessant’anni fa, prima della nascita di una scuola enologica fortemente incentrata sull’intervento in cantina che ha finito per standardizzare i gusti di gran parte della produzione di vino mondiale.
Le Triple “A” nascono proprio dalla necessità di distinguere il vino vero, quello proveniente da un’agricoltura rispettosa del suolo, da fermentazione spontanea e da un approccio di cantina senza trucchi e manipolazioni, dai vini che assomigliano più a bevande prodotte e confezionate secondo ricetta. Per questo ben tre punti del catalogo si focalizzano sull’aspetto enologico, specificando che i vini Triple “A” possono nascere solo:
Ma qual è dunque il ruolo in cantina di un produttore naturale? Non si tratta di lasciare che il vino si faccia da solo, ma di accompagnarlo nel suo naturale divenire. È curioso come in francese il verbo élever venga usato per la maturazione di un vino e al tempo stesso per l’educazione di un bambino, che non va costretto, ma indirizzato e accompagnato nella crescita secondo le sue naturali predisposizioni. In questo senso in cantina è necessaria la conoscenza di un grande artigiano, colui che ha la sensibilità di comprendere e di saper interpretare le potenzialità di una materia prima sempre differente. E come succede a ogni vendemmia con l’uva per il cantiniere, allo stesso modo avviene a ogni mungitura con il latte per un casaro, a ogni mezzena con la carne per un norcino, a ogni stagione con gli ingredienti per un grande chef. Un savoir-faire che si raggiunge solo col tempo e con l’esperienza del gesto.
Quando chiedemmo a Binner come mai avesse deciso di studiare a enologia nonostante fosse cresciuto in una famiglia di produttori naturali e avesse ben chiaro in testa con che tipo di approccio avrebbe portato avanti il lavoro in cantina, ci rispose che lo fece non tanto per imparare cosa fare, ma per conoscere il perché delle cose. Solo attraverso la conoscenza si diventa in grado di fare una scelta consapevole.
E se davanti a due calici sapeste che da una parte sta un succo d’uva fermentato spontaneamente e dall’altra un vino ottenuto da un mosto acidificato con acido tartarico e addizionato di mosto concentrato rettificato o concentrato per osmosi inversa, fermentato con lieviti selezionati, con dosi massicce di solforosa, microfiltrato, chiarificato, reso tannico con l’infusione trucioli di rovere e più morbido con la soluzione di gomma arabica, voi che scelta fareste?
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