Uno degli aspetti fondamentali che distingue i vini naturali dal resto del panorama vinicolo riguarda la fermentazione, ossia il processo chimico durante il quale lo zucchero viene trasformato in alcol e anidride carbonica. Non solo però, perché durante la fermentazione si verifica la vera e propria trasmutazione dell’uva in vino, un processo che ha del magico perché capace di rendere una materia deperibile come l’uva, un prodotto vivo capace di sfidare il tempo, cambiando ed evolvendosi. Gli artefici di questa sostanziale mutazione della natura del liquido sono i lieviti, organismi unicellulari appartenenti alla famiglia dei funghi e invisibili ad occhio nudo.
Per millenni le fermentazioni si sono svolte in maniera spontanea, innescate dai lieviti naturalmente presenti sulle bucce delle uve, i cosiddetti lieviti indigeni diversi da zona a zona e da vigneto a vigneto. Quando Serge Hochar diceva che “i lieviti sono lo sperma del vino” intendeva proprio questo: la capacità di questi microorganismi di trasmettere al vino le caratteristiche uniche di un luogo e di un’annata. Per questo il quinto punto del nostro decalogo che stabilisce che “un vino Triple “A” è ottenuto utilizzando solo lieviti indigeni ed escludendo i lieviti selezionati” rappresenta uno dei punti cardine che distingue i vini naturali dai vini convenzionali: la differenza che fa la differenza per eccellenza!
I lieviti selezionati sono ceppi di lieviti isolati in laboratorio per le loro caratteristiche sia tecnico-produttive (come la resistenza all’alcol etilico, alle basse temperature e a pH bassi) che aromatiche, ossia per la capacità di sviluppare determinati aromi nel vino. Oggi la stragrande maggioranza dei vini di tutto il mondo è ottenuta tramite l’impiego di lieviti selezionati, causa scatenante della standardizzazione dei gusti del vino, cui si è assistito negli ultimi cinquanta anni.
Infatti, una volta terminata l’attività vitale, le pareti cellulari dei lieviti vanno incontro a processi di autolisi formando le cosiddette “fecce fini”, che nel tempo aumentano e arricchiscono ulteriormente la complessità aromatica del vino. Ecco perché, secondo i produttori naturali, i lieviti selezionati non possono che impoverire, standardizzare e limitare le sfaccettature gustative che un vino può assumere, svilendone la materia prima.
Del resto è sufficiente fare una ricerca su internet, per trovarsi di fronte a un’ampia gamma di lieviti secchi attivi, ognuno dei quali dichiaratamente in grado di sviluppare ed esaltare sia aspetti come struttura o morbidezza, sia veri e propri profili aromatici specifici. Così l’industria, in pochi anni, in cambio di una presunta maggior stabilità produttiva, ha sdoganato fermentazioni ipercontrollate, in cui il ruolo del produttore si limita alla scelta dei ceppi volti a far risaltare determinati sentori giudicati caratteristici, o meglio “spacciati per tipici”, di un certo vitigno (si pensi al peperone verde di alcuni cabernet sauvignon o alla banana di certi chardonnay).
L’impiego dei lieviti di laboratorio, preferiti ai lieviti indigeni provenienti dalle bucce delle uve, è una diretta conseguenza dell’avvento della chimica in vigna. La diffusione a macchia d’olio di diserbanti, pesticidi e fertilizzanti dei primi anni ’60 hanno in poco tempo annientato la vita microbiologica dei vigneti d’Italia, costringendo i produttori a ricorrere ai lieviti selezionati per l’avvio della fermentazione.
Piaccia o non piaccia, oggi tra i vini considerati migliori al mondo, ne spiccano diversi a fermentazione spontanea, a conferma che non è solo questione chimica, ma di capacità del vigneron.
I lieviti indigeni in fermentazione vanno saputi gestire, per questo il vino naturale non è roba per tutti. I vignaioli naturali trovano la loro arma segreta nella terza delle Triple “A”: artisti.
Un’arte intesa sia come estro creativo, sia alla greca come téchne, ossia ripetizione del gesto, mirato a una perfezione irraggiungibile, ma capace di adattarsi alle circostanze, a tutte le variabili che rendono ogni vendemmia diversa dalla precedente.
Come ha scritto Alessandro Dettori sul suo blog: “Non ho imparato in un mese di cantine a non fare il piede di partenza, a non inoculare i lieviti ed ogni altro additivo o coadiuvante, a non modificare alcun parametro chimico del vino. È difficile apprendere come non usare niente di niente se non si è vissuto almeno un anno in vigna, perché la complessità e quindi la qualità biochimica degli zuccheri, alcoli, acidi, tannini, solo per citarne alcuni, non nascono in cantina, ma in vigna grazie all’uomo, alle viti e grazie a tutto il resto che ben riassume il Genius Loci.” Ecco quindi che solo attraverso un’agricoltura attenta e pulita, frutto dell’osservazione e di una relazione sinergica con la natura, si potranno portare in cantina uve sane e microbiologicamente “vive”, capaci quindi di affrontare una fermentazione spontanea e processo di vinificazione privo di forzature e costrizioni, per una vera espressione del terroir.
Nonostante tutto buona parte della critica, del giornalismo e, di conseguenza, del pubblico continua comunque a reiterare un concetto ormai obsoleto, che lega in modo indissolubile la fermentazione spontanea a un vino difettato.
Arriverà un giorno in cui il vostro compagno di bevute, forte magari del suo diploma da sommelier fresco fresco, tirerà fuori questa storia. Fategli leggere questo articolo o, se siete in vena di cattiveria, rispondetegli che riporterete in cantina quella bottiglia di Clos de Bèze di Prieuré-Roch che avevate pensato di aprire, ma di non preoccuparsi, che in frigo avete uno chardonnay con un sentore di banana che è tutto un’emozione.