Un’analisi sul ruolo delle denominazioni di origine nell’individuazione della tipicità dei vini e dell’autentica espressione di un territorio, attraverso le testimonianze dei nostri Agricoltori, Artigiani, Artisti.
DOCG, DOC, IGT E VINI DA TAVOLA: COSA SONO E COSA COMPORTANO
Se frequentate ormai da un po’ il mondo dei vini naturali vi sarete accorti di una cosa: capita spesso di trovarsi tra le mani bottiglie di zone importanti o di produttori noti che non riportano in etichetta alcuna denominazione di origine, ma la semplice dicitura “vino bianco” o “vino rosso”, quella che secondo la legislazione italiana rappresenta il gradino più basso della classificazione dei vini, gli ex “vini da tavola”.
Esiste difatti un vero e proprio sistema piramidale di “classificazione di qualità” che vede al vertice le DOCG, le Denominazione di Origine Controllata e Garantita, seguite dalle DOC, le Denominazioni di Origine Controllate, le IGT, le Indicazione Geografiche Tipiche e i Vini da Tavola, oggi suddivisi a loro volta in Vini Varietali e Vini Generici.
Le denominazioni geografiche nascono con l’intento di difendere la tipicità dei prodotti, un sistema di tutela nei confronti del consumatore che non riguarda solo il vino, ma anche i prodotti agroalimentari con le DOP e le IGP, le Denominazioni di Origine Protetta e le Indicazione Geografiche Protette. In parole povere, le denominazioni geografiche garantiscono per legge provenienza delle materie prime e luogo e metodologia di produzione che rispondo a dei precisi disciplinari.
Ad esempio acquistando un Barolo DOCG, potremmo essere sicuri che le uve con cui è ottenuto sono al 100% di varietà nebbiolo raccolte e trasformate all’interno degli 11 comuni ammessi e che il processo produttivo risponde a determinate regole contenute appunto all’interno del disciplinare. Se da un lato le denominazioni geografiche assolvono a un compito di autodifesa dei prodotti tipici italiani nel nostro paese e all’estero, altresì dovrebbero garantire al consumatore di trovarsi di fronte a un prodotto di qualità superiore. Persino gli astemi identificherebbero un Chianti Classico DOCG o un Brunello di Montalcino DOCG con un prodotto in qualche modo “di maggior qualità e garanzia” rispetto a un Toscana Rosso IGT. E a ciò si aggiunga che questo comporta anche un’altra percezione di valore intrinseco e commerciale del prodotto.
COME SI OTTIENE UNA DENOMINAZIONE DI ORIGINE?
L’ottenimento di una denominazione di origine passa attraverso due sistemi di controllo gestiti dalle Camere di Commercio di zona o da enti ed organismi accreditati a farlo. Il primo step riguarda le analisi chimico-fisiche del prodotto per verificarne la corrispondenza con i parametri previsti dal disciplinare, il secondo invece fa riferimento a un esame organolettico tenuto da una commissione composta da enologi, degustatori appartenenti a determinate associazioni nazionali di degustazione dei vini e altri esperti operanti nel settore.
È il produttore quindi a dover far richiesta della denominazione di origine con la compilazione di moduli e l’invio di campioni del prodotto per la verifica di aderenza di un determinato vino ai parametri chimico-fisici richiesti e alle “caratteristiche organolettiche tipiche”.
Il risultato viene espresso in termini di idoneità, di rivedibilità e di non idoneità. La legge garantisce di poter ripetere entrambi gli esami fino a due volte, applicando in caso di rivedibilità o di non idoneità “modifiche o aggiustamenti” del prodotto in esame. Dopo il riesame un eventuale esito nuovamente negativo comporta il declassamento del prodotto al gradino inferiore della denominazione di origine.
Parecchi vini Triple “A” negli anni sono state vittime di questi declassamenti. Abbiamo voluto raccogliere varie testimonianze dei nostri produttori per provare a capirne di più.
I VINI DECLASSATI
Come dicevamo, nel caso di denominazioni geografiche di notevole importanza, il declassamento può portare a un certo danno d’immagine del prodotto sul mercato. Pensate alla percezione di un consumatore estero che vede un prodotto comunemente riconosciuto come Brunello di Montalcino, uscire come Toscana Rosso IGT.
Il caso ha coinvolto in diverse annate i nostri produttori proprio di quest’area. Florio Guerrini del Paradiso di Manfredi, nell’anno della sua trentesima annata, la 2011, si è visto ritenere non idoneo all’assaggio il suo Brunello di Montalcino perché non presentava le caratteristiche di tipicità organolettiche. Florio è stato costretto dunque a fare del suo Brunello 2011 un Toscana Rosso IGT, il “Trentennale”.
La stessa cosa è successa anche a Podere le Ripi con il loro Brunello di Montalcino Cielo d’Ulisse 2014. “La 2014” ci racconta l'enologo Sebastian Nasello “è stata un’annata diversa dalle altre a Montalcino, come in gran parte d’Italia. Si trattava di un’annata fine, molto piovosa e di poca concentrazione con struttura molto lineare e diluita. Abbiamo prodotto un Brunello che secondo noi era proprio rappresentativo e tipico di questa annata”. La commissione di assaggio ha decretato rivedibile il prodotto a causa di una tintura del colore “troppo leggera”e di una struttura a loro parere troppo debole. “La legge” continua Sebastian “consente dei cosiddetti tagli di ringiovanimento. Ossia avremmo potuto aggiungere al 2014 fino al 17% di un vino atto a diventare Brunello di un’annata più giovane e più concentrata come ad esempio la 2015 per correggere la tonalità del vino, modificandone anche l'essenza strutturale”. Sorvolando sulla “non misurabilità” del parametro, viene da chiedersi come mai l’espressione naturale di una determinata annata su un vino debba essere considerato un fattore di atipicità. Va da sé che correggere o modificare il vino non fa affatto parte dell’ideologia Triple “A”. “Abbiamo rimandato alla commissione lo stesso identico vino ed è stato bocciato. Siamo stati costretti a declassare il vino a Toscana Rosso IGT Cielo d’Ulisse, un danno enorme”. Anche se a nostro parere e come la pensano anche i ragazzi di Podere Le Ripi, il Cielo d’Ulisse 2014 è una grande espressione di Brunello di Montalcino sincerca e fedele all'identità dell'annata e superiore alle migliaia di bottiglie di Brunello della stessa annata che hanno preso posto sugli scaffali dei supermercati a prezzi non concorrenziali perché ottenuti da metodi di lavorazione di tipo convenzionale, resta il fatto che dover spiegare questo fatto un potenziale consumatore non è affatto semplice e concorre a una “svalutazione del vino”.
Andando al di fuori del panorama italiano, chi non ricorda la torrida 2003? Il Kras Terrano di Cotar fu giudicato non idoneo perché il livello di acidità non rientrava nei parametri previsti dal disciplinare. Di acidificare o tagliare il vino con altre partite più acide per Branko e Vasja era fuori discussione. Furono costretti a declassare il loro Terrano, sempre quando migliaia di bottiglie di con la denominazione di origine Kras invasero il mercato, pur non potendo essere rappresentativi di un’annata siccitosa ed estremamente calda. Viene da chiedersi quale fosse la versione di Terrano veramente rappresentativa e autentica di quell’annata.
Un caso ancora più assurdo riguarda Nicolas Joly quando si vide ritenere atipica dalla commissione un’annata della sua Coulée de Serrant. I vigneti che rientrano nell’AOC in questione appartengono in toto a Nicolas Joly. Come può una commissione bocciare l’unico esemplare di vino appartenente a una denominazione d’origine? Come scrive proprio Nicolas nel suo libro La vigna, il vino e la biodinamica "Spesso il criterio oggi applicato per ottenere il diritto all'AOC non è più quello della sua piena espressione, ossia della sua originalità, ma piuttosto quello di un vino molto lineare, assai netto, privo di difetti e alquanto apolide".
I VINI FUORI DALLE DOC
Molti produttori naturali stufi di vedersi bocciati vini davvero rappresentativi di un territorio perché ottenuti da vere e proprie tecniche agronomiche e di cantina rispettose della materia prima hanno scelto di percorrere una strada più drastica: mettersi di propria spontanea volontà al di fuori delle DOC.
Ne abbiamo parlato con Elena Pantaleoni di La Stoppa riguardo al suo Trebbiolo, un potenziale Gutturnio DOC. “Ho scelto di abbandonare la DOC nel 2008, pur non avendo mai avuto una bocciatura, perché non ho visto un lavoro sull’identità del nostro territorio. Allora mi sono detta se una cosa non serve non la faccio, sorvolando sul fatto che fare richiesta di una DOC oltre che un costo è anche un rallentamento ai lavori. Le Doc dovrebbero essere un patrimonio collettivo, ma non mi sentivo rappresentata da una denominazione in cui rientrano vini industriali e in cui non c’era intenzione di dare un valore aggiunta al territorio. Il Gutturnio all’ingrosso costa perfino meno del Lambrusco,”. Elena era convinta che l’uscita de La Stoppa dalla DOC fosse un modo di dare un segnale forte e chiaro “sarei stata disposta a rientrare se le cose fossero cambiate. Invece niente, il mio segnale è caduto nel vuoto: nessuno ha voluto lavorare sull’identità di un territorio, cosa su cui io ho proprio fondato tutto il mio lavoro”. Così Elena punta sull’IGT Emilia, finché nel 2016 decide di declassare il Trebbiolo a vino rosso, la garanzia del suo lavoro e della qualità del suo vino resta nel nome La Stoppa. “L’unica cosa che faccio adesso è di farmi certificare l’annata, perché come vino rosso non potrei scriverla neanche in etichetta, così come i vitigni che non possono essere riportati per legge. Per me l’annata è fondamentale quindi mi affido su questo a un ente certificatore”.
C’è perfino chi alle DOC ci ha rinunciato in partenza, è il caso di Martin Gojer di Pranzegg che in etichetta si “autocensura” la dicitura Campill. Il caso è leggermente diverso. Campill è una menzione geografica aggiuntiva per i vini AltoAdige DOC ottenuti da uve provenienti dai vigneti di quella zona dove si trova proprio il maso Pranzegg.
“Per poter aggiungere la menzione geografica aggiuntiva Campill, dovremmo far approvare i nostri vini dalle commissioni per le DOC e per giunta non potremmo metterla su vitigni autoctoni come la schiava o il lagrein perché è concessa solo su vitigni internazionali come cabernet sauvignon e chardonnay. Quando ho iniziato a fare vino, ho invitato il segretario della commissione per la DOC che è un mio buon conoscente e amico ad assaggiare dalle botti. Lui era entusiasta, ma mi ha detto fin da subito che i miei vini erano troppo fuori dai canoni per passare l’esame di assaggio in commissione. Così ho deciso di lasciare perdere fin da subito”.
Un ultimo celebre caso riguarda i vini di Cascina degli Ulivi, azienda di Novi Ligure all’interno della DOC Gavi. Stefano Bellotti è sempre stato un vignaiolo controcorrente, ma sicuramente la DOC in etichetta era una scelta commerciale importante, soprattutto per il mercato estero. Uno dopo l’altro, a partire da Filagnotti e Montemarino, due delle migliori espressioni di cortese al mondo, i vini di Stefano sono stati declassati a vino bianco (su qualche vecchia annata infatti potrete ancora trovare la DOC Gavi). L’ultimo è stato proprio il Gavi nel 2015, che bocciato per la prima volta ha fatto infuriare Stefano.
La sua risposta è stata di declassarlo a vino bianco, di rinunciare a mandare qualsiasi vino alle commissioni in futuro e di chiamarlo Ivag, sulla falsa riga di tutti quei produttori di Tokaj che si son visti proibire l’uso del nome del vitigno una volta diventato a uso esclusivo dei produttori ungheresi. Così è nato infatti il celebre Jakot di Stanko Radikon.
CONSIDERAZIONI A MARGINE
Oggi sempre più spesso per fortuna i consumatori fanno meno riferimento alle denominazioni di origine, soprattutto se si rivolgono a vini di qualità e di un certo prezzo. Le storie di questi produttori controcorrente e di questi vini fuori dal coro spesso finiscono per dare il vero valore aggiunto a queste bottiglie. Non siamo contrari alle denominazioni di origine, che sicuramente hanno la loro ragione di esistere, rimaniamo solo basiti dall’ingessamento delle istituzioni che spesso per ragioni economiche e di mercato preferiscono dare pregio e popolarità a vini che secondo la nostra idea non sono rappresentativi del territorio. Il territorio nel calice si riflette principalmente attraverso una conduzione agronomica virtuosa dei vigneti e attraverso un accompagnamento delle uve al loro naturale divenire. Quelli che dovrebbero essere punti di riferimento finiscono per essere messi ai margini. Ma la rivoluzione è in atto e chi non se ne rende ancora conto ha vita breve. E voi, la prossima volta che vi capita di trovarvi di fronte a una bottiglia senza DOC o IGT, pensateci due volte, chiedete al vostro oste di fiducia come mai, spesso vi capiterà di sentire una storia come quelle che vi abbiamo appena raccontato e allora sarà il momento di dare fiducia a quei produttori che hanno fatto del loro credo la propria ragione di vita.