Da quando lavoro nel mondo del vino naturale, ogni volta che vado a pranzo da miei parenti, mio zio, un ottimo cuoco devo dire, si preoccupa di farmi trovare in tavola una bottiglia di vino biologico. Ahimè, quello che mi ritrovo nel calice regolarmente non rende giustizia alle sue abilità in cucina e troppo spesso finisce per essere un vino che di artigianale ha poco o nulla e con il mondo del naturale ha ben poco da condividere.
Non gliene faccio certo una colpa: la confusione in materia è tanta, troppo spesso diffusa anche tra gli addetti al settore e le differenze tra un vino biologico e un vino naturale finiscono per essere di difficile comprensione per chi il vino si limita a berlo quotidianamente. Del resto, dal punto di vista legislativo, “vino naturale” non significa nulla e si rischia di confonderlo con il biologico, che forte della sua retorica, viene identificato dal consumatore come prodotto buono e sano per l’ambiente e per chi lo beve. Ma il più delle volte non è così.
Fino al 2012, il vino biologico non esisteva: l’unica dicitura consentita era vino “da uve di agricoltura biologica”. Questo garantiva che dal punto di vista agricolo la materia prima impiegata fosse ottenuta tramite una conduzione agronomica dei vigneti in linea con quella portata avanti dai produttori del movimento naturale: solo rame e zolfo ed esclusione di pesticidi, diserbanti e prodotti di chimica di sintesi. Nel 2004, sotto la spinta dei produttori e degli importatori non comunitari, la Commissione Europea diede il via a un piano d’azione per la stesura di un regolamento specifico che coinvolgesse anche gli aspetti di trasformazione delle uve in cantina.
Dopo anni di dibattito, il Regolamento n.203/12, entrato in vigore il primo agosto 2012, sancì definitivamente una soluzione per l’adozione della dicitura “vino biologico” che finì per accontentare pochi e deludere molti altri. Dal punto di vista pratico, le norme in materia di vinificazione biologica finirono per escludere una decina di processi e pratiche enologiche particolarmente invasive che, a detta del legislatore, “modificano notevolmente la composizione del prodotto al punto da poter trarre in inganno quanto alla vera natura del vino biologico”. Furono quindi messi al bando trattamenti enologici quali la concentrazione parziale a freddo, l’eliminazione dell’anidride solforosa mediante processi fisici, il trattamento per elettrodialisi o con scambiatori di cationi per garantire la stabilizzazione tartarica del vino, la dealcolizzazione parziale del vino, i trattamenti termici superiori ai 70 °C e le centrifugazioni e filtrazioni con dimensione dei pori inferiori a 0,2 micrometri. Inutile dire che tutti questi processi e pratiche enologiche sono appannaggio dei peggiori vini industriali.
Un’altra questione di intenso dibattito riguardò le quantità addizionabili consentite di solfiti. L’anidride solforosa, oltre a essere tossica per l’essere umano e maggior imputata dei cosiddetti “hang over”, è un allergene e per questo dal 2004 è obbligatoria l’indicazione “contiene solfiti” in etichetta nel caso superi i 10 mg/l. La soluzione adottata nella legislazione per la definizione del vino biologico anche in questo caso optò per una minima riduzione dei limiti massimi consentiti per legge per la produzione di un vino convenzionale.
Di fatto, ad oggi i vini biologici, se quantomeno da un lato condividono con i vini naturali il tipo di conduzione agronomica del vigneto, dall’altro ammettono pratiche di vinificazione in cantina che non si discostano in maniera rilevante da tutto ciò che è consentito in una vinificazione convenzionale. Un vino biologico rosso può essere ottenuto tramite l’utilizzo di lieviti selezionati, batteri lattici, gomma arabica, pezzi di legno di quercia e tannini aggiunti. Allo stesso tempo può subire processi di correzioni di acidità e contenere, in caso di residuo zuccherino fino ai 2g/l, fino a 100 mg/l di solforosa. Quello definito nel documento “Norme UE per la produzione di vino biologico. Contesto, valutazione e ulteriore sviluppo”, redatto dal Gruppo IFOAM UE, come “il miglior compromesso possibile” infatti non ha fatto altro che dare accesso alla produzione di vino biologico ad aziende di natura industriale.
Il risultato è che la certificazione biologica non assicura in nessun modo al consumatore un rapporto più intimo tra vino e territorio, né una ridotta sofisticazione del prodotto, né tantomeno una presunta maggior salubrità di esso. Non a caso, come succede nelle DOC, molti vignaioli naturali hanno deciso di rinunciare di proposito a una certificazione alla quale avrebbero avuto sicuramente accesso, ma che non assicura in alcun modo un valore aggiunto, né al consumatore in termini qualitativi, né a loro in termini economici. Del resto che senso avrebbe per loro entrare a far parte di una categoria di vini che non presentano affatto standard operativi e qualitativi uniformi?
La prossima volta che vi capiterà di fare un giro tra gli scaffali di un qualsiasi supermercato, passando davanti al reparto dei vini, chiedetevi come sia possibile trovare bottiglie di vino biologico a dei prezzi a dir poco irrisori, che per un qualsiasi produttore del movimento naturale non sarebbero neanche sufficienti per ripagare il lavoro in vigna e il costo di confezionamento. Io proverò a farlo capire a mio zio, o almeno mi limiterò a far sì che lui si occupi dei fornelli, al vino la prossima volta ci penso io.
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