Il racconto di due bottiglie che hanno sancito l’inizio della mia amicizia con Francesco Brezza, contadino di Tenuta Migliavacca, la prima azienda biodinamica d’Italia.
STORIA DI UN’AMICIZIA
Saranno stati circa otto anni fa. Mi siedo in un ristorante semplice ma pieno di piccole attenzioni, perso ai piedi delle colline del Monferrato astigiano, da Bandini, a Portacomaro, città cosiddetta del Grignolino, e l’anfitrione, Antonello Bera, mi offre un calice di Grignolino della Tenuta Migliavacca di Francesco Brezza, del Monferrato Casalese. Assaggiai un paio di piatti e scambiammo parecchie parole. Al momento del conto, Antonello mi mise in mano una bottiglia, dicendomi che si trattava di un vino introvabile, la Brezzolina, un bianco che Francesco Brezza produce in pochissimi esemplari e concede a bottiglie a pochi clienti ma soprattutto amici.
Inviai un’e-mail a Francesco per complimentarmi per entrambi i vini e, cosa rara a detta di molti, lui, più dedito alla campagna che alla tecnologia, mi rispose quasi subito. Organizzammo un incontro e entrai in contatto con un uomo generoso, un contadino onesto, competente e appassionato, un vignaiolo d’altri tempi con cui nacque immediatamente la voglia di condividere un sorso di vita prima ancora che un bicchiere di vino. Nacque una bella amicizia, passeggiando tra quei filari, osservando i fili d’erba, accarezzando il toro nella stalla, odorando l’orzo pronto per sfamare i vitelli e ascoltando i racconti di quella tenuta autosufficiente, completamente condotta con i principi dell’agricoltura biodinamica.
Recentemente ho pranzato a Casa Anna, delizioso ristorante nelle colline dell’alessandrino, gestito da Gianni, Anna e Silvia, un tempo titolari del Bivio di Quinto Vercellese, appassionati sinceri di cibi veri, ingredienti selvatici e di vini altrettanto naturali e privi di inutili mediazioni. Alla cieca mi hanno presentato una bottiglia che, con un po’ di fortuna e intuito, sono riuscito a riconoscere come la Brezzolina. Come avevano fatto a capire il legame speciale che mi univa a Francesco? Perché anche loro avevano voluto omaggiare l’ospite mai visto prima con quella bottiglia da condividere insieme? Si potrebbe parlare di energia vitale, legami non facilmente spiegabili come semplici coincidenze. Il Curato d’Ars diceva: “Gli amici di Dio si riconoscono sempre”, intendendo probabilmente che alle persone che condividono un’eguale sensibilità di idee, di intenti e di interessi non servono moltissime parole per capirsi e identificarsi.
Chiamai immediatamente Francesco al telefono, per salutarlo e per organizzare di rivederci presto, cosa che ci è riuscita solo di recente.
UN ORGANISMO AGRICOLO AUTOSUFFICIENTE
Dopo i mesi della segregazione, abbiamo voluto tornare tra i filari, per rinsaldare la nostra amicizia da dov’era iniziata, da quella considerazione e convinzione comune, che di questa terra siamo solamente custodi e dobbiamo restituirla alle generazioni successive in salute migliore di come l’abbiamo ricevuta.
Francesco Brezza è un agricoltore vero, appassionato del suo lavoro. Ha ricevuto in eredità l’azienda agricola dal padre, Luigi, il primo vignaiolo in Italia ad introdurre tra i filari i principi dell’agricoltura biodinamica. Quando arrivarono i trattamenti cosiddetti “moderni”, frutto delle scoperte della chimica di sintesi, che, particolarmente “appiccicosi”, a differenza delle aspersioni con solfato di rame, non avevano necessità di essere ripetuti immediatamente dopo una pioggia, i contadini iniziarono con entusiasmo ad approcciarsi a quello che veniva considerato progresso. Ma il padre di Francesco si accorse presto che se entrava nel vigneto dopo i trattamenti, le parti del corpo non coperte sviluppavano una sorta di infiammazione, che il medico del paese descrisse come un vero e proprio avvelenamento. Bisognava lasciare trascorrere almeno tre giorni prima di tornare nei campi in sicurezza dopo aver effettuato i trattamenti. Ma come poteva essere buono per i frutti e per l’uomo un agro-farmaco velenoso per gli esseri umani? Ma c’era di più. Si stava anche diffondendo in pianura, nelle risaie che si vedono giù da basso, in fondo alle colline, la tecnica del diserbo chimico. L’evaporazione ne faceva salire le esalazioni, che venivano trasportate dal vento nelle terre della Tenuta Migliavacca, primo avamposto elevato sulla pianura. E le foglie del Grignolino e della Freisa si modificavano diventando simili a foglie di prezzemolo, la punta dei grappoli non fioriva e i viticci seccavano. Si confrontò con altri agricoltori e, con l’aiuto del prof. Franceco Garofalo, fondatore dell’associazione di consumatori “Suolo e Salute”, si avvicinò ai principi della biodinamica. E iniziò la trasformazione di un’azienda che, praticamente monoculturale vitivinicola, si mosse verso l’ampliamento della propria produzione.
La Tenuta Migliavacca, come prescritto dai principi steineriani, è un “organismo aziendale autosufficiente”, in cui viene prodotta sostanza organica, fornita dai bovini, alimentati dalla produzione aziendale di orzo, mais, fave, erba medica e fieno. Il bestiame trasforma la produzione agricola, la sostanza organica concima i campi e il bestiame, una trentina di bovini, viene parzialmente venduto per sostenere l’azienda e viene utilizzato anche per l’autoconsumo. Quando Francesco manda un paio di vitelli al macello mi chiama sempre e acquisto un po’ di quella carne per condividerla. È praticamente l’unica bistecca che mangio durante l’anno. E la assaggio sempre con qualche amico o amica vegani, che se non lo sono per motivi acriticamente ideologici, ma per ragioni etiche, se ne cibano con soddisfazione. Se tutte le aziende fossero di dimensioni ridotte, autosufficienti e condotte nell’estremo rispetto del territorio e degli animali, la produzione di carne, da consumarsi comunque con parsimonia ma scegliendola di estrema qualità e riconoscendone all’agricoltore il giusto prezzo, non porrebbe problemi di sostenibilità.
E sono i profumi a dare l’idea della differenza di questa azienda da una convenzionale: il profumo delle zolle di terra, il profumo della stalla, dove non ci sono puzze ma odori, il profumo dei cereali, per alimentazione animale, che non riesco ogni volta a resistere dallo sgranocchiare, il profumo del fieno e della paglia, come non ho mai sentito così intenso e ricco in nessuna delle scuderie che ho frequentato nella mia lunga pratica di equitazione ma solamente in alcuni the d’annata. E dove il potenziale aromatico è più intenso, sicuramente lo è anche quello nutrizionale, visto che le sostanze responsabili dell’odore fanno parte del metabolismo primario della pianta. Ripeto l’illuminante frase che mi regalò il prof. Carlo Bicchi, dell’Università di Torino “se una pianta non la si aiuta con la chimica, si aiuta da sé, col proprio metabolismo, e produce più sostanze aromatiche” e quindi anche nutritive.
Negli anni ’70 Tenuta Migliavacca ottenne la certificazione biodinamica Demeter dalla sede tedesca, perché in Italia nemmeno esisteva ancora un’associazione attiva in questo settore. Se oggi la biodinamica è guardata come stregoneria, immaginiamo come poteva essere considerata in quegli anni. E quasi non se ne parlava.
Furono poi gli anni Duemila a vedere la crescita della domanda di prodotti “biologici”, più puliti. Ma Francesco lo dice sempre: “la biodinamica è un valore aggiunto per l’agricoltore, nella sua pratica quotidiana. Non c’è alcuna necessità di comunicarla al consumatore”. La biodinamica non indica cosa seminare, ma insegna il rapporto corretto tra cielo, aria e terra. Francesco Brezza, nel suo territorio, ha trovato un equilibrio tra grano, orzo e erba medica, che poi sono quelle che servono per l’alimentazione animale.
Gli unici trattamenti che vengono utilizzati sono quelli ammessi dalla biodinamica, tra cui il corno-letame e il corno-silice, di cui molti agronomi sono totalmente scettici ma di cui Francesco vede la differenza tra l’utilizzarli o meno, da oltre trent’anni. E si rende conto anche dell’eccesso di azione in caso di utilizzo in dosi non corrette. Insomma, l’esperienza empirica e la serie storica di questa azienda potrebbe essere molto utile alla cosiddetta scienza ufficiale per provare a capire se ci sia qualcosa da spiegare nei risultati ottenuti con queste pratiche. Insomma, Francesco, che ha studiato agronomia, non ha preclusioni, utilizza semplicemente il metodo che gli garantisce i risultati migliori, e la scienza potrebbe giovarsi della sua laicità per provare a capire quali pratiche possano essere comprese più a fondo e trasportate su larga scala, per contribuire a garantire all’agricoltura una maggiore sostenibilità.
Oggi c’è una nuova generazione in casa Brezza, la figlia Cristina, una ragazza dallo sguardo sveglio e profondo, che ha appena intrapreso alle scuole superiori gli studi di agronomia e che desidera anch’essa vivere in armonia con la natura, come imparato dal padre, che ha imparato a sua volta da nonno Luigi. Anch’essa, se vorrà, darà il suo contributo all’equilibrio di questa azienda, di questa terra e di questi vini, di cui non ho parlato, perché basta assaggiarli per ritrovarvi all’interno tutta la verità che ho riconosciuto al primo sorso, che ho ritrovato in Francesco e che, lo dico con una punta d’orgoglio, forse lui ha ritrovato in me e che ci ha permesso di iniziare questa amicizia che mi auguro sia solo all’inizio.