In vent’anni di Triple “A” non mi è mai capitato di avere a che fare con un vignaiolo con cui non abbia condiviso dei momenti unici di scambio e di convivialità. Anzi, spesso e volentieri, le nostre collaborazioni professionali sono nate proprio in nome della condivisione di una componente umana e sociale. Non so se ti tratti di una peculiarità delle Triple “A” o se accada anche altrove, ma a legarci con i nostri produttori, prima ancora dei rapporti commerciali, sono quelli umani.
Qualche settimana fa, durante un viaggio in Francia del sud, mentre ripercorro per la prima volta dopo quasi vent’anni il viale che porta allo Château de Roquefort e alla casa di Raymond de Villeneuve mi è viene quasi il nodo alla gola dall’emozione. Mi sembra quasi di rivivere in una frazione di secondo quel giorno del 2003 che ha fatto scattare la scintilla di un’amicizia che ha sancito l’inizio della sua collaborazione con le Triple “A”.
In tutti questi anni, nonostante avessi continuato a vedere Raymond durante svariate fiere ed eventi in tutta Europa, non avevo più messo piede allo Château de Roquefort. Raymond mi aspetta alla fine del viale, fuori da casa sua: gli brillano gli occhi e mi accoglie con il suo buon italiano “era da vent’anni che aspettavo che tornassi Fabio!”
Come succede con quasi tutti gli Agricoltori, Artigiani, Artisti mi sembra di non essere lì per lavoro, quanto piuttosto per trovare un vecchio amico. Allo stesso modo, quando mi porta a far due passi tra i filari, la visita ai vigneti assomiglia più a una passeggiata accompagnata dai racconti delle nostre vite di questi ultimi vent’anni. La deformazione professionale di entrambi però fa convergere la nostra attenzione su tre uomini che lavorano all’impianto di un nuovo vigneto. Quando chiedo a Raymond cosa stiano facendo, mi risponde con fierezza “qui facciamo gli innesti in campo, Fabio”.
Oggi l’impianto di un nuovo vigneto, nella stragrande maggioranza dei casi, passa attraverso l’acquisto dai vivai di barbatelle già innestate, ossia di piccole piante di vitis vinifera innestate su piede americano. L’innesto è diventata una pratica consueta dopo l’avvento della fillossera che tra il 1800 e il 1900 ha messo in serio pericolo l’intero vigneto europeo. La fillossera, infatti, è un piccolo insetto che attacca l’apparato radicale della vite, facendo morire la pianta nel giro di poco tempo. Dopo svariati tentativi di sopperire a tale problematica, la soluzione adottata fu quella di innestare la vitis vinifera su piante di varietà di vite americana resistenti alla fillossera. Per questo oggi, fatta eccezione per rarissimi casi, tutte le viti europee sono costituite da due specie di vitis: il piede, ossia l’apparato radicale, americano e il capo, ossia la pianta vera e propria, di vitis vinifera.
Raymond però, piuttosto di comprare le barbatelle, preferisce essere in qualche modo vivaista di sé stesso facendo lui stesso gli innesti in campo ed è uno dei pochissimi a farlo. Mentre ci avviciniamo agli uomini in mezzo al vigneto mi racconta la loro storia “non sono in molti a fare questo lavoro, io mi affido a questi portoghesi di Viveiros VitiOeste. La primavera scorsa abbiamo piantato in campo la vite americana, ora, dopo un anno, siamo pronti ad innestare la vitis vinifera”. I tre si suddividono equamente i lavori e sfilano ritmicamente lungo i filari pianta dopo pianta. Il primo taglia alla base la piccola vite americana e pratica una fessura nel piccolo tronco della pianta, il secondo lo segue con tanti piccoli tralci di vitis vinifera, li affila con un coltellino, ne infila uno o due nella fessura a seconda della dimensione della sezione del taglio e lega il punto d'innesto, il terzo chiude le file ricoprendo con la terra la pianta fin sopra la legatura.
“Da dove vengono i tralci che innestate?” chiedo a Raymond. “Sono tutti frutto di una selezione massale” mi risponde “alcuni li ho selezionati personalmente all’interno del mio vigneto per dare nuova vita alle piante che negli anni hanno dimostrato di avere grande potenzialità, altre, per accrescere ulteriormente il patrimonio di biodiversità genetica del mio vigneto, li acquisto da Lilian Berillon, uno dei pochi vivaisti di tutta la Francia che ha deciso di scommettere sulla selezione massale piuttosto che su quella clonale. Non a caso la stragrande maggioranza dei vignaioli naturali del sud della Francia si rivolge a lui.”
“L’anno prossimo” continua Raymond “a primavera scoprirò le piante e taglierò le piccole radici superficiali che avranno formato i tralci, forzando l’innesto. Allo stesso tempo, nel caso siano piante a doppio innesto, sceglierò il tralcio più bello e taglierò l’altro alla base. È un’operazione che dura tre anni, comprare una barbatella già innestata sarebbe più semplice, ma i risultati sono nettamente diversi”.
“Anche il piede proviene da una selezione massale?” chiedo ingenuamente. Raymond si incupisce e mi spiega “Oggi la comunità europea vieta l’uso di portainnesti selvatici, sei obbligato a prenderli di selezione clonale. Nonostante alcuni paesi, come ad esempio il Portogallo, si siano duramente opposti, oggi non si può fare diversamente. Il problema è che si tratta di materiale quasi esclusivamente in mano all’agroindustria che comporta una continua e non curante perdita di biodiversità genetica. Sai, Fabio, anno dopo anno mi sembra che questo mondo vada al contrario: il progresso diventa sempre più folle e le cose normali finiscono per sembrare incredibili. Quando racconto di fare l’innesto in campo, molti mi guardano come se facessi qualcosa di straordinario, invece non c’è niente di straordinario in quello che faccio, non è altro che una normalità per i veri agricoltori. La mia speranza è ci sia un ritorno al futuro, che prima o poi tutti i vignaioli possano ricominciare a fare il loro lavoro”. Dopo un attimo di silenzio Raymond incalza “ma sei venuto qui a parlare di lavoro o a trovare un vecchio amico!?” Ridiamo, salutiamo i portoghesi e torniamo verso casa.
La giornata, come da consuetudine, finisce a tarda notte seduti attorno al tavolo della cucina di Raymond in compagnia di sui tre amici: il proprietario di un piccolo bistrot berlinese e due illustratrici austriache, una che si occupa di libri per bambini e l’altra che disegna le etichette dello Château de Roquefort. Durante la cena faccio spola dalla casa di Raymond alla cantina, riempiendo di volta in volta la caraffa tra le diverse vasche di Petit Salé e di Corail. Oggi le degustazioni preferisco farle così, se il vino è buono, e non avevo dubbi in proposito, stimola la conversazione e invece che concentrarsi sul contenuto del bicchiere ci si perde tra le chiacchiere.
Quando di ritorno a Genova, riordino gli appunti per scrivere il pezzo, mi accorgo di avere dimenticato di scrivere il nome dell’azienda dei tre ragazzi portoghesi. Prendo il telefono e lo chiamo. “Raimondo! Come stai?” “Ti stavo pensando Fabio. Stavo ascoltando una canzone che si chiama Quand tu reviendras”. Ridiamo. “Presto Raimondo, giuro che questa volta non aspetterò altri vent’anni”.
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