Alessandra Bera è una delle più grandi cuoche che abbia mai incontrato. Cuciniera, dovrei definirla, per il significato ancestrale che aveva questa espressione, ben lontana dai voli pindarici degli attuali protagonisti della cucina. La cuciniera era l’interprete instancabile della tradizione del focolare, in questo caso astigiano, che era ed è ancora funzionale a sottolineare un tempo liturgico, a celebrare una ricorrenza, a ricordare un antenato.
Alessandra, in azienda, si occupa soprattutto della parte d’ufficio, dell’accoglienza, della relazione con i clienti e degli eventi di promozione in Italia e all’estero.
É anche una mamma e Vittoria, ormai adulta, ha iniziato ad affiancarla in ogni sfaccettatura del mestiere di vignaiola, che è più impegnativo che romantico. Ma, quando il lavoro le dà tregua, prende in mano il “casù”, il mestolo, e inizia a cucinare, con la sicurezza e il sorriso di chi ha ripetuto quei gesti molte volte e la consapevolezza austera di chi è cosciente di celebrare un rito di cui potrebbe essere l’ultima depositaria. È una delle poche persone a cui non mi arrischio a proporre alcuna piccola variazione su una ricetta.
Gianluigi Bera è il più grande conoscitore di storia della gastronomia piemontese, e non solo, che abbia mai incontrato. Ha letto e discusso incessantemente i risvolti di una tradizione alimentare contadina che, con l’arrivo di un minimo benessere, si fece quantomeno piccolo borghese, assorbendo gli stimoli della cucina di corte.
La sua genuina passione e la competenza appuntita ne fanno il depositario di un sapere, anch’esso in via d’estinzione, che rivendica lo stesso stile con cui si occupa della cantina ereditata dal patriarca Vittorio, recentemente scomparso, che, nel 1964, iniziò a vinificare in queste colline il Moscato dolce, ampliando ben presto i propri interessi a altre tipologie di vitigni e di stili di vinificazione.
Quando si inizia a parlare di cucina a Gianluigi si illuminano gli occhi e non si smetterebbe più di ascoltarlo. Per me, che sono un maniaco della materia come lui, è una festa potermici confrontare e riusciamo sempre nell’intento di diventare presto asociali e perderci tra assaggi e chiacchiere su dettagli gastronomici del tempo che fu.
L’accoglienza in casa Bera non è un’opzione, è religione. E, il Venerdì Santo, quando arrivo in Regione Serra Masio, a Canelli, vengo accolto sulle scale da entrambi i fratelli. Il cielo è grigio, carico di umidità, e invochiamo immediatamente la pioggia, che da troppo tempo latita su queste colline arse dal sole, ormai tropicale, di un’era climatica impazzita o condotta alla pazzia dall’uomo. Senza ombrello ci avventuriamo nelle vigne attorno alla cascina, che le pur sparute gocce, hanno illuminato di fiori gialli di senapi e di altri piccoli boccioli. L’erba si è fatta verde in meno di ventiquattr’ore, ma le zolle hanno ancora molta sete e cadranno in tutta la giornata soltanto pochi millimetri d’acqua, non abbastanza.
Nell’unico giorno in cui non suonano le campane dobbiamo affidarci all’orologio per entrare in casa e sederci a tavola a mezzogiorno in punto, come hanno sempre fatto i contadini, miei nonni inclusi. Negli altri giorni dell’anno il campanile scandiva i tempi di lavoro e di riposo, di preghiera e di sonno, di veglia e di festa, di lutto e di gaudio. La religione accompagnava le stagioni dei lavori nei campi e dettava anche un calendario gastronomico e alimentare che, con i numerosi periodi di digiuno, serviva da pacificatore sociale, eliminando i motivi di invidia dei poveri nei confronti dei ricchi, che venivano egualitariamente esclusi dalle gioie del cibo grasso, proteico e abbondante, non disponibile in quantità tali da soddisfare tutta la comunità, salvo poi ricevere una dispensa specifica “per motivi di salute” dal cappellano di palazzo. E oggi è proprio un giorno di vigilia, di astinenza dalle carni, e di digiuno rituale, che prevede di consumare un solo pasto abbondante durante le ventiquattro ore e, come tale, lo celebriamo, per mantenere in vita la tradizione, e riconoscendo il privilegio che abbiamo nel poterlo fare gustando prelibatezze di pesce e di verdure contadine, accompagnate da vini d’eccezione e d’annata.
Mentre osserviamo Alessandra e Betta, la terza sorella, impanare i filetti di merluzzo, si spande in ogni dove un dolce profumo d’aglio sbucciato che, come da tradizione piemontese contadina, compare praticamente in ogni preparazione, con Gianluigi stappiamo una bottiglia di Arcese, un assemblaggio di uve bianche autoctone, che, in questa annata, non ha ancora sviluppato la bolla tramite la rifermentazione in bottiglia e che conserva quindi un modesto residuo zuccherino, che lo candida come miglior compagno possibile per un piccolo aperitivo in cui sgranocchiamo i rapanelli dell’orto, piccante contraltare a questo vino che ho già assaggiato in diverse annate e diversi stati di evoluzione, e che riserva sempre delle sgargianti sorprese.
Ripercorrendo i precetti e le ricette degli altri due giorni di digiuno, la Vigilia di Natale e il Mercoledì delle Ceneri, la bottiglia sottolinea i nostri discorsi, che vanno indietro agli avi, quando la loro nonna paterna, Giustina, comandava, per la merendina di Pasqua, mezzo uovo sodo e una sardina. Parliamo di antichi proverbi e di verdure, che costituivano la base dei pochi piaceri di un mondo di sacrifici, che si nutriva principalmente di verdure in brodo, meglio se offerte spontaneamente dalla terra: “le erbe che reggono testa vanno bene per far la minestra”. Si sente nell’aria la presenza del Patriarca dei fratelli Bera, nella prima Pasqua in cui è assente.
Partiamo in maniera impenitente con un piatto medievale, la “fava menava”, dove le verdi fave dell’orto, ridotte a crema, vengono montate, con le poco quaresimali robiola e abbondantissima grattugiata di parmigiano, e accompagnate da erbette saltate, come nella tradizione pugliese del macco. Ci beviamo anche una bottiglia di Ronco Rosa, barbera imbottigliata con un leggero residuo zuccherino e lasciata rifermentare in bottiglia, secondo il metodo ancestrale. Qualcuno ci assolverà!
Iniziamo il pranzo vero e proprio con le lasagnette di precetto, leggermente più larghe e friabili dei tajarin, perché impastate senza uovo. Sono condite con l’acciuga, fantastico succedaneo di più illustri sapori, onnipresente in qualsiasi preparazione nella regione dei miei avi, ma trasformata dalle mani di Alessandra, in una salsa delicata, armoniosa, golosa, “umami”, che guarda al Giappone.
Ed è curioso notare nella piattaia alla parete la collezione di belle ceramiche orientali, che Alessandra ha raccolto nei suoi viaggi in cui è andata a diffondere lontano i vini di tradizione ed invenzione di questa famiglia, come di invenzione e di tradizione sono i suoi piatti. Queste lasagnette non si finirebbe più di mangiarle e, come se questa fosse l’ultima cena, evento su cui peraltro è incernierata tutta la nostra religione, chiedo di aprire subito il campione di casa: il Moscato d’Asti d’annata che, a mio parere, a far da spalla alla sapidità del sale e del pesce azzurro è imbattibile e che, al livello di complessità e raffinatezza a cui è stato condotto da questi due fratelli, non andrebbe mai relegato come ultimo vino ma, in controtendenza rispetto alle nozze di Cana, aperto immediatamente.
Durante il pasto le annate di Moscato d’Asti stappate saranno più di una e sempre più vecchie. È stupefacente come un vino con una gradazione alcolica inferiore al 6%, con un residuo zuccherino superiore a 100 g/L, possa con dieci o vent’anni di bottiglia, abbandonare la solforosa, equilibrare gli zuccheri e evolvere verso una complessità, una freschezza e un bilanciamento propri di un vino di grande struttura. Per me non esiste al mondo alcun altro Moscato d’Asti dolce che possa competere con questo.
Per confermare che il cuore è solidamente a Canelli ma la mano si spinge anche oltre Samarcanda, la somma cuoca ci offre un’insalata di asparagi condita con sesamo e una salsa acidulata, degna di un ryokan. Insomma, non ci stiamo esattamente mortificando. Segue la misticanza con la pimpinella e l'ortica e poi il piatto forte del venerdì di Pasqua: il merluzzo impanato e fritto. Alessandra è una maestra della frittura, mi ha rappacificato con i “friciulin”, di cui su queste pagine abbiamo già svelato la ricetta, e questo piatto, della tradizione giudaico-romanesca, non ha rivali che gli possano tener testa, neppure al mitico locale di Piazza Santa Barbara nella Capitale.
E qui arriva la bomba, uno dei miei stili di vinificazione e uno dei miei vini preferiti degli ultimi dieci anni: il Bianchdudui, moscato fermentato in cemento e affinato per anni sotto a un velo di lieviti, la “flor”, secondo lo stile ossidativo dello Jura, e poi lasciato ulteriormente evolvere in bottiglia. Stiamo parlando di un vino di quasi vent’anni. Un capolavoro, un vino balsamico che profuma di artemisia, un vino sante messe, ormai esaurito e reperibile solo, con fortuna, in qualche enoteca distratta o qualche ristorante perspicace, probabilmente non in Italia.
Il contorno è di insalata di vigna, su cui io non posso fare a meno di versare il solito cucchiaio generoso di aceto di vino. Per tener testa all’acidità Gianluigi stappa una bottiglia de Le Verrane, la “barbera del nonno”, espressione dell’etnica identitaria, potente nella struttura e generosa nei profumi. Gianluigi racconta che il papà gli ha dato la cantina nel 1984. Lui era per un'enologia interventista, ma in vigna era biologico. “Nel 1988 ho fatto io il mio primo moscato”. Sparisce in cantina e torna con quella bottiglia, di cui sono rimasti pochissimi esemplari: Soriret vendemmia tardiva 1988, da uve moscato maturate nella vecchia vigna.
È un momento intenso, come lo è l’amicizia nel convivio del desco mistico o profano. Ormai la vigilia è diventata baccanale e pecchiamo addentando in anticipo di due giorni, anche la torta di castagne, che viene sì preparata il Venerdì Santo, ma per consumarla a Pasqua, quando lo zucchero, preziosissimo fino al Secondo Dopoguerra, era concesso.
Vittoria si sposta in cantina a etichettare, Betta si occupa di rigovernare e usciamo ancora in vigna con Alessandra, Gianluigi e il cane per due passi sotto al velo bianco, del cielo, ormai squarciato, da cui si intravvede il blu e filtrano i raggi del sole. Per l’ennesima volta ho capito che fare il vignaiolo non è un lavoro come un altro. Nel rituale tramandato tra generazioni c’è qualcosa di religioso, nella sorpresa del sapore del vino qualcosa di mistico, nell’offrire la propria storia a chi siede alla propria tavola, un’accoglienza monastica. Abbraccio i fratelli Bera, me ne vado con una bottiglia di Bianchduset, annata 2007, due anni in cemento e dieci anni “sotto vela”, il capolavoro attualmente in commercio, affidatomi per santificare una prossima festa. Amen.
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