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Gabriele Buondonno: storia di un Chianti che non ha tradito se stesso

Diari di viaggio //

Gabriele Buondonno: storia di un Chianti che non ha tradito se stesso

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Una giornata a casa di Gabriele ed Errico Buondonno, nel cuore del Chianti, dove tecnologie industriali e logiche di mercato non sono mai arrivate.

"MEGLIO DUE BARILI DI TREBBIANO PIUTTOSTO CHE OTTO CAMICIE"

Come in qualsiasi casa napoletana che si rispetti, iniziamo con un buon caffè. Fuori piove parecchio e l’acqua dona finalmente ristoro a una terra assetata.

Non sono in Campania ma a Casavecchia alla Piazza, nelle colline del Chianti Classico, tra Firenze e Siena, nel podere di Gabriele Buondonno, oltre venti ettari di vigneti, uliveti, boschi e pascoli. Il podere apparteneva nientedimeno che a Michelangelo Buonarroti, che scriveva al nipote che lo prese in gestione: “preferirei avere due barili di trebbiano piuttosto che otto camicie”, affermando di volerne far dono al papa. Gabriele Buondonno, napoletano, giovane agronomo, insieme alla moglie Valeria Sodano, anch’essa laureata in agraria e, al tempo, ricercatrice universitaria, acquistò il podere michelangiolesco nel 1988, iniziando da subito ad abbracciare i principi dell’agricoltura biologica, tra i primi produttori della zona del chianti fiorentino a seguire questo stile agnonomico.

“Dapprincipio i dubbi, le paure e le preoccupazioni, non ti fanno comprendere appieno la natura del vino. Confesso che ci sono stati momenti in cui, con una cantinetta mezza all’aperto e mezza al chiuso, con soli 6 kW di energia, senza microssigenatori, scambiatori, gruppi frigo e concentratori, in un territorio come il Chianti dove nei primi anni ’90 investitori di tutto il mondo acquistavano aziende, dove cantine ipertecnologiche spuntavano come funghi e “grandi enologi” facevano il bello e il cattivo tempo, più di una volta mi son sentito perso e senza futuro”. Ma poi il coraggio e la caparbietà partenopea fecero il loro corso e Gabriele imparò ad assecondare il succo dell’uva in fermentazione, ad avere fiducia in sé e nei suoi vini, e a produrre in maniera antica, semplice, ma precisa. E dopo oltre trent’anni l’attrezzatura è rimasta quella, essenziale, senza tecnologia in eccesso. Per questo, a differenza delle cantine convenzionali, e analogamente a ciò che accade con altri produttori contadini, la visita in cantina dura poco e ci dedichiamo invece a una passeggiata tra le vigne, dove tutto ha inizio, per toccare la terra, accarezzare le viti, osservare la vegetazione tra i filari.

UN'AGRICOLTURA CHE VOLGE LO SGUARDO AL PASSATO

La prima meraviglia è rappresentata da vecchie viti tenacemente avvinte al tronco di alberi dal fusto solido. Sono le “viti maritate”, impiantate dagli anni ’30 ai ’50, e che, grazie alla loro collocazione, lungo strade interpoderali o fabbricati, scomoda per i macchinari agricoli, sono scampate alla modernizzazione e alla specializzazione delle colture iniziata negli anni '60. Le viti maritate di Buondonno sono a prevalenza Sangiovese, ma sono presenti altre varietà locali, e concorrono a realizzare un “vecchio chianti”, il Lemme Lemme, che matura con lentezza e affina già un anno in contenitori di ceramica.

In tutta l’azienda, che si sviluppa soprattutto attorno alla casa padronale, sono state ripiantate barbatelle di Sangiovese antico, selezionate in campo tra quelle capaci di produrre poco, in acini piccoli, come una volta. Non mancano Canaiolo e Trebbiano, fondamentali per lo stile classico del Chianti. E sono state introdotte nuove varietà: Syrah, il Merlot ed il Cabernet Franc.

La pioggia si fa più insistente e torniamo in casa di fronte al camino. Sul tagliere Gabriele affetta un formaggio di capra prodotto dalla figlia Marta, che in una terra che tradizionalmente produce solo pecorino, ha voluto esplorare con successo la produzione contadina artigianale a base di latte caprino. Per questa colazione lo accompagniamo a un’altra intuizione di Marta, nel vino che porta il suo nome, Bianco alla Marta, in cui ha pensato di far fermentare il Procanico (Trebbiano toscano), tradizionalmente piantato tra le vigne di vino rosso, insieme alle proprie bucce. Veniva disperso dai contadini tra gli altri filari, perché veniva aggiunto al Sangiovese per accelerarne la maturazione e ingentilire i tannini, e poter quindi degustare il vino, che oggi chiamiamo Chianti, già la primavera successiva, in maniera analoga a quanto facevano i pastori nelle Alpi, addizionando il latte di mucca con una piccola percentuale di capra nelle forme più grandi. Il vino e il formaggio erano infatti un piacere ma soprattutto, insieme al pane, spesso scarso, carburante liquido l’uno e integratore proteico l’altro, e dovevano essere disponibili per l’autoconsumo quando si esaurivano le scorte dell’anno precedente. Il risultato è il Buon Tempo, che viene vinificato anche con una piccola quantità di Malvasia e che fermenta in anfora, per essere ancora più pronto, leggermente aromatico e di beva sorprendentemente facile.

A scaldarsi insieme a noi accanto al fuoco c’è anche Errico, figlio di Gabriele. Ha imparato a cucinare per necessità ma ha sviluppato una passione sia per i fornelli che per la coltivazione dell’orto. Sfidando la pioggia gelata è andato a raccogliere in campo gli ultimi cavoli e i primi teneri spinaci. Mentre chiacchieriamo, si mette ai fornelli e prepara un’insalatina di ricacci di cavolo nero, arancia e nocciole, sale e limone, reinterpretando un archetipo della cucina siciliana, probabilmente di influenza Nord Africana: l’insalata di arance e finocchi e unendovi, crude, le tenere foglie del cavolo riccio, che normalmente in Toscana si cuoce non una ma due volte, nella celebre ribollita.

È TUTTA UNA QUESTIONE DI TAPPO

Lasciamo Errico Buondonno alle prese con le verdure e apriamo una bottiglia, tra le pochissime conservate, che Gabriele va a prendere in cantina: un Chianti 1997. Il tappo si sbriciola. Il vino ha subito l’ossidazione ma è comunque interessante, con tutta la sua evoluzione che l’ossigeno ha fermato per sempre. Fresco è un ottimo accompagnamento per la conversazione e i formaggi di Marta e si conserverà per un bell’aperitivo nei prossimi giorni.

In ossequio a Veronelli, che ha sempre dichiarato che il Nebbiolo debba essere stappato dopo quindici anni di cantina e il Sangiovese dopo venti, Gabriele prova anche con un Chianti 1998. Ma qui il tappo ci ha tradito completamente. Il fornitore, oggi, non è più quello di quegli anni e i chianti di queste annate potranno attraversare il tempo in maniera molto più spavalda. Anche le piccole ingenuità però fanno parte della storia di un agricoltore che ha creato la propria storia da zero, imparando dai propri successi e dai propri errori.

Non ci diamo per vinti e proviamo uno Syrah 2001, quando i tappi erano già altri. Pepe, freschezza, sentori di arancia stupiscono il palato e stimolano i sensi. Vino magnifico, che accompagna con decisione la frittata di porri, bietola, spinacio e fiori di favino. Un vino avvolgente, che termina velocemente.

Mentre Errico mette ancora in tavola un’insalata di spinacini crudi, conditi col succo di limone dell’albero, in barba a qualsiasi regola di abbinamento, Gabriele stappa un Chianti 2011. Lo versiamo in caraffa per liberarne la cassa aromatica e… meraviglia. Al naso e al palato escono l’argilla e l’austerità domata dei tannini maturi, declinata in una serie di note complesse e suadenti. L’assaggio surclassa lo Syrah. E quando un vino si dimostra grande e più complesso dopo un vino eccellente, di dieci anni più anziano, significa che davvero si ha di fronte un campione. Si sente tutta l'eleganza del Sangiovese affinato, una bottiglia che potrà ancora evolvere nel tempo, con sicurezza, per ulteriori dieci anni almeno. Solo assaporando i chianti invecchiati si capisce come mai questo fosse un vino tanto apprezzato dagli aristocratici, un vino da signori, capace di viaggiare nel tempo e per mare e per terra e raggiungere, pronto, le tavole più blasonate. Un vino da marchesi e da principi.

A Gabriele ed Errico viene voglia di iniziare a mettere da parte qualche bottiglia in più per una riserva storica che continuerà questa bella storia di famiglia e anche io mi riprometto di lasciare a riposare nella mia cantina le due bottiglie che ricevo in regalo, per assaggiarle tra almeno un decennio.

Prepariamo un ultimo caffè con dei chicchi che ho portato da una piccola piantagione agricola nelle montagne dell’Africa Orientale. Il profumo si spande per tutta la casa. Quando esco la pioggia ha lasciato spazio a un raggio di sole che fa brillare i virgulti delle viti. Le storie del vino sono storie di famiglia, di saperi che passano da una generazione all’altra, di sapori che si conservano in bottiglia e viaggiano di mano in mano, per accompagnare la vita con emozioni che si generano ad occhi chiusi, senza bisogna di immagini, semplicemente con un sorso.

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