Cercando il cognome “Danieli” su Google troverete uno dei più grandi gruppi dell’industria siderurgica italiana con sede a Buttrio, in Friuli. Dalla parte opposta della strada, un’altra azienda porta lo stesso nome. Si tratta della cantina “Marina Danieli”, sulla via del vino dal 1980, che quattro anni fa ha avviato una jointventure con le Triple A, per dimostrare che anche nelle grandi cantine, partendo da una materia prima eccellente, è possibile fare vino naturale.
Arriviamo a Buttrio di primo pomeriggio avvolti dalla nebbia. Svoltando a destra ci lasciamo alle spalle gli stabilimenti dell’acciaieria, Marina ci aspetta sotto il porticato della casa in pietra di fronte alla cantina. Marina Danieli è un’azienda tutta al femminile, a cominciare ovviamente da lei che ha fondato l’azienda agricola nel 1980 e dalla figlia Letizia che si occupa del commerciale. Fanno eccezione l’altro figlio Francesco, che segue la parte agronomica e zootecnica, e Thomas, il cantiniere ed enologo con 18 vendemmie all’attivo.
Sono loro i protagonisti del progetto Frus che nel 2015, con il sostegno e l'intuizione di Luca Gargano e l’esperienza di Fabio Luglio, hanno dato il via alla joint venture tra Marina Danieli e le Triple "A". L’obiettivo è dare vita a una nuova linea di vini, da uve da un’agricoltura sana, per cui Marina negli anni si è sempre più distinta, ma con un approccio in cantina sempre più libero: fermentazioni spontanee, nessuna filtrazione e zero solfiti aggiunti (a partire dall’annata 2017). Il risultato è a dir poco sorprendente: vini integri e consistenti, territoriali, ma soprattutto buoni e alla riscoperta di una tradizione perduta, dai metodi di vinificazione alla ricerca del formato e del colore delle bottiglie di una volta.
Cominciamo con un giro in cantina dove non lo nego, se mi dicessero che fanno vino naturale, nutrirei qualche sospetto. Thomas ci fa da cicerone “Abbiamo deciso di puntare su vigne vecchie e varietà autoctone e vinifichiamo esclusivamente se le uve che arrivano in cantina sono perfette. Cerco di lavorare sempre con la massima precisione, ma lasciando che il vino compia il suo percorso vitale. All’inizio avevo un po’ paura, ora ci sto prendendo la mano” mi dice, anche se subito dopo scopro che nel suo curriculum si intrecciano esperienze con grandi nomi del vino naturale, da Denis Montanar a Stella di Campalto, e all’estero, dal Cile alla Nuova Zelanda. Poi nel 2015, proprio in concomitanza della nascita di Frus, il ritorno alle origini e il nuovo lavoro da Marina Danieli.
Le fermentazioni sono svolte in tini di cemento marchiati dal mus (asino, in friulano) simbolo storico dell’azienda, poi pochissimi travasi, lungo contatto con le fecce fini e per i rossi a volte un passaggio in tonneau di rovere di Slavonia. Passeggiando tra le botti, mi cade l’occhio su una piccola damigiana col cartellino Triple A, Thomas e Fabio sorridono complici “Si, è picolit, abbiamo trovato delle piante nei vigneti di verduzzo, sono 52 litri, tra poco è pronto. Sarà il nuovo vino di Frus, insieme a un terzo rosso, un merlot da vigne vecchie.”
Sul tavolo basta vedere la scala cromatica che compone la batteria dei campioni da vasca delle annate 2018 e 2019 per rimanere a bocca aperta. Per la prima volta nella vita rivaluto l’importanza dell’esame visivo in una degustazione.
Cominciamo dai Friulano, ricchi e vigorosi ma che in bocca si muovono con leggiadria, freschi e agili, e dai Monico, uvaggio non semplice, perché a seconda dell’annata bisogna sapersi muovere tra resa e carattere delle singole varietà: la spalla del pinot bianco, la nobiltà del muller thurgau, i profumi della malvasia e la grinta del verduzzo friulano.
In entrambi i bianchi risaltano le differenze tra le annate: una 2018 straordinaria che ha restituito vini potenti, ma taglienti e sapidi e una 2019 più fresca con vini più esili, che proprio per le caratteristiche dell’annata, sono in grado dimostrare tutto il potenziale di Frus. La controprova ce la danno il Pinot Grigio, con un ‘19 tutto croccante, e il Refosco, con un ’18 morbido e avvolgente, per la prima volta affinato solo in cemento.
Il Rosso è un altro uvaggio di precisione, tra il tazzelenghe, dal tannino esuberante (non a caso, in friulano significa taglialingue) e lo schioppettino, che soprattutto in gioventù fa da protagonista con rotondità e speziatura. Proseguiamo con le novità, un Merlot che parla friulano da piante del 1940, in entrambe le annate di grande espressione varietale e territoriale con la “concentrazione aerea” tipica delle vigne vecchie, e infine il Picolit, rarissima varietà friulana di difficile coltivazione, principalmente perché il grappolo è facilmente soggetto ad acinellatura (aborto floreale spontaneo), da cui quindi si ottengono rese quasi irrisorie. Il passito che ne deriva è strepitoso: dolcezza perfettamente bilanciata, da sapidità, acidità e macerazione, una beva infinita per un finale lunghissimo.
La sera procede a Villa Dragoni, ospiti a cena a casa di Marina, riassaggiamo, o meglio beviamo, i campioni in convivialità, restituendo al vino il suo vero ruolo da compagno della tavola.
La mattina seguente, un timido sole ci invita a far visita ai vigneti, accompagnati da Francesco. Cominciamo dal vigneto di pinot grigio, detto anche K2, sia per l’altitudine, ma soprattutto per la pendenza importante. Il metodo di allevamento utilizzato è il sylvoz, particolarmente adatto per climi umidi come questi, per tenere le uve distanti dal suolo, favorendo il passaggio d’aria ed evitando ristagni e possibili marcescenze.
Proseguiamo verso il Monico, il vigneto che dà nome al vino e ospita i quattro vitigni impiegati. “In passato il vigneto monovarietale era un’esclusiva dei ricchi. Diverse varietà all’interno dello stesso appezzamento significa arginare le malattie e assicurarsi un raccolto” racconta Francesco, mentre cerca di scovare una pianta di picolit tra il verduzzo, impresa ardua tra vigneti spogli e in riposo invernale.
A chiudere, tra i vigneti destinati al progetto Frus, un vero e proprio anfiteatro di vigne che scollinano fino alla cantina. All’orizzonte, di là dalla strada, si intravedono gli stabilimenti dell’acciaieria, dove il regno di Marina finisce, mentre quello dei Danieli prosegue, con un approccio sì industriale, ma uno sguardo ecologista che permette il mantenimento di un ecosistema vivo e vitale nei campi adiacenti.
Solitamente se sentite parlare di vino e di contaminazione nella stessa frase, tira una brutta aria. Non però se la contaminazione in questione non è microbica, ma artistica. Succede con Letizia quando mi dice “Dal 2015 sono cambiati anche gli altri nostri vini, Frus ha senz’altro contaminato i vini di Marina Danieli.” È in questa frase che si racchiude la grande intuizione di una joint venture, che ha fatto storcere il naso a molti. Non si tratta di aprire le porte del naturale alle grandi cantine, ma viceversa. Marina ce ne dà la conferma “Da tempo ero convinta che fosse questa la strada da perseguire e i vini di Frus oggi ne sono la dimostrazione. Ma non penso avrei avuto il coraggio di fare questo salto nel buio, senza la spinta di Luca e un partner che ci sostenesse come la Velier.” Oggi mettersi dalla parte dei produttori naturali è semplice, ma voltare le spalle al resto e rivolgersi esclusivamente al proprio pubblico è una visione miope e profondamente esclusivista, tipica dell’approccio che il naturale ha provato a destituire. Per questo chi ha sostenuto il vino naturale fin dal principio è adesso responsabile del cambio di prospettiva necessario: il grande produttore non si combatte, si contamina. In questo modo, fare squadra diventa la maniera migliore di fare opposizione.