Ci sono dei fils rouges nelle nostre vite che fanno sorridere, dei tasselli che sono fondamentali nel guidarci verso particolari direzioni e ce ne si accorge solo a posteriori. Il primo marzo del 2020 ho assaggiato, senza saperlo e in maniera distratta, il mio primo vino naturale. Stavo per laurearmi e confesso che di vino sapevo ancora poco o nulla. In città era stato organizzato il Genova Wine Festival e un amico era riuscito a convincermi ad accompagnarlo. Ho cominciato a muovermi con il calice in mano tra la folla finché mi sono imbattuta in un vignaiolo gentile e paziente che da dietro il banco mi ha fatto assaggiare alcuni dei suoi vini e mi ha aperto un mondo che non immaginavo esistesse. “Questo è uno Sciacchetrà. Viene prodotto a partire da vitigni autoctoni liguri e le uve sono pigiate con i piedi da mio figlio” mi disse il vignaiolo prima di raccontarmi come e dove lavorava.
Più di due anni dopo il vino fa parte del mio lavoro. Così una domenica mattina mi ritrovo a prendere la macchina e a imboccare la strada provinciale che porta verso le Cinque Terre, direzione Riomaggiore. Ho chiesto ad Heydi Bonanini, vignaiolo di Possa di poter visitare i suoi vigneti. A pochi minuti dal mio arrivo mi chiama e mi dice di lasciare la macchina sull’ultima curva dei tornanti in cima al paese, mi aspetterà nel suo furgone.
Scesa dalla macchina, l’accesso alla vigna è proprio lì di fronte. Un piccolo cancello in ferro sul bordo strada segna il confine con un piccolo paradiso terrestre. Il paesaggio è mozzafiato e racchiude la bellezza che lega così tanto i liguri alla loro terra: dietro alle spalle le montagne corrono fino ai nostri piedi e poi giù di nuovo a capofitto fino ad inciampare nel mare. Una natura selvaggia e aspra che non vuole piacere, a tratti altezzosa rimette l’uomo in discussione, ti fa sentire piccolo e ti ricorda che, seppur cedendo di tanto in tanto, quelle montagne sono lì a guardare il mare da ben prima di noi.
Ma si sa, l’uomo è ostinato e la natura in alcuni luoghi gli ha concesso di convivere con lei, letteralmente in bilico sul mare. E così con incredibile pazienza l’uomo ha ritagliato i suoi spazi per la viticoltura modellando queste terre con la costruzione di file di muretti a secco a proteggere e rinforzare i fragili argini delle montagne. Un precario equilibrio su cui uomo e natura si sono sostenuti per millenni, fino all’abbandono delle campagne. Ed Heydi Bonanini fa parte dei pochi che hanno deciso di votare la loro vita a questo territorio, continuando a scommettere ancora oggi su questo arduo e impervio paesaggio di struggente bellezza.
Quello di Heydi è prima di tutto un lavoro fisico che consiste nel recuperare le antiche varietà che dimoravano sui terrazzamenti e i vecchi vigneti abbandonati attraverso il duro e gravoso compito di mantenere e rimettere in sesto i muretti a secco. Ma non solo, Heydi cerca di ripristinare tradizioni e usanze sia tramite i suoi vini così identitari, sia tramite i diversi corsi che ha organizzato e organizza. E a fare da motore trainante, oltre all’amore per il territorio, è l’amore per suo figlio che rappresenta la generazione dei futuri custodi di questo luogo incantevole.
Nascono così il doposcuola in vigna per i bambini, ognuno dei quali si occupa di tre viti per un intero anno, e il progetto dell’apiario, sempre rivolto ai più piccoli, grazie alle quaranta arnie che dimorano tra i filari. “Parlando nelle scuole con i bambini si sentono cose incredibili: c’è chi pensa che la verdura provenga dai supermercati e chi ha paura delle farfalle..." racconta Heydi sorridendo con un punta di rammarico "Potrei capire le vespe o altri insetti che potrebbero morderli, ma animali belli e innocui come le farfalle! Così quest’anno ho piantato la lavanda che le attira, così potrò farle conoscere ai bambini”.
I progetti di Heydi però non si fermano qui, anzi sono tanti quante le increspature del mare che si vedono dalle sue vigne. E quindi ci sono i corsi di formazione per giovani detenuti e migranti, i progetti di enoturismo consapevole per cercare di offrire un’alternativa reale al turismo di massa che invade le Cinque Terre, e ancora quelli di tutela dei diciannove vitigni autoctoni e della coltivazione di agrumi mediterranei e piante antiche del Parco Regionale.
Un lavoro che prosegue nello scontrarsi con una lenta burocrazia che di certo non agevola chi si tira su le maniche per valorizzare e promuovere il territorio, con il problema dei vigneti da recuperare la cui proprietà è iperframmentata e i proprietari ormai irraggiungibili, con il continuo rischio di crollo dei muretti a secco dei terreni abbandonati alle intemperie, con i cinghiali che vivono in zona alla continua ricerca di un passaggio nelle reti per le loro scorribande notturne.
Ecco, Heydi Bonanini rappresenta uno di quei viticoltori che silenziosamente cerca di cambiare l’approccio alla viticoltura in Italia, che pietra dopo pietra ricostruisce silenziosamente il proprio territorio, e lascia ai suoi vini il compito di sussurrare la possibilità di un mondo diverso. Un mondo nuovo, in cui la difesa e la protezione dell’ecosistema sono centrali e vanno di pari passo con il tentativo di ricreare le comunità che permeavano le campagne.
L’impegno di Heydi però non si ferma a una viticoltura rispettosa e consapevole, ma prosegue in cantina, dove ci invita per continuare a fare due chiacchiere davanti a un calice di vino. Entriamo in un vecchio edificio del 1300, - dettaglio che manda in estasi i turisti- sottolinea Heydi, costruito al fianco di un’enorme roccia a far da parete. La cantina di Possa è l’emblema della convivenza tanto difficile quanto ingegnosa tra uomo e natura nelle Cinque Terre.
All’interno della cantina la mia attenzione viene catturata dalle botti dei diversi legni con i quali Heydi si diverte con nuove sperimentazioni ogni anno. “Lo Schiacchetrà solitamente lo invecchiavo nelle botti di pero” mi racconta “un giorno un bottaio modenese me lo propose quasi per scherzo e io decisi di provarlo ottenendo risultati eccezionali. Purtroppo ora lui sta andando in pensione e i figli hanno smesso di usare legni che hanno pochissima richiesta. Allora ho fatto delle ricerche e ho scoperto che anticamente si usava il ciliegio, anche se c’è da dire che dialettalmente le piante che venivano chiamate ciliegi in realtà erano amareni. Così al momento sto testando entrambi i legni”.
Mentre beviamo un calice di Parmaea, un uvaggio a base vermentino dell’isola di Palmaria, Heydi continua “Il mio maestro, Elio Altare, non necessita di presentazioni” racconta Heydi “Mi ha insegnato che ogni volta che ti senti sicuro e soddisfatto di ciò che hai ottenuto in cantina, è allora che devi ricominciare da capo, facendo tutto in maniera diversa. Solo così si può crescere e migliorare”. Poi arriva il momento fatidico e lo vedo spillare dalle botte l’oro liquido delle Cinque Terre, lo Sciacchetrà.
Due anni fa un viticoltore gentile mi offri il mio primo calice di vino naturale e forse, senza rendersene conto, mise sul mio percorso la prima pietra di un altro dei suoi muretti a secco. E quelli costruiti da lui raramente cadono. Quel viticoltore gentile e paziente era Heydi Bonanini.
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