Il decalogo, un elenco di produttori e mesi di viaggio di ricerca e selezione: così sono nate le Triple “A”. Era il 2003 quando, senza conoscerlo e senza mai aver assaggiato i suoi vini, incontrai per la prima volta Didier Barral. Mi accolse nella sua cantina a Cabrerolles, un piccolo villaggio immerso nella campagna incontaminata della Linguadoca, una parte di Francia dal volto ancora profondamente rurale. Didier era l’ultimo rappresentate di una famiglia di agricoltori che ormai da generazioni aveva fatto propria una filosofia di lavoro in sinergia con la natura.
“Il mio obiettivo fondamentale” mi raccontò Didier “è il mantenimento della vitalità del suolo. Perché ciò accada non solo porto avanti una conduzione agronomica priva di chimica di sintesi, ma cerco di promuovere un costante aumento della biodiversità vegetale e animale del vigneto”. Didier si serviva delle sessanta vacche da carne che allevava. Facendole pascolare lungo i filari, il letame si dimostrava essere il substrato perfetto per la deposizione delle uova dei lombrichi. “Grazie alla capacità di scavare gallerie nel suolo, i lombrichi hanno innumerevoli effetti benefici: rimescolano il terreno, contribuiscono alla formazione dell’humus, permettono un migliore assorbimento dell’acqua che riesce a raggiungere gli strati più profondi del suolo e aumentano l’aerazione del terreno”.
A quasi vent’anni di distanza, quando torno a trovarlo nel suo Domaine, l’accoglienza, il sorriso e la cantina di Didier sono rimaste le stesse. Se quel giorno però furono sufficienti poche ore per entrare in perfetta sintonia e per capire che i suoi vini rappresentavano esattamente quello che stavamo cercando, questa volta bastano pochi minuti per accorgermi che la visione di Didier ha subito un’evoluzione straordinaria. “Negli anni ho capito” mi racconta Didier “che il mio lavoro volto al mantenimento della vitalità del suolo deve per forza passare attraverso un vero e proprio ritorno all’agricoltura di una volta, a un approccio policolturale”.
Non faccio in tempo a chiedere a Didier in che modo messo in atto questa visione che mi accorgo della più grande differenza dal 2003 ad oggi: i vigneti del Domaine sono completamente circondati da una barriera naturale di ciliegi, sorbi e tigli. “Te ne sei accorto allora” ride Didier “Ho piantato più di settemila alberi intorno alle vigne. Non solo aumentano la biodiversità dei miei campi, ma mi aiutano anche a frenare i venti freddi del nord che seccando la terra aumentano il rischio delle gelate primaverili. Una volta, prima della meccanizzazione dell’agricoltura, avere gli alberi attorno alle vigne era la norma. I contadini non tornavano a casa per pranzo e per ripararsi dall’afa e dal caldo consumavano i loro pranzi all’ombra delle fronde. Ecco cosa intendo quando dico che voglio tornare all’agricoltura di un tempo”.
Più Didier mi parla, più mi rendo conto di come le sue idee abbiano davvero trasformato l’azienda che oggi, oltre ai trenta ettari di vigna, ne conta altri settanta tra bosco, macchia mediterranea e pascoli. E poi ancora trecento olivi, campi coltivati a varietà di grano antiche e venti maiali neri.
Didier poi prende dal cumulo una manciata di compost e me la mette sotto il naso. “Profuma vero? Questo lo faccio io, dopo tante prove ho trovato la formula giusta. Se acquisti i compost commerciali, anche se biologici, puzzano e sono già secchi”. Il compost made in Barral invece è straordinariamente umido e formato da precise proporzioni di letame di pecora, tralci della potatura invernale e vinacce. In questo modo, in un moto continuo, parte dei frutti della terra ritornano ad essa formando quel circolo virtuoso su cui si fonda ogni azienda dall’approccio policolturale.
Didier ci tiene a mostrarmi anche la sua nuova casa che si è costruito da sé a poche centinaia di metri dalla cantina. Anche in questo caso l’edificio è frutto della terra, l’esterno è interamente composto di scisti, pietre tipiche di questa zona, mentre l’interno è rivestito da legna di recupero. Con un calice di Blanc in mano ci sediamo in questo grande open air, al cui centro sta un piccolo orto, sulla falsa riga di un patio romano.
È in questo momento che guardando Didier mentre ancora mi parla e mi racconta, le idee iniziano a confondersi. Comincio a non capire più se ad essere evoluta sia la sua visione agricola o la mia sensibilità dopo quasi vent’anni di Triple “A”. E per un attimo rivedo in Didier le idee, l’approccio e le convinzioni di Stefano Bellotti. Come Stefano, Didier prima di essere un vignaiolo è un contadino, un agricoltore intimamente legato alla sua terra, un custode del futuro. E il vino per lui non è un obiettivo, ma solo una delle naturali conseguenze di un organismo agricolo molto più grande e complesso, un organismo vivo che comprende anche lui stesso.
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