Andare contro corrente: non è la solita Borgogna

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Andare contro corrente: non è la solita Borgogna

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Dallo Chablisien alla Côtes de Nuits, dall’aligoté, allo chardonnay, al pinot noir: il racconto di una Borgogna d’eccezione tra bevute notturne, Premiers e Grands Crus e vecchi e nuovi ricordi.

DAL KIMMERDIGIEN ALL' HOMO ERECTUS FINO A OLIVER E ALICE: 150 MILIONI DI ANNI DI CHABLIS

Sarà stato per il “già che siamo qui”, sarà stato per quel pizzico della nostra insaziabile sete rimasta dalla visita alla Maison Pierre Overnoy, che basta uno sguardo con Fabio Luglio, compagno di scrivania, ma soprattutto di bevute, perché ci venga in mente la stessa pazza idea: proseguire il viaggio, direzione Chablis. Da un punto di vista puramente geografico, recarsi nello Chablisien non è proprio una passeggiata, prima di raggiungere il “profondo nord” bisogna attraversare la Francia per il lungo, percorrendo chilometri e chilometri in regioni a forte vocazione rurale. Ai lati della strada si distendono campi coltivati a perdita d’occhio e immense praterie, dove le mucche hanno ben altro da fare che guardare le auto che passano.

OlivierL’appuntamento è a Courgis, a sud-ovest di Chablis, e ad accoglierci troviamo Olivier de Moor con le chiavi della macchina già in mano: non vede l’ora mostrarci le sue due nuove parcelle, le prime a far parte di un Premier Cru. “Siamo centocinquanta chilometri a nord di Parigi” racconta Olivier “ma Chablis, alla pari del bacino che lambisce la capitale, è figlia dello stesso periodo geologico che risale a più di 150 milioni di anni fa, il Kimmerdgien”. Una volta qui era tutto mare. Il sottosuolo infatti, composto perlopiù da marne grigie che si alternano a banchi di calcare bianco, è ricco di Exogyra virgula, fossili di piccole ostriche caratteristiche di questo territorio, di cui i nostri antenati andavano di certo ghiotti. Questa è la matrice degli chardonnay di Chablis, una tipicità che si declina in purezza, eleganza e mineralità.

Olivier ci guida dapprima nel Premier Cru “Mont de Milieu”, sulla sponda destra del fiume Serein, dove storicamente si tracciava il confine tra Ducato di Borgogna e Contea della Champagne. Una piccola parcella, meno di mezz’ettaro, lavorato interamente a cavallo dove alcune piante della parte più alta raggiungono i 70 anni. Poi spostandoci sulla rive gauche, approdiamo sul Premier Cru Vaux de Vey, un appezzamento di poco più grande, con chardonnay dei primi anni ’80.

Girando tra i vigneti, la prima cosa che salta all’occhio è come l’intero distretto vitivinicolo di Chablis sia fortemente segnato da un approccio enologico moderno. Meccanizzazione, diserbanti, pesticidi e sistemici sono tristemente sovrani. Così, per assurdo, uno dei terroir più belli d’Oltralpe, che ha reso la Francia famosa in tutto il mondo, si rivela paradossalmente una delle zone più bistrattate e svilite dalla chimica insieme alla Champagne. Eppure anche qui, in questo scenario profondamente industriale, un vero regno del controsenso, per fortuna esistono e resistono delle mosche bianche, proprio come Olivier e Alice De Moor.

Come si dice “Dio li fa e poi li accoppia”, lui autoctono e lei Jurassien, Olivier e Alice sono inizialmente schivi e riservati. Ma come tutte le persone timide, Olivier, sulla prime poco comunicativo, non appena rotto il ghiaccio, diventa subito più espansivo e le sue gote perennemente colorate di rosso esprimono tutta la sua genuinità, finendo per suscitare nelle persone uno spontaneo slancio di simpatia. Ci racconta come dal principio, il suo sogno e quello di Alice era di fare un vino diverso, frutto di un’agricoltura sostenibile e rispettosa dell’ambiente. Idealisti, ma concreti, a distanza di anni, il loro Domaine è diventato il punto di riferimento della nuova generazione di vignaioli naturali, come Thomas Pico, l’enfant prodige di Chablis, che ha fatto la sua gavetta proprio dai De Moor.

In cantina ci perdiamo tra un assaggio di botte e l’altro, e Olivier ci tiene a presentarci i 2018, un’annata finalmente fortunata, di struttura e profondità, dopo due vendemmie tragicamente colpite da gelo e grandine. Tra le varie chicche del Domane, a colpire nel segno è l’aligotè, il vitigno che vive nell’ombra dello chardonnay, ritenuto insipido e troppo acido. Ma è proprio sui vitigni minori, che si esprime al massimo la mano di un grande vignaiolo e così l’aligoté riesce a regalare grandi emozioni, soprattutto nella versione Bourgogne Aligoté Plantation 1902, frutto di una vigna ultracentenaria.

La serata prosegue in uno dei pochi locali dell’eufemistico centro di Chablis e non appena il cameriere intuisce la nostre indole nottambula, inizia a guardarci in cagnesco. Non è neanche mezzanotte che nel paese regna il silenzio e le strade deserte non ci lasciano alternative: il coprifuoco è scattato da tempo e ci tocca tornare alla cuccia.

AL DOMAINE PRIEURÉ ROCH, NEL RICORDO DI HENRY, TRA GENIO E SREGOLATEZZA

Il risveglio della mattina successiva non è certo dei più semplici, ma siamo talmente ansiosi di metterci in viaggio, che raggiungiamo la Côtes de Nuits prima del tempo, un territorio ricco di storia, di straordinaria bellezza e dal carattere solenne, un vero e proprio luogo di culto per gli amanti del vino che quasi ci viene voglia di inginocchiarci ai piedi delle croci che delimitano i vari Crus.

Il nostro appuntamento è a Prémaux, al Domaine Prieuré Roch, dove Yannick Champ, a lungo braccio destro di Henry Frédéric Roch, ora a capo del Domaine, ci accoglie nel grande salone, dove subito ci assalgono i ricordi dei momenti indimenticabili e irripetibili passati insieme a Henry. Ma lui non c’è più e la sua assenza si fa sentire terribilmente.

Henry era una personalità forte, un uomo stravagante e provocatore che si divertiva ad infrangere il bon ton per il gusto di fare scalpore. Ricordo ancora quel pomeriggio di luglio di alcuni anni fa, quando, a una festa tra vignaioli nel Beaujolais, siera messo in tenuta adamitica esibendo in tutta naturalezza il suo “Grand Cru” migliore per poi tuffarsi nello stagno sottostante.

Anticonformista, aveva barattato il doppio petto per un paio di bretelle e un Borsalino da cui raramente si separava. Sfoggiava un look poco consono al suo status sociale, sapendo che avrebbe sconcertato l’élite bourguignonne di gran lunga più rigida dei lunghi inverni locali. Amava le donne almeno quanto amava la gentilezza nei suoi vini, ma dietro ai suoi modi sfacciatamente impertinenti e alla sua indole godereccia, si nascondeva un uomo generoso, un vignaiolo di grande intelligenza e cultura. Non era figlio d’arte, ma nei suoi vini di arte ne metteva eccome e non solo nelle etichette della Romanée-Conti che cofirmava insieme ad Aubert de Villaine.

Dall’ultima visita in azienda tante cose sono cambiate, a cominciare dalla nuova cantina in corso di costruzione, un progetto a dir poco ambizioso, fortemente voluto da Henri. Una cantina su più livelli in cui nulla sarà lasciato al caso, dai dettagli, come l’illuminazione a led gialli per non influenzare l’evoluzione del vino, fino all’ultimo piano, una vera chicca, che si affaccerà direttamente sulle vigne del Clos des Argillières e ospiterà un ristorante con tanto di chef stellato- Un nuovo locale che andrà ad affiancare il Bist’Roch, un bistrot enogastronomico di proprietà della famiglia Roch, dove ci aspetta una vertiginosa degustazione.

Oltre a Yannick, ci accompagna Antonio che lavora in azienda da diversi anni ed è diventato a sua volta, il braccio destro dell’ex braccio destro. Cominciamo dall’intruso, il “Blanc”, uno chardonnay macerato, cosa non certo comune per la Borgogna. “Nel 2011 abbiamo fatto la prima annata” ci racconta Yannick “avevamo voglia di sperimentare una vinificazione aliena e di mandare un messaggio di apertura a uno stile che andasse oltre i rigidi schemi borgognotti. Poi ci è piaciuto e abbiamo continuato, sfruttandolo anche per esaurire le barrique nuove.” I nostri calici si riempiono e si svuotano, in un instancabile valzer di sensazioni ed emozioni che vorremmo non finesse mai: Vosne-Romanée, Nuits-Saint-Georges, Ladoix, Les Suchots, Hautes-Mazières… e il tempo scorre inesorabile trasformando il pomeriggio in sera e la sera in notte.

GILLES BALLORIN: SELF-MADE VIGNERON

L’indomani, ancora una volta, il “già che siamo qui” ci fa andare dritti al Domaine Ballorin, guidato da Gilles, uomo di compagnia dalla battuta sempre pronta, un vignaiolo improvvisato che vendemmia dopo vendemmia ha raggiunto una purezza d’espressione che continua a sorprenderci.

Da Marsannay a Nuits-Saint-Georges, passando per Fixin, anche lui ha molto frecce nel suo arco, ma ci tiene a farci assaggiare il suo nuovo aligoté, un aligoté, diverso da quello dei De Moor, ma anche lui fuori dal coro, che non a caso si chiama l’Hardi, ossia “l’ardito”. Gilles ci porta tra le vigne, ancora lavorate a cavallo e ci mostra la pacciamatura che riserva alle piante di 90 anni, un trattamento agricolo decisamente innovativo in un contesto come quello della Borgogna.

Mancherebbero ancora due nomi per chiudere il cerchio della Borgogna Triple “A”, il richiamo di una sosta nel Maconnais, da Marc Guillemot-Michel o a Meursault, da un’altra figura emblematica come Pierre Morey, è forte, ma ormai il “già che siamo qui” non funziona più e il dovere ci richiama a Genova. Il viaggio di ritorno è lungo, ma ci accompagna la persistenza più che dei vini, del ricordo di chi va controcorrente e persegue i suoi ideali senza se e senza ma in un contesto come la Borgogna, la regina delle regioni vitivinicole di Francia, dove l’approccio convenzionale rappresenta la norma e quello naturale è spesso visto come un inutile rischio. Per fortuna c’è chi ci crede, come Alice e Olivier, come Yannick e Antonio, come Gilles, come noi che già da tempo abbiamo scommesso su di loro, come voi se siete arrivati fin qui.