Partiamo dalla biologia. La piperina, sostanza contenuta nei grani di pepe, ha un doppio effetto. Il primo è quello di donare, in modalità analoga ma molto più lieve rispetto alla capsaicina contenuta nei peperoni piccanti, una sensazione di urticazione, dovuta all’eccitazione di specifici recettori per il calore, che si trovano all’interno della bocca, utili a metterla in guardia dall’ingestione di sostanze troppo calde. Il secondo effetto è lo smorzamento del gusto salato, dovuto a un’interazione a livello dei recettori specifici per questo gusto, posti nella porzione anteriore laterale della lingua. L’azione che compie è quindi sinergica a quella del sale. Il sale aumenta la sensazione aromatica di qualsiasi cibo e il fatto di abbinarlo a un giro di pepe è un trucco che permette di eccedere un pochino col cloruro di sodio, e quindi di ottenere più sapore, ma senza enfatizzare il gusto salato. Il pepe, inoltre, creando una micro-irritazione sulla lingua, genera una vasodilatazione, cioè un maggior afflusso di sangue, a livello delle papille gustative, mettendole in grado di percepire in maniera più vigorosa i gusti, e analogamente avviene per i filuzzi olfattivi presenti nel naso, che sono i responsabili principali delle sensazioni del sapore.
Insomma, pare proprio che ci siano parecchie dimostrazioni del motivo per cui il pepe in cucina ha una sua dignità da sempre, fin dall’antico Egitto e molto prima nella storia delle popolazioni orientali. Ma fu al tempo dei Romani che la preziosa spezia iniziò a diffondersi non solo tra l’elite della società ma anche tre le classi medie.
Il pepe è indubbiamente il principe delle spezie. Nella lingua, con il termine spezie si intendono varie sostanze aromatiche o fortemente saporite di origine vegetale, ottenute da piante tropicali, comunemente usate come condimenti in virtù della fragranza e della loro valenza conservante. Chimicamente si definisce invece “spezia” una parte di pianta, radice, corteccia, frutto o seme che, grazie ai suoi oli essenziali e alle resine oleose, ha particolari caratteristiche di sapore e nonché proprietà conservanti. In virtù di tutte queste caratteristiche “magiche” il pepe fu utilizzato in maniera rituale, medicinale e gastronomica fin dall’inizio della civiltà, fino a divenire, nel Medioevo in Europa, un vero e proprio indicatore sociale. Originario dell’India, fu al centro di scambi e lotte commerciali tra le potenze coloniali, Olanda, Inghilterra e Portogallo, che ne controllarono la diffusione. Malgrado la coltivazione si diffuse in tutto l’Oriente, con selezioni di diversa valenza aromatica, rese ancora più peculiari dalla zona di coltivazione, il “terroir”. Benché con il nome “pepe” si siano iniziate a designare tutta una serie di bacche aromatiche che nulla hanno a che vedere con la capostipite della famiglia, in realtà dal punto di vista storico “pepe” è il frutto di una pianta rampicante perenne (Piper Nigrum Linnei), che cresce nella costa del Malabar, nella porzione sud-occidentale dell’India, nello Stato del Kerala. E’ però nei giardini dello stato del Sarawak, nella parte insulare della Malesia, nell’isola del Borneo, che permangono le poche piante spontanee di pepe presenti al mondo e proprio lì, a partire dalla fine del XIX secolo, sono state selezionate e coltivate le varietà più profumate e delicate, approfittando di scoscesi pendii che evitano l’accumulo eccessivo di acqua piovana. Sono stati questi grani i più contesi durante il Settecento e l’Ottocento e, ancor oggi, considerati i migliori al mondo.
Utilizzare il pepe solo per smorzare il sale in un qualsiasi arrosto alla piemontese cucinato col dado industriale o donare un po’ di piccante a una pasta alla gricia di media fattura, sarebbe un vero peccato. Perché il pepe può sprigionare una potenza aromatica e suadente senza limiti. Non parlo naturalmente di quello già macinato, che andrebbe abolito da ogni tavola e da ogni preparazione. Come il the in bustina sa solo di erba secca, questo pepe mantiene solamente il gusto piccante in assenza di qualsiasi aroma. Ma neppure nel macinapepe le bacche dovrebbero stare troppo tempo. Meglio conservarle al fresco e al buio e macinarne, poche, al momento dell’utilizzo o, come preferisco fare, lavorarle con un pestello di legno in un mortaio orientale per le spezie, che presenta delle pareti zigrinate abrasive.
La maggior parte del pepe in commercio è pessima perché le bacche non vengono lavate con acqua pulita, a volte non vengono proprio lavate del tutto; stazionano al sole e all’umido prima di essere trasformate, fermentando fino ad assumere profumi sgradevoli, e vengono cotte invece di essere delicatamente essiccate, come fatto da pochissime persone al mondo. Questa pratica differente di pulizia, tostatura, essiccazione dei grani di pepe, mi fu spiegata diversi anni fa da Gianni Frasi, ideatore del progetto Maricha insieme alla figlia Giorgia, oltre che più grande torrefattore d’Italia, e l’assaggio e l’utilizzo dei suoi pepi durante gli ultimi dieci anni della mia vita in cucina, mi hanno convinto che quello di Maricha sia un prodotto totalmente unico, degno dei faraoni. Non a caso è stato scelto come capostipite della sezione spezi della Dispensa Triple "A".
Il pepe attualmente presente in Dispensa proviene da piante adulte, che quindi producono pochissimo, della varietà Kuching (capitale del Sarawak). E’ nero, cioè la bacca viene essiccata con la polpa, che le conferisce la parte aromatica. Sono certo che saprà trasformare qualsiasi piatto in un viaggio verso l’oriente più peccaminoso, intenso, lontano, avvolgente ed esoterico. E non potrete più farne a meno.
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