Uno non vale uno. Uno non vale l’altro. E un pomodoro non vale un pomodoro. Sono enormi le differenze di sapore tra due frutti coltivati in maniera differente, a parità di varietà, di terreno di coltivazione, di clima e di irrigazione.
Il prof. Carlo Bicchi e la prof.ssa Chiara Cordero, tra i più grandi esperti in Europa di potenziale aromatico dei cibi, me l’avevano detto chiaramente: “se una pianta non la si aiuta, essa si aiuta da sé, producendo una serie di sostanze che le sono indispensabili per difendersi dagli attacchi esterni”. E queste sostanze, che proteggono l’organismo vegetale contro insulti chimici, fisici e soprattutto batterici o virali, sono spesso aromatiche. I profumi, gli odori e i sapori sono quindi tanto più concentrati quanto più la pianta deve fronteggiare da sola le insidie della vita. E, appunto, le sostanze che sono responsabili dell’odore e del sapore non sono accessorie, ma fanno parte del metabolismo primario del vegetale, inteso come quell’insieme di reazioni di chimica organica che avvengono all’interno del ciclo vitale: nascere, screscere, riprodursi e morire.
Per questo un pomodoro del campo nato e cresciuto fuori serra, senza “assistenza” da parte dell’uomo, magari in un sistema di coltura anidro, cioè non irrigato, e in competizione e sinergia con altri vegetali, come nella permacultura o nell’agricoltura sinergica, avrà molti più composti aromatici da esprimere. Naturalmente dovrà provenire da semi che nel tempo si sono o sono stati selezionati per poter resistere a queste condizioni. Il cosiddetto “darwinismo”, la selezione naturale che fa sopravvivere gli individui non più forti ma più “adattabili”, e che è alla base della teoria per cui è l’uomo, pur non essendo il più prestante tra gli esseri del creato, a stare in cima alla catena alimentare, proprio per la sua capacità di adattarsi, anche dal punto di vista della dieta, oggi non regola più il genere umano e, neppure, il mondo vegetale. I pomodori di cui dicevamo sono selezionati per essere più resistenti ai trattamenti fitofarmacologici, per essre più grossi, per maturare più velocemente, per avere una buccia più spessa, che ne faciliti il trasporto. Questi pomodori industriali, molto “aiutati”, oltre a non essere stati selezionati alla fonte per le proprie caratteristiche di sapore ma per quelle di praticità commerciale, oltre a non essere maturi, perché raccolti prima del compimento del processo di sviluppo aromatico, sono anche più poveri di sostanze aromatiche proprio perché sono stati assistiti durante tutto il corso della propria vita, molto assistiti. Di solito, infatti, non hanno assolutamente alcun gusto.
L’industria un minimo ambiziosa seleziona i pomodori per produrre la salsa in base al contenuto di zucchero, tramite un refrattometro che è in grado di determinarne la concentrazione. Ma lo zucchero non è un indicatore di aromaticità, come la percentuale di alcool non lo è né di maturazione del chicco né di qualità del vino. È senz’altro un primo discriminante, ma va nella direzione intrapresa da tutti i prodotti della grande distribuzione: diseducare il palato, e soprattutto l’olfatto (ricordo che in bocca si percepiscono soltanto cinque gusti mentre sapori e odori sono appannaggio dei filamenti olfattivi posti al di sopra della piramide nasale, tanto che tutti abbiamo sperimentato che con il raffreddore o la sinusite non si percepiscono più non solo gli odori ma neppure i sapori) dei consumatori a distinguere le sfumature aromatiche, per focalizzarsi invece su una triade semplice da riconoscere: dolce, grasso, salato, caratteristiche che hanno a che fare con l’oralità e non con il sapore. Il senso dell’olfatto, tra i più ancestrali, quello che assiste il richiamo sessuale, il riconoscimento dei propri simili, la percezione del pericolo, la ricerca del sostentamento, la selezione del cibo in base alla possibilità di arrecare danno o energia e, negli esseri umani, il piacere che deriva dalla complessità della gratificazione aromatica, oggi si sta atrofizzando, per mancanza di stimoli. È una società senza odori e senza sapori quella che abbiamo costruito, in cui tutto viene sterilizzato e la percezione sta passando da un livello olfattivo, molto integrato nella corteccia sensitiva, collegata al circuito limbico che attiene alle emozioni, a un livello orale, più infantile e grezzo, e a un altro livello estremamente superficiale, quello visivo.
Del vino spesso si “bevono” le etichette più che assaporare, e odorare (a questo servono i calici soffiati ad arte per ogni tipologia di vino) il prodotto, come del cibo spesso si “mangiano” le fotografie esposte sui social. Tanto che i ristoranti studiano il design dei piatti e la loro istagrammabilità molto prima del sapore.
Questa semplificazione dei sensi viene però risvegliata, in chi non sia ormai totalmente in anestesia (letteralmente: incapacità di “sentire”) dalla complessità, più che dall’intensità dei sapori e dei profumi. La ricchezza del potenziale aromatico accende tantissimi recettori tutti insieme, provocando un elettroshock alla corteccia sensitiva molto più spiazzante della “droga” della triade zucchero-sale-grasso. Chi ancora abbia un minimo di curiosità non potrà restare indifferente annusando e addentando un vero pomodoro di campagna, che ha resistito alle avversità e ha prodotto con fatica tutti quegli aromi proprio per farsi “scegliere” nella sfida della riproduzione.
Un pomodoro non aiutato non vale un pomodoro dell’agricoltura intensiva. Proprio perché il suo aspetto, il suo colore e, soprattutto, i suoi profumi, attireranno animali e insetti che, cibandosene, disperderanno i semi in altre zone, garantendo la sopravvivenza della specie. Mio nonno ha sempre scelto il primo cavolo della stagione cavando dal campo quello leggermente rosicchiato dalla lepre durante la notte: significava che era il più maturo. Le sostanze aromatiche servono infatti alla pianta, fin dal fiore, per attirare, in competizione con le altre piante di specie diverse e della medesima specie, gli altri esseri animati che partecipano alla danza della catena alimentare. A casa infatti la pianta di albicocche migliore, quella da cui riprodurre altre talee, era quella i cui frutti venivano attaccati dalla vespe, che trascuravano le altre. E quella senza malattie, naturalmente, ma non quella con le albicocche più grosse e più rotonde.
Torniamo al nostro pomodoro. Come dicevamo, basta fare una prova, assaggiando un pomodoro cuore di bue del supermercato, uno di un contadino che coltiva in serra e uno di un orto in campo aperto. L’ultimo, a parità di matuazione, sarà molto più buono. Ma il concetto di “buono” non contiene solo un valore aromatico. Intanto la coltivazione non intensiva sarà stata più rispettosa dell’ambiente, del suolo e di tutti i macro- e micro-organismi di quell’ecosistema. Ma poi, ricordandoci che le sostanze odorose fanno parte del metabolismo primario della pianta, è assolutamente verosimile che anche il potenziale nutrizionale, oltre a quello aromatico, siano differenti. Insomma, a mangiare un pomodoro non aiutato c’è più gusto ma anche più vita e più salute. Alcuni studi preliminare a cui sto partecipando con un ampio gruppo di lavoro iniziano a fornire i primi risultati che sembrano confermare anche scientificamente questa ipotesi molto verosimile sul piano empirico.
E veniamo quindi all’uva. Un acino non vale un acino. L’acino d’uva prodotto da una vite che sarà stata selezionata (grazie alla selezione massale, quella che appunto praticava mio nonno in campo, coi pomodori) per resistere al clima ma anche per produrre i grappoli più sani e gustosi, sarà di per sé portatore di più sapore rispetto a un clone creato per una sola caratteristica: produrre in maniera abbondante o concentrare il frutto o produrre più zucchero o avere la buccia spessa per resistere ai parassiti.
Inoltre un chiccho d’uva che “non è stato aiutato” dai fitofarmaci, si sarà aiutato da sé. Avrà quindi sviluppato un metabolismo primario più attivo, con la produzione di un maggior numero di componenti ormonali e aromatiche. Avrà quindi più gusto e più sapore, che poi vari microorganismi amplificheranno ulteriormente in maniera esponenziale grazie a svariati processi di digestione e trasformazione. Non bastano infatti lieviti e zucchero per fare un vino. Dipende dal substrato che si affida alla metabolizzazione enzimatica, fungina e batterica. Come succede per il formaggio. Il latte di partenza conta. Ed è nella complessità aromatica, nel numero enorme di molecole odorose diverse, che si percepisce la magnificenza di un prodotto alimentare. Oggi invece, il vino industriale, che utilizza lieviti selezionati per produrre un numero molto piccolo e intenso di composti aromatici, ha abituato il palato dei consumatori a gusti molto intensi ma molto poveri in varietà e gamma aromatica. Per questo, bevendo un vino davvero contadino, la differenza in soddisfazione, anche a livello inconscio, sarà così eclatante che difficilmente si potrà continuare a consumare vini tecnologici e industriali.
Stesso discorso vale per i fertilizzanti. L’eccesso di fertilizzazione porta ad un accumulo di sali all’interno del pomodoro quanto dell’acino. I sali richiamano acqua e diluiscono il frutto che si trova ad essere gonfio ma non maturo, costringendo inoltre chi coltiva a continue irrigazioni per non correre il rischio di bruciare il frutto. La vite adattata invece ai climi siccitosi ha imparato da sé a ricercare l’acqua negli strati più profondi del suolo, traendo dalle viscere della terra e dal primo strato di humus tutte le sostanze di cui abbisogna. Ne guadagnerà in resistenza alla meteorologia estrema, resilienza ai mutamenti climatici e, soprattutto, in sapore. Anche qui aiuta l’esperienza del pomodoro della grande distribuzione, che i fertilizzanti hanno reso turgido d’acqua ma totalmente insapore.
Come dicevamo, oltre al substrato atto a essere trasformato, contano i microorganismi trasformatori. Più sono varie le colonie che compongono la “squadra” che trasformerà quel mosto tanto più sarà ampia e interessante la gamma aromatica prodotta. Perché la soddisfazione del palato e del cervello sta nella complessità. Alcuni contadini sostengono che siano solamente i microrganismi di un certo luogo a determinare il sapore finale del vino e che il “terroir” sarebbe da ascrivere a loro soltanto. Questo non è corretto. È l’incontro tra gli aromi dell’uva, gli zuccheri, i composti presenti nella buccia e nella polpa, tutti insieme, a generare, grazie al lavoro della popolazione di microorganismi che vive su quei filari e in quella determinata cantina, il sapore finale del vino, esprimendone davvero il territorio, con sfumature più o meno accentuate influenzate dalla sapiente regolazione dell’uomo, che accompagna il processo decidendo il momento della vendemmia, la permanenza sulle bucce e sulle fecce, i travasi e il riposo in vari tipi di contenitore. Allora il vino diventa complesso e davvero espressione di un territorio, “terroir”, che comprende anche gli abitanti che lo lavorano.
Solo un sistema complesso, non completamente controllabile può generare risultati aromatici altrettanto complessi e altamente sorprendenti. Qualsiasi tentativo di semplificare la complessità, nell’ottica riduzionista tipica della scienza contemporanea, dell’industria e della grande distribuzione organizzata, diminuisce l’entropia del processo e, con essa, la ricchezza aromatica. Si ottiene infatti una perdita secca di valore nell’utilizzare sterilizzatori del mosto, lieviti selezionati e estremi controlli della temperatura, che riducono la vitalità di una buona parte dei microrganismi deputati alla trasformazione del succo d’uva, salvo di quelli selezionati per estrarre un certo tipo di aroma.
La medicina oggi si sta concentrando molto sull’importanza del microbiota, proprio in quanto apportatore di complessità, mentre l’industria enologica vuole castrare questa complessità. Mi pare una contraddizione, anche in termini di salute dell’intestino di chi beve il vino. Perché non dimentichiamo che, salvo filtrazione, i microorganismi di un prodotto vivo, come il vino contadino prodotto senza pratiche chimiche e tecnologiche, vanno ad arricchire la flora intestinale di chi lo beve.
Un ulteriore passaggio che diminuisce il sapore e l’imprevedibile varietà aromatica è appunto il filtraggio, solitamente precedente all’imbottigliamento, che allontana sia sostanze che, nel riposo del vetro, possono essere trasformate in ulteriori aromi; e trattene anche enzimi e microrganismi che, se eliminati da setacci a maglie molto fini, scompaiono dal vino, privandolo della vita e delle opportunità di ulteriore trasformazione aromatica: si produce cioè un vino sterile. Non avverrà infatti alcuna reale evoluzione aromatica in bottiglia in un vino industriale fortemente filtrato ma una semplice micro-ossidazione data dall’ossigeno che verrà scambiato attraverso il tappo.
Infine, se tutto il lavoro di complessità che si è cercato di ottenere con l’allevamento, per il latte, con la coltivazione, per le verdure, e con la cura della vigna, per l’acino d’uva, incontra la multiformità dei batteri trasformatori, ecco che avremo formaggi a latte crudo altamente complessi, verdure latto-fermentate con sfumature non banali e vini con potenziali aromatici sorprendenti. Ma se questo miracolo del sapore sarà mortificato dall’utilizzo eccessivo di sostanze come i solfiti, antimicrobici, antifungini e antienzimatici, questo enorme potenziale di sapore non verrà espresso, se la solfitazione avverrà in una fase precoce della vinificazione, oppure la complessità dell’evoluzione in bottiglia verrà meno o sarà molto rallentata nel tempo, se l’addizione di sostanze solforate avverrà all’imbottigliamento.
La sapienza umana è fondamentale in agricoltura. Ma deve agire nella maniera meno violenta possibile, per non perdere, a ogni intervento, una quota importante della ricchezza di quel cibo. Un prodotto dell’allevamento, dell’agricoltura e della trasformazione è tanto più buono, dal punto di vista aromatico, quando meno l’uomo è intervenuto a impedirne i processi di fisiologico accrescimento, riproduzione, fruttificazione, maturazione e digestione.
Un cibo non troppo aiutato sarà più buono per il Pianeta, più buono dal punto del potenziale nutrizionale, più buono per gli effetti sul benessere del microbiota intestinale e, soprattutto, più buono dal punto di vista della ricchezza nel sapore.
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